Lettera aperta del 3 febbraio 2019
Inserito il 30 Gennaio 2019 alle ore 17:55 da Redazione CarpinetumAbbiamo inserito nel sito lettera aperta del 3/2/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
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Il settimo Comandamento è sintetico quanto incisivo. In ebraico ci sono soltanto due parole, che tradotte in italiano suonano con una negazione e un verbo: non rubare. Il comando è usato da Israele in un tempo nel quale non c’era la tutela dei notai né quella delle forze dell’ordine. Ecco dunque l’intervento divino che vietava di toccare quello che apparteneva ad altri: le cose, gli animali, la donna.
In queste settimane a Carpenedo subiamo furti in gran numero. Sono una lesione alla persona oltre che alla proprietà. Per evitare reazioni private servirebbe maggiore attenzione da parte della forza pubblica, peraltro promessa in campagna elettorale. Non lasciamoci mettere in ostaggio da questo clima di insicurezza! La risposta migliore non è barricarsi in casa o vivere timorosi, ma far fiorire comunque quella vitalità che altrove ci invidiano.
Capiamo poi l’ampiezza del settimo comandamento. C’è il furto eclatante e c’è quello sottile, quando i ricchissimi continuamente sottraggono energie ai poveri. I profeti dell’Antico Testamento e Gesù hanno sempre condannato questa prevaricazione. Dio ha creato la terra per tutti e, indipendentemente dalle capacità di ciascuno, ogni uomo deve avere almeno le possibilità per una vita sufficiente. Il nostro stile di vita è talvolta un furto verso Paesi ove la mortalità infantile è elevatissima e la gente comune sopravvive con poco più di un euro al giorno. Pensiamoci. I ladri hanno tanti volti.
don Gianni
E che nozze! (seconda parte) Completo l’argomento di domenica scorsa e ingloberò quello di oggi con la prossima, che ne è il seguito. È sempre don Franco de Pieri che scrive, nel 2013.
“Invitata era la “Donna”, sedeva accanto ad Eva, ed era la Madre nuova, attenta, incontaminata; non si era rassegnata ad obbedire al tentatore, all’ingannatore, a chi ti vende acqua sporca per vino buono. Vide la miseria di quelle nozze e la cattiva piega che stava prendendo la tavola dell’umanità. Si rivolse allo Sposo che gli sedeva accanto e gli fece la più bella proposta che potesse fare al Figlio: “Non hanno più vino…”. Questa umanità non ha più nulla, non sa più gioire, non sa più fare festa, non sa più voler bene, non sa più generare figli a Dio. Sposala Tu, insegna come si ama, come si gioisce, dimostra che questa è ancora un’umanità amata da Dio”.Quel Figlio, che un angelo chiamò “Gesù”, il cui nome significa “Salvezza”, capì che quella era la sua sposa promessa. La guardò, osservò ogni uomo, ci vide come eravamo, ubriachi di miserie, ciechi di odio e di egoismo, storpi e zoppi perché camminavamo su strade sbagliate, sordi ad ogni parola buona; ci volle bene egualmente, anzi, di più. Rispose alla “Donna”: “Non è ancor giunta la mia ora”. Parlava dell’ora della Croce, dell’amore supremo e totale. I testimoni più vicini, udirono le parole della “Donna” ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Era Lui che doveva rendere gioiosa quella festa, che doveva offrire il segno che erano finite la vecchia umanità e le vecchie nozze. Lo videro alzarsi e dire ai servi increduli: ”Riempite le anfore di acqua e servite”. Sulla tavola apparve un Vino diverso da tutti gli altri, rosso come sangue, buono e gustoso a non finire, e chi lo gustò si sentì riempire la vita di energia, il cuore di gioia, la mente di grandiosi pensieri. Che nozze erano mai quelle! A quella tavola c’era Giovanni, il futuro evangelista. Annotò nella sua mente parole e gesti. Se ne ricordò sotto la Croce, dove sentì di nuovo Gesù, suo amico, chiamare la Madre con lo stesso nome di quel giorno: “Donna, ecco il tuo figlio.!” L’ora dell’amore iniziato a Cana si completava. Il segno dell’amore non era più il vino buono, ma un sangue donato su una Croce, dove Gesù, chiamato Salvezza, ha trasformato l’umanità da acqua sporca in vino buono. Le anfore, riempite affinché mai ne mancasse, sono conservate piene dalla Chiesa per coloro che accolgono l’invito a nozze con Dio, a mettersi alla tavola dell’amore e della fraternità. Che belle nozze furono celebrate a Cana di Galilea!”
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 27/1/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
Serve coraggio per essere felici. Da un mese ci annunciano una nuova crisi economica. Dovremo sostenere nuove fatiche umane e sociali. Soprattutto la generazione dei più giovani, “nativi digitali”, avrà bisogno di più audacia.
Nel IV secolo, Sant’Agostino scriveva che, nel futuro, servono “sdegno e coraggio”. Il primo per rifiutare compromessi, il secondo per rimediare agli sbagli. Oggi sono in voga forme contraffatte e a buon mercato: l’arroganza e l’incoscienza.
Il coraggio autentico, invece, è un desiderio di vita tanto forte da non aver paura di toccare il fondo del dolore. È una disponibilità a morire, a perdere tutto: per questo si riesce a vivere davvero. Non serve l’eroismo, ma imparare a dirci “no”.
Non dovremo abbracciare le armi ma ricominciare progetti, immaginare strade diverse, scrivere decisioni, diventare autonomi e, al contempo, vivere insieme, senza metterci al riparo dalle burrasche.
Potremo aver paura, ma senza restare paralizzati. Il coraggio ci porterà oltre i doveri contrattuali, fuori dalla soglia “di sicurezza”; ci impedirà di essere aridi.
A nostro conforto si sappia che “chi non osa osservare il sole in volto non sarà mai una stella” (W. Blake). M. L. King scriveva che “un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno”.
don Gianni
E che nozze! (prima parte). Come la settimana scorsa (e anche per la prossima) riporto un originale pensiero di don Franco de Pieri sul terzo “miracolo” della manifestazione, pure questo del 2013 e riadattato. Un taglio che mi sembra interessante riprendere e partecipare.
“Nozze a Cana di Galilea. Lo Sposo: il Signore Gesù; la sposa: l’umanità. Madre dello sposo: la Vergine Maria; invitati: tutti noi. La sposa era per la verità un po’ miserella, ma quel giorno, accanto a quello Sposo faceva anche lei la sua bella figura. Genitori della sposa: due poveracci, uno si chiamava Adamo, l’altra Eva. Avevano avuto tanti figli, da perdere il conto. Ormai erano abituati a matrimoni uno più fallimentare dell’altro, sapevano che qualcosa di cattivo ogni volta riusciva a guastare tutto e quindi a quello che si stava celebrando a Cana non prestavano molta attenzione: era sempre lo stesso copione, un uomo si univa ad una donna, facevano figli, più meno gli stessi, e avevano perso la speranza di vedere tra i loro figli Uno che si distinguesse. A Cana la loro speranza fu esaudita. Tra le loro figlie era nata una “Donna” diversa da tutte le altre. All’inizio non si erano resi neppure conto di quale grazia era capitata alla loro discendenza. Eva, la vecchia madre, sperava che ad ogni nascita venisse al mondo “la Donna”, non una donna qualsiasi, ma la “benedetta tra tutte le donne”, la Donna che sapesse vincere il tentatore antico, che sapesse generare senza egoismo, senza pensare a se stessa, che potesse mettere al mondo il Figlio da sempre atteso. Adamo era così vecchio che aveva ormai perso la speranza che dalla sua discendenza potesse uscire un virgulto che potesse ridare vita nuova all’umanità. Venne l’occasione, un giorno di nozze, e che nozze! Tutta l’umanità era rappresentata, tutta l’umanità fu invitata. L’umanità era la sposa! Ma lo Sposo non si fece subito riconoscere. Anche gli invitati non si resero conto di essere ognuno di loro l’invitato, di essere la sposa. E lo Sposo? Era lì, seduto accanto al vecchio Adamo, assieme ad una schiera di pescatori, di convitati affamati ed assetati di cose di questo mondo. Pensavano tutti che fosse una cena di nozze come tutte le altre. Tutti si sono messi di buon appetito, tutti si sono messi a bere quello che l’oste portava in tavola. Era così ormai nauseata l’umanità invitata, che a furia di bere di quell’acqua sporca fornita a tavola, finì come sempre per ubriacarsi. Ma quelle non erano nozze come tutte le altre! Erano nozze speciali”. (segue)
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 20/1/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.
A poco a poco, con gli anni, ci si abitua a mettere da parte le buone abitudini di quando eravamo bambini. Ci pare infatti che diventare grandi significhi andare oltre a quello che i genitori ci hanno trasmesso.
Fra le usanze più comuni, imparate in tenera età, c’era quella di andare a letto la sera con un segno di croce e fare altrettanto il mattino con la sveglia. Si pregava con un Padre nostro, un’Ave Maria e un Gloria, poi si aggiungeva un Angelo di Dio e un L’eterno riposo per i defunti.
Cose puerili, ci pareva. Perché poi l’indipendenza, la libertà, le responsabilità gravose, le scadenze, l’affollarsi di preoccupazioni più urgenti han preso il sopravvento e il resto è andato in secondo piano.
Invece bisogna imparare daccapo, perché a mano a mano che si cresce ci si accorge che nella realtà si può far poco, sempre meno di quanto speravamo, che la vita non va come si pretende, che sono infinite le questioni incomprese e le paure. Quant’è importante, allora, per noi che vogliamo essere di Cristo Gesù, riabituarci a fissare lo sguardo sul Vangelo!
Basta un pensiero al mattino e alla sera, e tutto cambia, come cambia lo scorrere dei giorni e delle ore. Cambiamo anche noi.
don Gianni
Battesimo e Salvezza. Così titolava sul suo Bollettino parrocchiale del 2013 il compianto don Franco de Pieri nella stessa ricorrenza di oggi. Mi è piaciuto il taglio e lo ripropongo in forma più concisa e adattata: “Fa scalpore la notizia che molti in questi tempi hanno chiesto di essere “sbattezzati”, cancellati dai registri battesimali. Io invece è l’unica firma che mi sento di riconfermare per sempre e che vorrei non fosse scritta solo nei registri, ma anche e soprattutto nel libro della vita, nel registro degli invitati a nozze nel regno dei cieli, il libro paga di coloro che hanno accettato di lavorare nella vigna. Tutte le altre le firme sono nulla in confronto a questa, messa proprio dal Signore Gesù a caparra della nostra salvezza, e sarà bene che nessuno la tolga. È segno di appartenenza, di distinzione e di alleanza tra noi, il Cristo e la sua Chiesa della terra e del cielo. Gesù, andando al battesimo, si sottomise al Padre come un Figlio obbediente, si consegnò a Dio come agnello immolato e senza macchia, capì da quel giorno la sua vocazione di Salvatore. Imparò che prima di tutto bisognava servire e obbedire a Dio, più della sua vita stessa. Il suo battesimo nell’acqua del Giordano era un annuncio del suo battesimo reale attraverso la morte e la risurrezione. Cos’è il nostro battesimo? Tre doni principalmente. Primo, ci rende conformi a Cristo, figli come lo era lui. Secondo, quello di entrare a far parte del suo corpo, membri della sua comunità che egli ama e salva, partecipi della sua Chiesa. Terzo e meraviglioso, ci porta in dono già fin d’ora la vita eterna, ci abilita e ci riveste di una veste nuziale che ci permette di entrare nel Regno dei cieli. Per conseguire questi tre doni basta credere e imparare a chiamare Dio con il nome di Padre, sentire una vera e reale fraternità con gli altri e, per quanto siamo capaci, di assomigliare a Cristo. Perché pensare che il battesimo sia una forzatura? È un’Epifania del Signore, è il giorno in cui lui si manifesta a noi come la salvezza definitiva. Neppure i nostri peccati riescono a cancellare questo patto. Dice il vangelo che si “aprirono i cieli” e lo Spirito Santo scese su di Lui come una colomba. È quello che avviene anche nel nostro battesimo. Ci si aprono i cieli e lo Spirito del Signore ci aiuta e ci dà forza in questa vita. Così comandò ai suoi discepoli: “Andate per il mondo intero e battezzate tutte le creature”. Il Battesimo è l’atto di fede e di appartenenza a Cristo più coinvolgente della nostra vita. Riconfermiamo oggi il nostro battesimo!”
Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 13/1/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.