Vivere la “prova” perché il piede “zoppo” guarisca
Inserito il 22 Agosto 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese“«Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio». Perciò, rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (cfr. Ebrei 12,5-13).
Questo “passaggio” della Lettera agli Ebrei affronta la delicata tematica dell’«educazione» divina dei figli “attraverso le prove”. Non dimentichiamoci che essa fa seguito alle affermazioni sull’esperienza vissuta da Gesù, il Figlio, che “attraverso quello che patì esperimentò la fedeltà”.
Qui il rapporto educativo “padre-figlio” è ricostruito secondo i criteri dell’antica pedagogia che prevedeva il ricorso a sistemi preventivi e rigorosi. È proprio dentro la cornice di questo sistema educativo che si può inserire il discorso del nostro autore, il quale desidera offrire una riflessione sul senso delle prove, tribolazioni o sofferenze dei cristiani.
Le conclusioni della sua argomentazione, che si avvale del metodo dell’analogia, si possono riassumere così:
1. le sofferenze sono un «segno» del rapporto di figliolanza con Dio, perché solo verso i figli veri si rivolge la cura pedagogica-disciplinare dei genitori (-> Dio Padre).
2. l’educazione o pedagogia divina a confronto di quella terrena o umana ha questo vantaggio: è fatta da un Padre che in quanto «celeste» ha di mira il bene definitivo dei suoi figli che consiste nel partecipare alla sua santità, alla sua pienezza di vita.
3. quindi nonostante l’attuale crisi o sofferenza che provoca questa pedagogia divina essa alla fine produrrà un frutto eccezionale: una vita corrispondente alla divina volontà, garanzia della pace o salvezza definitiva.
Questo modo di affrontare il problema delle sofferenze o tribolazioni cristiane ha una sua logica quando si sono accettati i criteri dell’antica pedagogia (che suscitano legittime perplessità e riserve al confronto con le moderne scienze dell’educazione).
Ma il problema non è qui. Il rischio è quello di semplificare il paragone utilizzato dal nostro autore tra pedagogia umana e divina, e concludere che Dio è Padre perché «rimprovera e castiga» i suoi figli e tanto più si rivela buono e paterno quanto più li “riprende”.
Il paragone condotto alle sue estreme conseguenze porterebbe ad attribuire a Dio le sventure e disgrazie o le sofferenze e tribolazioni che colpiscono i credenti. Se in una visione teologica astratta si può far rientrare “tutto quello che capita” nel disegno di Dio, resta il fatto che le criminalità umane, fonte spesso di sofferenza e dolori, come nella morte di Gesù, non possono essere semplicisticamente giustificate sulla base del “destino”.
Solo in un contesto di fedeltà, sulla linea di Gesù (il Figlio fedele anche nelle prove) le sofferenze che accompagnano l’esistenza dei credenti possono diventare un invito a riscoprire il nuovo rapporto con Dio Padre in un contesto là dove la fede viene purificata anche dalle sue scorie di illusione e di interessi superficiali. In altre parole l’efficacia della «pedagogia» divina delle prove suppone già quella scelta di fede e fedeltà che trova in Gesù la sua sorgente (e nei padri dell’Antico Testamento e nei Santi i testimoni). Certamente queste considerazioni entrano in un percorso delicato ma estremamente concreto e quotidiano. Un percorso da approfondire, da leggere con gli occhiali del nostro tempo, ma inevitabile. Le prove di ogni giorno non si possono eludere. O le “attraverso” nella fede di un figlio che si affida a Dio Padre oppure vivrò l’illusione della mia presunta onnipotenza seguita da un’inutile fuga, deluso davanti all’incapacità di avere in pugno il cammino della vita.
Don Danilo