Inserito il 31 Ottobre 2019 alle ore 08:05 da Redazione Carpinetum
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 3/11/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
Da alcune settimane in coda al foglio vengono pubblicate le pagine dedicate alla parrocchia della Ss. Trinità di via Terraglio 74/C (Mestre – VE), ora guidata da mons. Fabio Longoni.
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Inserito il 31 Ottobre 2019 alle ore 08:00 da Don Gianni Antoniazzi
Giovedì 31 ottobre le nove parrocchie del Vicariato di Carpenedo si sono fuse con le altre di Mestre e Castellana. È nata una realtà più vasta. Nella fede interpretiamo questo cambiamento come dono di Dio.
Fin qui la parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio ha fatto parte del vicariato di Carpenedo, insieme ad altre otto comunità cristiane. C’era una ragione in questa scelta: l’attuale Vicariato, di fatto, coincideva col territorio della vecchia parrocchia di Carpenedo che abbracciava le zone da Zelarino alla Favorita e da via Bissuola sino al confine con Favaro.
Da questa settimana le cose cambiano e nasce una realtà più vasta, insieme a Mestre e alla Castellana. Le parrocchie da nove diventano 25, i sacerdoti e i diaconi in servizio e quiescenti passano da 17 a 62 mentre gli abitanti, che prima erano circa 45.000, adesso saranno 128.000. Si tratta di una parte preponderante della diocesi di Venezia.
C’è un rischio: se già prima si faceva faticava a costruire rapporti stretti figuriamoci con una realtà così estesa. Tuttavia, esistono anche delle opportunità: se il Vicariato sarà ben condotto avrà più rilievo nelle realtà civili, sarà più stimolante nei confronti dei sacerdoti e capace di una maggiore organizzazione con più ricchezza di opinioni e varietà di figure umane.
L’esperienza ci dirà quale sarà il vero ruolo di questa struttura. Al momento tutto viene spiegato da alcuni documenti, ma non sempre la vita è figlia delle carte. Tutto da vedere dunque. Per la parrocchia non cambia molto se non la consapevolezza che intorno a noi la comunità ecclesiale sta cercando l’unità ad un livello più ampio di prima.
don Gianni
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Inserito il 27 Ottobre 2019 alle ore 10:04 da Plinio Borghi
La considerazione di sé stessi è un atteggiamento umano, che sottende anche un po’ di autostima, il che non sarebbe male, se non fosse troppo sovente accompagnata da sopravvalutazione o addirittura da quel tipico tocco di autoreferenzialità che infastidisce gli interlocutori. Quest’ultime, alla fine, finiscono per render vane anche le prime giacché ne offuscano la positività e ne alterano la consistenza. Siamo al solito refrain: i requisiti vincenti rimangono quelli di mostrarsi per quello che si è e di rifuggire da un lato il compiacimento e dall’altro la falsa modestia, che serve solo per piaggeria. Nei rapporti umani, in ogni caso, è bene evitare di dare tutto per scontato, lo sappiamo e pertanto vanno messe in conto sottovalutazioni e ingiustizie, avverso le quali bisogna combattere, con determinazione, ma sempre con tanta umiltà. La vera umiltà, che è quella della quale il nostro divino Maestro ci ha dato ampio esempio; quella perorata da S. Agostino come unica e assoluta chiave per liberarsi dalla schiavitù del peccato. Il guaio è che sul concetto saremmo d’accordo, se non fosse che per pesare la nostra esaltazione necessiterebbe una bilancia industriale mentre per misurare la nostra mitezza ci servirebbe un bilancino da orefice. Non occorre dilungarsi in esempi, dato che ciascuno per proprio conto ne sciorinerebbe a iosa. Ora, se questa è la tendenza fra “umani”, sembra difficile che nel rapporto con Dio si riesca a compiere un bel salto di qualità. Il fariseo descritto dal vangelo di oggi, impettito davanti al Signore e sprezzante del pubblicano che, prostrato, si batteva il petto, con tutta franchezza ci dà un fastidio da matti, ma quello siamo noi! Tutti perfettini (?) nell’osservare i comandamenti, i precetti, magari anche le opere di misericordia corporali e spirituali, nel credere di fare la carità se alieniamo il superfluo, ma pronti anche a giudicare chi non lo fa o fa meno. Questo atteggiamento ci induce a ritenere che otterremo il giusto riconoscimento al momento del giudizio. Altro atto di presunzione. Certo, lo fa anche Paolo nella sua lettera a Timoteo che la liturgia ci propone oggi, ma in una chiave ben diversa che si chiama “speranza”, la vera certezza del cristiano per aver “terminato la corsa e conservato la fede”. Quindi? È ovvio che si debba partire dall’atteggiamento del pubblicano, non per un autolesionismo gratuito: è la nostra debolezza umana a esigerlo. Gesù non fa una boutade nel concludere “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
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Inserito il 23 Ottobre 2019 alle ore 14:08 da Redazione Carpinetum
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 27/10/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
Da alcune settimane in coda al foglio vengono pubblicate le pagine dedicate alla parrocchia Ss. Trinità di via Terraglio 74/C (Mestre – VE), ora guidata da mons. Fabio Longoni.
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Inserito il 23 Ottobre 2019 alle ore 13:52 da Don Gianni Antoniazzi
I nostri cari che hanno varcato la soglia del tempo non sono persi. Ci sono accanto nel cammino
di tutti i giorni. Bisogna capire in quale modo ci stanno vicini e come possiamo dialogare con loro.
Secondo il Vangelo, la morte non è la conclusione di tutto, ma il passaggio a un’esistenza completa. Saremo partecipi della vita del Risorto. Non andremo in un luogo fisico: spazio e tempo sono pur sempre limiti. Saremo compiuti e trasfigurati, in una situazione di affetto completo. Nessuno mancherà in quell’abbraccio. La comunione sarà piena anche fra vivi e defunti. Un genitore continuerà ad essere parte della vita dei figli e viceversa. Si tratta di un legame autentico, forte e maturo.
Questo rapporto però non si sviluppa secondo la causa e l’effetto, ma nell’intimità del bene. Vale a dire: non si può interrogare un defunto e aspettare la sua risposta. Le parole umane non sono sufficienti per chi vive di eternità. Coi defunti, però, si può stabilire una comunione vera nell’amore, come nel caso di due innamorati: si vogliono e si amano al punto da guardarsi negli occhi senza rompere il silenzio.
Più viviamo nell’amore fraterno come Cristo ci ha insegnato, più saremo uniti ai nostri cari. Questo annuncio che sgorga dal Vangelo non è razionale, cioè dimostrabile con esperimenti di laboratorio, ma è del tutto ragionevole, nel senso che corrisponde all’esperienza provata.
don Gianni
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Inserito il 21 Ottobre 2019 alle ore 08:00 da Redazione Carpinetum
Da domenica prossima, 27 ottobre, tornerà l’ora solare. Significa che si dormirà un’ora in più. Le Messe restano agli orari consueti. Dovremo soltanto ricordare di portare indietro le lancette dell’orologio di 60 minuti.
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Inserito il 20 Ottobre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Metterci l’anima. Quante volte abbiamo usato questa espressione per significare che uno ce la mette tutta in quello che fa! E non vuol dire che gli piaccia o ci riesca: vengono soppesati la buona volontà e l’impegno profuso. È comune pure in dialetto e spesso è indirizzato proprio a chi, nonostante tutto, non ottiene ciò che si era prefisso, magari a fronte di altri che, senza tanto sforzo e a volte per pura fortuna, ottengono risultati migliori: “Poareto, e pensar ch’el ghe ga messo l’anema!”. Fan da contraltare atteggiamenti opposti, come la svogliatezza e l’inettitudine, i quali lasciano poco spazio a risultati concreti, ma, se presenti in posizioni di un certo rilievo, riescono a scombinare parecchio anche la vita altrui, oltre alla propria. Qui l’elenco dei casi emergenti, purtroppo, si farebbe molto più lungo dell’altro, forse perché i brutti esempi colpiscono di più dei buoni. E non risparmiano alcun settore o sistema. Non mi riferisco tanto alla corruzione, pur diffusa: a volte anche per delinquere qualcuno ci mette l’anima. No, il fastidio è per l’indolenza perniciosa e, chissà perché, i primi casi che mi sovvengono sono quelli dei giudici che, per non aver provveduto a stendere in tempo le motivazioni di una sentenza, hanno fatto decadere i termini di carcerazione nei confronti di criminali incalliti. Forse l’associazione di idee non è fortuita: il vangelo di oggi parla proprio di uno di questi (il vizio è atavico!) e di una vedova che gli chiedeva invano giustizia. Gesù contrappone a questo inetto Dio stesso, che invece non rimane insensibile al grido che giunge dai suoi eletti. C’è una sorta di “compensazione” in questo brano di Luca, che sembra rispondere a un anelito diffuso: il bisogno di certezza che ci sarà una Giustizia divina, specie per gli oppressi in questa vita. Ci va bene l’infinita misericordia del Padre, ma ci tranquillizza sapere che anche la giustizia farà il suo corso. Attenzione, però. Sul desiderio di rivalsa deve prevalere la fede, sennò rischiamo di cadere vittime anche noi. “Rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente” dice oggi S. Paolo a Timoteo. Appunto. Domani verremo tutti giudicati non tanto su quello che avremo o meno realizzato. Anche, ma soprattutto se “ci abbiamo messo l’anima” in quello in cui eravamo impegnati, a prescindere dai risultati. Infatti, il Salvatore finisce di rassicurare i discepoli con una frase angosciante: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.
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Inserito il 17 Ottobre 2019 alle ore 18:39 da Redazione Carpinetum
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 20/10/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
Dalla scorsa settimana in coda al foglio vengono pubblicate le pagine dedicate alla parrocchia Ss. Trinità di via Terraglio 74/C (Mestre – VE), ora guidata da mons. Fabio Longoni.
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Inserito il 17 Ottobre 2019 alle ore 18:30 da Don Gianni Antoniazzi
Col mese d’ottobre riprende per ogni ordine di studenti un impegno intenso. Perché fare tanta fatica? Non si vive solo per soddisfare bisogni ma con sapienza conoscenza e amore pienamente umano
In questo periodo dell’anno riprende l’attività dello studio. Non si compie tanta fatica soltanto per un lavoro o uno stipendio elevato. L’esercizio razionale e la ricerca culturale sono fondamentali per sviluppare le capacità umane e mantenere in allenamento la mente.
La società cambia. Fra 30 anni molti nostri figli svolgeranno un lavoro che ancora non esiste. È fondamentale far crescere la sapienza e la saggezza per affrontare le sfide future.
C’è di più. Non si può dividere la persona in anima e corpo, contemplazione e azione, studio e lavoro, cultura e azione. Sono categorie incomplete. L’uomo è un tutt’uno. La vita piena, ricca di gioia, fiorisce soltanto in chi si è sviluppato a 360 gradi.
Per esempio: vanno di moda gli spettacoli legati al cibo. Una sorta di bulimia sociale. Ma un popolo non si sazia solo col cibo, il cuore dell’uomo desidera la sapienza. Così il lavoro esige una mente vivace e sprona a una continua ricerca mentre l’attività culturale deve invece misurarsi con la concretezza di ogni giorno.
Vale anche per la nostra fede. Essa non è una questione soltanto spirituale o razionale. L’uomo saggio ascolta il Vangelo e poi lo mette in pratica. Chi si preoccupa soltanto di un aspetto della propria vita è come uno che costruisce la sua casa sulla sabbia. Davanti alle prove crolla e fallisce.
don Gianni
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Inserito il 13 Ottobre 2019 alle ore 08:00 da Plinio Borghi
Dare tutto per scontato non è un atteggiamento corretto, perché induce o a non tenere in debito conto l’apporto determinante di chi ti può aver aiutato, magari per dovere, o a piegare la realtà solo a nostro favore. Ne abbiamo un esempio nel vangelo di oggi. Gesù incontra una decina di lebbrosi che gli chiedono di guarirli. Danno per scontato che lo sappia e lo possa fare, sentite le voci che corrono nei suoi riguardi. Chiaramente lo prendono più per un taumaturgo che non per il Messia. Infatti, di primo acchito, sembra quasi stizzito, stando a come la reazione è riportata in modo conciso: li dirotta ai sacerdoti. C’è in questo una sintonia con la risposta di Abramo al ricco epulone di due settimane fa, quando questi lo implorava d’inviare Lazzaro ai fratelli: se non credono ai profeti, neanche se uno risuscita dai morti avranno motivo per credere. Poi il Maestro sembra cambiare idea (o forse aveva già in mente di farlo) e, mentre quelli si avviano, li guarisce tutti. Cosa ci saremmo aspettati? Un rapido dietrofront di gruppo per rendere un corale ringraziamento all’autore di cotanto dono. Macché. Uno solo torna di corsa e peraltro samaritano, che è come dire miscredente o straniero. Ancora una volta viene posta in evidenza l’azione di un samaritano (come per la donna al pozzo di Giacobbe e per colui che soccorse il malcapitato bastonato per strada) rispetto all’indifferenza di chi dovrebbe ritenersi osservante. “E gli altri nove dove sono?”, si chiede anche Gesù. L’evangelista non lo racconta, ma è da presumere che non siano andati nemmeno dai sacerdoti: semplicemente avranno desunto un ravvedimento “dovuto” da parte di quell’Uomo che tutti descrivevano buono e generoso verso tutti. Quanto ci riconosciamo in quei nove? Quante volte ci sentiamo di ringraziare chi ci presta un minimo di attenzione, fosse anche obbligata? O forse siamo più propensi a pretendere, anche da chi lo fa per volontariato? Ne ho viste di scene di tal fatta, forse dettate da una sorta di complesso d’inferiorità verso chi contrappone la sua generosità alla nostra grettezza! Il Papa ha esordito nel pontificato suggerendo di adoperare nei rapporti tre parole: grazie, prego, scusa. A cominciare da chi ci sta a fianco in casa e del cui fare diamo tutto per scontato. Furono salvati i nove lebbrosi? Guariti sì, salvati no: è mancato il conseguente atto di fede. Solo quello tornato a ringraziare è congedato con: “Va, la tua fede ti ha salvato!”
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