Lettera aperta del 1° maggio 2016
Inserito il 27 Aprile 2016 alle ore 20:00 da Redazione CarpinetumAbbiamo inserito nel sito lettera aperta del 1°/5/2016. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
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In alcune località il 1° maggio si svolge la benedizione sugli animali. In campagna la cosa si faceva il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate. In effetti la vita rurale dipendeva da mucche, buoi, tori e animali da cortile. I contadini li facevano benedire e nessuno osava negare la preghiera, visto che le bestie erano decisive nella sorte della famiglia. C’era però chiarezza sui ruoli: gli uomini non potevano essere offesi, neppure quelli ostili, gli animali stavano fuori casa, anche se affettuosi. Non solo: si tenevano gli animali necessari; quelli di compagnia erano uno spreco insostenibile. Vedremo se fare questa benedizione in parrocchia. Per ora è importante non fare confusione. Il mese scorso, infatti, una donna ha contestato un albergo di Abano che ha rifiutato la presenza del suo bambino, mentre era disponibile, su richiesta, ad accogliere animali. È vero: ciascuno è libero di scegliere la clientela più consona alle proprie attese. Il fatto però dimostra i cambiamenti in campo. Par che in certi casi i cani abbiano più attenzione dei figli. Di fatto alcune coppie provano la convivenza acquistando intanto un cucciolo; alcuni anziani sostituiscono i parenti con gli animali; un povero raccoglie più offerte se porta con sè un cucciolo: la gente si intenerisce più per lui che per il padrone. Il vantaggio dell’animale sta qui: non contesta le fragilità e non mette in crisi i rapporti. Accoglie l’amore e non domanda il portafoglio. Per natura, però, non completa il rapporto umano e non sta “a specchio” davanti alla persona. Amati anch’essi da Dio saranno parte della Risurrezione: non si può però sostenere l’animale e dimenticare il fratello, il cui volto è immagine prima di Dio.
don Gianni
Ah, stiamo freschi! Senza scomodare il più volte citato Gandhi, se dovessimo dare uno sguardo al mondo cristiano d’oggi, raffrontandolo al comandamento “nuovo” che Gesù ci consegna nel suo testamento, prima di essere sacrificato, si rischierebbe di cadere in una profonda depressione. Se poi andassimo a ritroso nel tempo, al fine di cercare col lanternino almeno un periodo storico che ci desse un po’ di conforto, la caduta sarebbe garantita e solo la forza della fede eviterebbe un gesto disperato. Il brano che la liturgia odierna ci propone è brevissimo, ma fa parte di un lungo discorso riportato dall’evangelista Giovanni e proferito dal Maestro ai discepoli mentre si recava nell’orto degli ulivi: sostanzialmente un vero e proprio testamento spirituale, una sintesi di tre anni di predicazione. Vale la pena di riportarlo, dato che in sostanza si riduce a due righe: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. Ora, in che cosa consiste questa novità? Se leggiamo il Salmo Responsoriale ci accorgiamo che anche nel Vecchio Testamento era presente l’Amore di Dio e a Dio, e l’amore ai fratelli. La novità consiste nell’aver reso tangibile questo Amore, attraverso l’Incarnazione, e nel consegnare un concreto parametro di riferimento: amatevi fra voi come io vi ho amato. È andata così? Evidentemente no. C’è qualcuno che potrebbe affermare con tranquillità che i cristiani sono stati e sono un esempio di discepolato di Cristo? Ho qualche sacrosanto dubbio e non solo per le nefandezze compiute in nome di Dio, ma anche per il reale sentimento che anima i rapporti. Materiale di lettura ne abbiamo a iosa, a partire da come stiamo gestendo il grosso problema dei profughi e a finire con i rapporti interpersonali, compresi quelli familiari: quanti si sentono di dire che l’amore di coppia o l’amore coniugale è un riflesso di ed è impostato su quello di Cristo? Già il fatto che il Santo Padre non demorda e, dopo l’anno giubilare, abbia pure prodotto l’enciclica “Amoris Laetitia” e ieri (sabato 16 per chi legge) abbia fatto un salto a Lesbo per testimoniare ai migranti la solidarietà della Chiesa, a fronte di quanto in Europa si sta decidendo, la dice lunga. Anche la strada per “amarci come Lui ci ha amato” è ancora lunga, ma non è mai troppo tardi per cominciare a percorrerla.
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 24/4/2016. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
I giornali annunciano un’ondata di questuanti che nella prossima estate chiederanno l’elemosina: è il nuovo business più redditizio.
La parrocchia da anni si sforza di offrire un aiuto a chi ne ha bisogno. C’è la bottega solidale (insieme ai Centri don Vecchi) che raggiunge circa 3800 persone. Vi è il doposcuola per più di 40 bambini, il gruppo San Camillo che segue un’ottantina di malati. Gli amici del patronato organizzano lo svago dei più piccoli mentre il Ritrovo raccoglie un gruppo di anziani (dicono più di un centinaio alla settimana). Il gruppo San Vincenzo sostiene le famiglie in difficoltà mentre da qualche decennio il gruppo Missioni dà una mano notevole a tre comunità di missione. Dal 1300 la Piavento accoglie alcune donne del territorio mentre dagli anni ‘90 i Centri don Vecchi offrono una soluzione agli anziani che cercano un alloggio adeguato. La lista sarebbe lunga ed esprime i modi in cui si spera di servire Gesù, maestro nei fratelli.
Lui si è sempre fatto pane da mangiare. Ha dato tutto fino all’ultimo respiro. Ha sollevato bisognosi, malati, ciechi, storpi, perché subito potessero servire.
Proprio qui sta il punto. La carità non può favorire la pigrizia di chi riceve. Serve un aiuto che possa alzare in piedi chi è nel bisogno. Bisogna costruire lavoro, occorre trasmettere ordine e sapienza a chi non ne ha. Dare l’elemosina talora è inutile, anzi, può essere dannoso se il bisognoso si “siede” comodo sul nostro aiuto. Don Matteo Jequessene, che dal Mozambico è venuto a darci una mano per qualche tempo, l’ha ripetuto fino allo sfinimento: gli aiuti a pioggia del nostro occidente hanno favorito talora la pigrizia dei popoli in via di sviluppo. La carità va fatta con intelligenza, per la crescita di chi dona e di chi riceve.
don Gianni
Lecchini e opportunisti dilagano ovunque, specie se c’è da far carriera o da salire sul carro del vincitore. Si distinguono perfettamente in quanto non hanno mai un adeguato livello di capacità e di preparazione (se l’avessero, non avrebbero bisogno di essere tali!), sono sempre disponibili in modo servile, evitano il confronto diretto e, se ne sono costretti, negano sempre, anche di fronte all’evidenza. Non serve fare esempi concreti: ognuno ne potrebbe portare a bizzeffe in base alle proprie esperienze. Purtroppo sono figure che a volte bazzicano anche nelle parrocchie o nel mondo del volontariato, per secondi fini o in cerca di un mero protagonismo che non avrebbero la capacità di ottenere in modo autonomo. Peccato che i responsabili e i detentori del comando o del potere non abbiano la volontà di isolarli (altrimenti non esisterebbero) e anzi se ne servano ampiamente per il perseguimento dei loro obiettivi, dosando l’uso della “carota” per tenerli sempre in tiro. Orbene, queste categorie di persone sono le prime a guardare con disprezzo i pecoroni, quelli che continuano a servire a testa bassa, senza pretese, quelli che hanno portato il cervello all’ammasso, magari per scarsa convinzione e tanta debolezza, gregge informe del quale si vantano di non far parte. E naturalmente tra i bersagli preferiti ci sono anche quei creduloni di cristiani, che non si offendono nemmeno se sono chiamati ufficialmente “agnelli” o “pecore”, come si diceva domenica scorsa quando Gesù conferì il mandato a Pietro. Non hanno capito, i poverelli, che il nostro Maestro ha introdotto “l’orgoglio di essere pecora” e di appartenere al gregge, perché abbiamo un Pastore, Egli stesso agnello sacrificale, come ci descrive Giovanni nell’Apocalisse, che, a differenza di altri, ci pasce con amore, ci chiama per nome e noi avvertiamo la sua voce, non si fa negare, al contrario, si fa conoscere bene da ognuno e se qualcuno si perde lo cerca personalmente e lo riporta all’ovile. Non ha bisogno di cani per tenere radunato il proprio gregge, quindi men che meno di lecchini al suo seguito. Non basta, oggi nel vangelo afferma che non esiste chi potrà rapirci dalle sue mani, poiché gli siamo stati affidati direttamente dal Padre. Infine nessuno ha bisogno, con Lui, di cercare protagonismo: nel reciproco amore non serve, si è tutti protagonisti. Sfido chiunque, a partire dai miscredenti, a trovare situazioni più realizzanti e appaganti!
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 17/4/2016. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
Lunedì 25 aprile, alle 10.00, i ragazzi di prima media cominceranno a fare comunione col Signore. Su lettera aperta ricordiamo i loro nomi. Il 29 maggio, alle 16.00 del pomeriggio sarà la volta della quinta elementare. Bisogna avere attenzione: questi appuntamenti non riguardano soltanto i ragazzi, i loro catechisti e i capi scout. Tutti riceviamo un segno per comprendere il dono dell’Eucaristia, che cioè Dio si dona a noi per la nostra salvezza, affinché anche noi ci doniamo ai fratelli.
Nell’Eucaristia c’è un incontro vero con Cristo, che ha legato la sua presenza al pane consacrato. Nell’ultima cena ha spezzato il pane come segno di comunione. Ad Emmaus si è fatto riconoscere con questo gesto. Nella terza apparizione al lago ha offerto questo cibo agli apostoli, tornati dalla pesca miracolosa. La Chiesa ha sempre celebrato la Pasqua di morte e risurrezione spezzando il pane consacrato.
Talora facciamo la Comunione in modo frivolo, quasi fosse una passeggiata per interrompere il ritmo della Messa. Per taluni la prima Comunione è una tappa di iniziazione umana, per altri un’occasione di festa coi regali. Essa invece è il sacramento della maturità, è cibo per la vita dell’adulto.
Ci sono credenti che pensano di sostituire l’Eucaristia col servizio o un’azione sociale. Bisogna essere cauti: l’ignoranza della Scrittura diventa ignoranza di Cristo e la distanza dall’Eucaristia ci rende come tralci secchi, staccati dalla vite, senza frutto.
Ricordiamo nella preghiera i nostri figli che cominciano a ricevere la Comunione, ma prima ancora diamo loro l’esempio di una comunità matura che sta col suo Signore.
don Gianni
A Dio non basta perdonare: vuole rimetterti in gioco. La liturgia di questa domenica segue a ruota, nella logica e nel merito, quella di domenica scorsa. D’altronde sarebbe ben triste che il Cristo fosse morto e risorto per salvare gli uomini nella sua misericordia, come recitiamo oggi nel Canto al Vangelo, se poi non desse loro la chance per un rilancio. E che rilancio! Infatti, nel dialogo che s’instaura tra Gesù e Pietro, per ben tre volte gli chiede quanto sia disposto ad amarlo, tanto che alla terza l’apostolo ne rimane addolorato: avverte in questa insistenza un chiaro riferimento, quasi una richiesta di “sanatoria” al triplice rinnegamento perpetrato durante il giudizio, prima del secondo canto del gallo, come il Maestro aveva previsto. Pianse amaramente, quella notte, prendendo atto della sua debolezza e quindi stavolta non si limita al “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”, ma, messo alle corde, aggiunge: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. La resa è completa, il discepolo, persa la sicumera di quel “Certo”, si fa strumento nelle mani del suo Salvatore e così sarà fino all’epilogo sacrificale che questi già gli predice. Tutte e tre le volte Gesù lo investe di un compito non da poco: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle”. Siamo agli antipodi di ciò che succede nel mondo, dove la misericordia è un atteggiamento talmente raro da diventare un titolo da prima pagina. Men che meno è contemplata dalla legge, nella quale del condono, dell’indulto o dell’amnistia tutto si può dire tranne che partano dal cuore. Anche per chi ha pagato il proprio debito, un minimo di riscatto non è facile e, quando gli si fa luogo, non approda a scelte di spessore; della serie “con quel che hai combinato, accontentati di quello che viene, che è già tanto”. Poi ci sono i furbi, che godono di ben altri risvolti, ma questo è riservato ai professionisti del crimine. La logica di Dio, per nostra fortuna, va in tutt’altra direzione e non cambia nemmeno di fronte alla recidività. È la logica del figliol prodigo e del padre misericordioso e quello che fa la differenza non è tanto il tipo di “reato” quanto la genuinità del pentimento (umanamente impossibile da accertare), per cui il riscatto lascia spazio anche a cospicue prospettive. I grandi convertiti, divenuti poi grandi santi, stanno a dimostrarlo. Quindi, conta la grande lezione sociale che ne deriva, ma ancor più prendere atto, ancora una volta, che non possiamo misurare il disegno di Dio col nostro metro.
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 10/4/2016. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.