Inserito il 29 Aprile 2018 alle ore 09:55 da Plinio Borghi
“Fatti e non parole” sembra lo slogan più obsoleto in circolazione, usato e abusato ad ogni piè sospinto anche da chi, per decenza, farebbe meglio ad evitarlo. In campagna elettorale, per esempio, dovrebbe essere un j’accuse dell’elettore e non la sottolineatura dei candidati a tutte le promesse sbandierate con la consapevolezza che non saranno poi mantenute. S’è notato, per dirne una, che fine hanno fatto la “flat tax” e il “reddito di cittadinanza” nei punti programmatici offerti nel tentativo di formare il nuovo governo? Eh, è il prezzo del compromesso (leggi: spartizione del potere), pena il peggio che possa succedere.. e una caterva di giustificazioni è già bell’e pronta. Tornando allo slogan, c’è una fonte non sospetta e per niente obsoleta che la liturgia di oggi ci offre: la seconda lettura, dalla lettera di san Giovanni apostolo, che esordisce proprio con “Figlioli, non amiamo a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”. Un invito che è la sintesi di tutto l’annuncio evangelico, annuncio sempre attuale e rimasto immutato nei secoli. Per due motivi: il primo perché è innestato nel Salvatore stesso che lo incarna; il secondo perché si basa sull’amore, motore intramontabile che fa girare il mondo. Tutto ciò che si discosta da questi due elementi è destinato a naufragare e, l’abbiamo sempre constatato, a creare danni. S’è mai vista una guerra provocata da un amore sviscerato verso chi si combatte? Ed è concepibile la ricerca della Verità a prescindere da Cristo? Oggi nel vangelo Gesù ci presenta un altro spaccato molto semplice di questa realtà: ci paragona ai tralci, che solo attaccati alla buona Vite (lui stesso) sono in grado di produrre buon frutto. Se qualcuno pensa di improvvisarsi vite, ammesso che ci riesca, non potrà produrre nulla di gradevole. Mi sovviene l’episodio di quando accusarono il Maestro di essere amico di Satana. Che cosa rispose ai suoi interlocutori? “Può un demonio scacciare gli altri demoni? Può il maligno compiere le cose belle che io ho compiuto?”. È perentorio Gesù oggi: “Senza di me non potete far nulla”. Ecco perché nei fatti dimostriamo la nostra appartenenza a lui e le parole lasciano subito il tempo che trovano. “Non chi dice Signore, Signore.., ma chi fa la volontà del Padre mio”. E che cosa anima questi fatti? L’amore, ovviamente. “Da come vi amerete gli uni gli altri capiranno che siete miei discepoli”. La lezione, anche per oggi, è chiara. Resta solo da metterla in pratica.
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Inserito il 25 Aprile 2018 alle ore 21:32 da Redazione Carpinetum
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Inserito il 25 Aprile 2018 alle ore 21:05 da Don Gianni Antoniazzi
Il Primo maggio si è soliti celebrare il lavoro come strumento di realizzazione della persona
La disoccupazione e la precarietà continuano ad affliggere i più giovani condizionandone il futuro.
Sono riflessioni discutibili, ma vanno proposte. Per la sacra Scrittura il lavoro non è condanna, ma realizzazione, è la strada gioiosa per dar corpo alla vita, ciascuno con le proprie capacità. La situazione attuale, però, ci porta altrove. Già è difficile trovare un impiego. Quando si ottiene un contratto spesso è precario e bisogna spegnere gli interessi personali. Peggio: manca anche la solidarietà che in passato offriva un po’ d’aria fresca. Attenzione perché il “lavoro imposto” era chiamato “schiavitù”.
Bene, chi oggi desidera libertà, soprattutto fra i giovani, deve valutare un’ipotesi: non più “cercare”, ma “creare” lavoro. Il passo è rischioso ma nessuno diventa genitore senza le responsabilità connesse, né c’è vita senza rischi. Dunque: senza esporsi non si trovano soddisfazioni. È importante, poi, che il lavoro sia anche in armonia con il creato. Alcuni giovani tornano a coltivare terra per un prodotto biologico di qualità. Bello, ma non basta. Tutto chiede una nuova sinergia con l’ambiente altrimenti l’opera umana non ha futuro.
Da ultimo bisogna riconoscere che esistono lavori inutili e dannosi. C’è, per esempio, chi vive di burocratismo, che non solo fa il parassita sulle tasse degli altri, non solo complica l’esistenza a chi desidera costruire un’attività, ma si fa anche venerare come un reuccio che concede quel che è dovuto come se fosse un generoso “atto di clemenza”.
don Gianni
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Inserito il 22 Aprile 2018 alle ore 10:11 da Plinio Borghi
A me una leva e alzerò il mondo, disse pressappoco Archimede, esprimendo così un concetto che aveva sì tutto il suo fondamento tecnico, ma rivestiva anche un importante indirizzo di vita sotto ogni profilo. In fin dei conti non ci fu granché da scoprire: basta una stanga e un fulcro e, fatti i conti tra peso da sollevare e resistenza del materiale, il gioco è fatto. Quel fulcro, tuttavia, ci indica come in tutte le cose ci sia bisogno di un punto d’appoggio che ti sia riferimento e ti consenta di sviluppare in modo mirato tutto il tuo potenziale. Tanto vale pure nei rapporti umani (gli stessi affetti trovano un loro slancio nel reciproco supporto), nei campi scolastico, culturale, sociale, politico e financo, anzi, soprattutto in quello spirituale. Come non esiste che uno pensi di librarsi in qualsivoglia disciplina senza trarre spunto dai percorsi già attuati da chi lo ha preceduto e senza essere impostato da insegnanti e insegnamenti ben precisi, così è per le esigenze dello spirito, che, per noi credenti in particolare, sono sostenute dai riferimenti sicuri che stanno alla base della nostra fede. Nella fattispecie per noi cristiani il nostro rifugio e la nostra sicurezza è Gesù Cristo, morto e risorto, e il fulcro è costituito dal Vangelo. Va anche detto, a ragion del vero, che nessuno è disposto a consegnarsi a occhi chiusi al primo che passa e ti alletta: ne va della tua vita. Ne consegue che, nei limiti del possibile, i tuoi maestri sono oggetto di selezioni accurate e devono darti le dovute garanzie. Noi, con Gesù, non abbiamo di questi problemi: siamo noi a essere stati addirittura scelti, siamo le sue pecore ed Egli è il nostro pastore, ci conosce ad uno ad uno e noi conosciamo Lui, distinguiamo la sua voce; se ci perdiamo è sempre Lui che viene a cercarci. Chi altro può vantare un rapporto simile col proprio maestro? Detto questo, però, non adagiamoci sugli allori: siamo impegnati a corrispondere a tutta quest’attenzione, prima di tutto cercando di essere uniti (ricordiamo il saluto “Pace a voi!”, col quale il Risorto continua a esordire) e poi sostenendo e aiutando la Chiesa, sposa di Cristo e strumento terreno per la realizzazione del Regno, nel compito che egli le ha affidato. Oggi è la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, ma non basta pregare, occorre anche sollecitarle e promuoverle, per essergli in concreto riconoscenti e perché si realizzi il suo desiderio: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre”.
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Inserito il 18 Aprile 2018 alle ore 18:43 da Redazione Carpinetum
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 22/4/2018. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
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Inserito il 18 Aprile 2018 alle ore 18:26 da Don Gianni Antoniazzi
Il 25 aprile la nostra parrocchia festeggia le prime comunioni di 50 bambini delle elementari
Alla Messa seguiranno i pranzi: anche Gesù amava la convivialità come momento d’incontro.
Gesù amava i banchetti. Il 70% dei Vangeli parla di feste, cene e pranzi. Ci sono le nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani e dei pesci per 5.000 persone, “contando solo gli uomini”. C’è la parabola del banchetto messianico e quella dei talenti, con le parole: “Servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. C’è il padre misericordioso che festeggia col vitello grasso il ritorno del figlio e ci sono momenti conviviali in casa di peccatori: con Zaccheo e i suoi amici o con Levi, chiamato dal banco delle imposte.
Il banchetto più celebre è quello dell’ultima cena, al quale soprattutto l’evangelista Giovanni dedica un ampio spazio. Noi cristiani lo celebriamo ogni domenica, nel memoriale dell’Eucaristia. I bambini vengono introdotti a questo appuntamento poco per volta, guidati dai genitori e sostenuti dai catechisti. La parrocchia si sforza di accoglierli, ma la loro vera partecipazione dipende da tutti noi, adulti nella fede.
La prima Comunione, che celebriamo nella festa di San Marco alle 10, ci esorta a crescere nella cura della nostra celebrazione: dopo tanti secoli di cristianesimo, infatti, è ragionevole che si sia persa la freschezza iniziale. Potremmo essere forse più puntuali, ordinati, capaci di compiere un servizio responsabile, pronti al canto. I bambini imparerebbero molto. Stiamo però attenti a ricordare che non serve la perfezione: il Signore ha banchettato con peccatori e anche oggi ci accoglie sempre, così come siamo. Se la Messa fosse solo per persone meritorie, la chiesa sarebbe sempre vuota.
Don Gianni
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Inserito il 15 Aprile 2018 alle ore 10:14 da Plinio Borghi
L’associazione di idee è un meccanismo che si innesca quando una frase o un episodio te ne richiamano altri, non necessariamente affini o collegati. Nulla a che vedere quindi con le coincidenze o le sincronicità quantistiche, tanto care alla nostra collaboratrice e scrittrice Adriana Cercato. Leggendo il vangelo di oggi la mia mente vi ha associato un curioso scambio di battute avvenuto molti anni fa durante un tour con una famiglia amica (allora si girava con le tende). Lungo l’itinerario prestabilito, sulla cartina ci si accorge di un sito e mia moglie se ne esce con il suo classico: “Eh, questo bisogna ‘ndarlo vedar!”. Al che il mio amico, che fungeva un po’ da capo comitiva e piuttosto rigido nelle sue impostazioni, è sbottato: “Qua no bisogna gnente! Solo morir bisogna!”. Frase sacrosanta, evangelica, espressione di quanto stiamo seguendo nel periodo forte della nostra liturgia. L’amico non l’ha detto certo con questo taglio, ma, per associazione di idee, appunto, le due cose mi si sono collegate. Oggi il Risorto appare ancora fra i suoi, peraltro spaventati perché non ancora assuefatti alla novità, e riprende un discorso affrontato in Quaresima: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me…” . Si riferiva al chicco di grano che deve morire per dare frutto e infatti poi prosegue: “Il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati”. Ecco i frutti che solo la sua morte poteva produrre. Domenica scorsa ha promosso gli stessi apostoli a latori di questa divina Misericordia (e non a caso San Giovanni Paolo II così ha deciso che fosse chiamata quella festa) e oggi vuole loro e tutti noi “testimoni”: non un ruolo passivo, dunque, ma ben attivo. Il testimone non si limita a riferire, bensì vive in tutto il suo comportamento la fede che lo motiva, il Vangelo che lo forma e lo guida, la tensione a quella che sarà anche la sua resurrezione (come ci ricorda Giovanni nella seconda lettura), che passa giusto per come ci rapporteremo col prossimo. “Pace a voi”, insiste il Maestro nell’apparire, pur avendone ben donde per nutrire risentimento. Se non è arrabbiato lui con noi, ci arroghiamo noi il diritto di esserlo con gli altri? Per essere bravi testimoni, intanto, ripetiamo la preghiera che ci suggerisce il salmo responsoriale: “Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto”.
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Inserito il 11 Aprile 2018 alle ore 23:01 da Redazione Carpinetum
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 15/4/2018. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
Ci scusiamo per il ritardo nella pubblicazione odierna dovuto a un problema tecnico del nostro fornitore di spazio web.
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Inserito il 11 Aprile 2018 alle ore 19:12 da Don Gianni Antoniazzi
Qualcuno pensa che la storia, le identità e anche la fede siano degli ostacoli all’integrazione fra le diverse culture. Vale il contrario. Sono il vuoto e la mancanza di riferimenti che generano fantasmi.
Qualcuno lavora perché lo spazio pubblico sia “vuoto”, senza simboli di identità, slegato da riferimenti al passato, privo di qualsiasi valore di appartenenza. Secondo costoro, soltanto in questo modo ci sarebbe una vera occasione di integrazione, libertà e democrazia. L’esperienza però insegna che vale il rovescio. Lì, dove i valori del passato sono stati tolti, dove non viene riconosciuta alcuna fede, dove regna il “vuoto” culturale, lì cresce l’orrore e la sopraffazione del potere è più rapida, anche perché esso non deve misurarsi con la forza della cultura e dei valori. Il vuoto produce indifferenza per la vita, per il futuro.
Bisogna ribadire dunque che l’integralismo e la violenza non nascono da un’appartenenza religiosa. Semmai, al contrario, si moltiplicano laddove non c’è una vera ricchezza di valori. Basta ricordare un episodio del Vangelo: morto Gesù, gli apostoli stanno chiusi nel cenacolo, del tutto intransigenti nelle loro posizioni. Quando si aprono alla fede nel Risorto e accolgono il suo Spirito diventano più accoglienti: spalancano le porte e accolgono chi la pensa in modo diverso. Non bisogna dunque dar retta ai maestri del vuoto, ma proporre sempre l’incontro con Dio. È uno dei doni più preziosi che possiamo fare.
don Gianni
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Inserito il 8 Aprile 2018 alle ore 08:00 da Plinio Borghi
Razionalità e fede: è l’eterno binomio che si rincorre, s’incontra e si scontra da quando esiste l’uomo. Anche la mente più pigra e refrattaria, se sollecitata in tal senso, ha un moto di reazione e tende a schierarsi o per l’una o per l’altra ovvero a sostenerne l’interazione. Credere solo a ciò che si vede, che si può toccare con mano, che si può dimostrare? È una posizione già superata da lunga pezza anche dal più convinto materialista. Infatti, qualsiasi scoperta scientifica ha poi bisogno di una serie di verifiche per essere confermata, che non possono essere eseguite se non si crede almeno nel risultato parziale o provvisorio. Escludere il processo razionale nelle questioni di fede? Ci ha pensato lo stesso San Tommaso d’Aquino a dare una bella spazzolata a teorie di tal fatta e oggi nessuno, nemmeno il filosofo più miscredente, si sogna di pensare che nelle questioni di fede non ci sia anche una logica razionale. È pur vero che la fede è un dono e lascia ampio spazio alla più spontanea e genuina espressione dell’animo, ma ciò non esime dall’approfondimento, dalla ricerca e dai riscontri chiunque vi si voglia cimentare al fine di rafforzare le proprie convinzioni. Oltretutto, per chi la possiede, questo è anche un modo per preservarla, alimentarla e incrementarla, sempre accompagnato ovviamente dalla preghiera. Orbene, checché riporti il detto comune, l’apostolo Tommaso, richiamato nel vangelo di oggi, è l’antesignano degli atteggiamenti in argomento e ne rappresenta l’intera gamma. Anch’egli tende a non voler credere senza vedere, senza mettere dito e mano; ma quando il Risorto gli appare, in un attimo fa sintesi di tutto il suo insegnamento (processo razionale); malgrado l’invito del Maestro, non mette il dito sulle ferite (al di là di come alcuni artisti lo rappresentano) e invece prorompe con un’affermazione che è la dimostrazione di un vero, spontaneo, profondo e genuino atto di fede: “Signore mio e Dio mio!”. Un atteggiamento che ha saturato d’emblée il buco aperto dalla sua titubanza. Gesù, però, non intende chiudere con una pietra tombale l’argomento e non tanto per l’apostolo, quanto per noi. “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”, aggiunge al rimprovero per Tommaso. E in quel “beati” è racchiusa tutta la prospettiva di vita riservata non a babbei o a creduloni senza costrutto, bensì a chi saprà forgiare la propria fede sui presupposti forniti dal Vangelo. Chi ha orecchie da intendere…
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