Il blog di Carpenedo

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La vita della Comunità parrocchiale dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo

L’insistenza nel chiedere

Inserito il 28 Luglio 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

L’insistenza nel chiedere il più delle volte dà fastidio, specie se deborda nella petulanza, e si rischia di sortire l’effetto opposto. Eppure la liturgia di oggi è tutta un’apologia dell’insistenza. Nella prima lettura Abramo perora la causa di Sodoma, che il Signore vuole distruggere, incalzando con una vera e propria trattativa di stampo sindacale. Nel vangelo è lo stesso Gesù che ribatte: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Ma perché star lì tanto a chiedere, quando poi precisa che “il Padre vostro sa di che avete bisogno”? Evidentemente c’è modo e modo di chiedere e c’è modo e modo di insistere. Tornando ad Abramo, noteremo con quale rispetto egli si rivolge al Signore. La sua richiesta non scivola mai nella pretesa e men che meno nel ricatto, cose alle quali noi siamo più avvezzi: anche con Dio spesso mettiamo in atto il “do ut des”, se mi concedi io m’impegno. Salvo che non succeda il contrario, per cui si parte col “prego, ma Dio non m’ascolta” e si finisce col “se c’è un Dio lassù non dovrebbe permettere queste cose”. Con altrettanta evidenza, quindi, l’esaltazione dell’insistenza non è fine a sé stessa, ma leva per invitare alla preghiera costante, che sta alla base del nostro rapporto “aperto” con il Padre. E allora, tanto per fare il punto, ci conviene aggregarci ai discepoli che in premessa del brano in lettura oggi, consapevoli dei loro limiti, si rivolgono al Maestro chiedendo: “Signore, insegnaci a pregare”. Qui Gesù esordisce con quella stupenda preghiera che è il Padre nostro, l’unica che ci ha trasmesso testualmente e che è di una completezza incomparabile, tale da essere tranquillamente assunta come regola di vita. Egli stesso la metterà in pratica nel momento cruciale del suo percorso di salvezza, quando nell’orto del Getsemani stava attendendo che lo arrestassero per crocifiggerlo: “Padre, se è possibile allontana da me questo calice, ma non la mia bensì la tua volontà sia fatta”. Sul Padre nostro si potrebbe dare la stura a un libro intero di commenti. Qui mi limito a rilevare un aspetto che nei fatti ci vede parecchio in mora: il perdono. A chiederlo ci riesce facile e non smetteremmo mai di farlo. Quanto a darlo ne corre; ma non funziona così: ogni volta che ci apprestiamo a recitare la preghiera, dovremmo aver già provveduto, altrimenti suona stonato quel “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Intanto insistiamo, così ce lo ricordiamo.

Lettera aperta del 28 luglio 2019

Inserito il 24 Luglio 2019 alle ore 18:36 da Redazione Carpinetum

Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 28/7/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.

Strumentalizzare per far scalpore

Inserito il 24 Luglio 2019 alle ore 18:00 da Don Gianni Antoniazzi

I foglietti parrocchiali sono pensati per agevolare il dialogo con i parrocchiani e sono scritti con la disinvoltura familiare di cui hanno bisogno. Talora vengono ripresi e stravolti solo per far notizia

Il parroco di Chirignago, don Roberto Trevisiol, ha riportato sul foglietto della sua parrocchia, il celebre ‘Proposta’, un episodio che subito è stato ripreso dai giornali e poi finito sui social in tono polemico.

Si ha l’impressione che molta gente non cerchi più il resoconto oggettivo dei fatti, raccontati con rispetto per la realtà, ma impieghi gli articoli scarni di un foglio parrocchiale per interessi personali, aumentare la visibilità e suscitare tensione. Resta la stima incondizionata per chi esercita, con sacrificio e onestà culturale, il servizio di giornalista. Va riconosciuta, però, la superficialità che, soprattutto sui social, affiora quando c’è la voglia di dare enfasi e ridondanza a posizioni contrapposte.

Anche gli articoli di lettera aperta subiscono spesso questo destino. Un fatto della vita parrocchiale viene ripreso con vivacità di colori sui quotidiani locali e trasformato poi dalla rete col pretesto di catturare l’attenzione degli altri e ribadire le proprie posizioni: si piega così la realtà perché susciti a tutti i costi polemica e contrapposizione. Questo non è interesse per la verità. Al rovescio. Poiché qualche volta manca la profonda capacità di capire lo spessore della vita, si scivola su riflessioni superficiali e osservazioni speciose. Spesso gli strumenti digitali riducendo la riflessione di chi li usa, diffondono un pensiero aggressivo e privo di maturità.

don Gianni

Tra il dire e il fare..

Inserito il 21 Luglio 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Tra il dire e il fare.. c’è di mezzo l’ascoltare. Non il sentire, bensì l’ascoltare, cioè il prestare attenzione, capire. Proprio l’altro giorno Rai 3 ha riproposto un intervento di Cacciari sul programma di Augias, dove il nostro sottolineava l’importanza della “filologia”, che studia il vero significato delle parole, e insisteva che solo così si arriva a capire e quindi ad ascoltare compiutamente. Il discorso si dilungava poi in modo magistrale sull’uso, anche allegorico, e sull’elaborazione dei vari concetti, possibile solo afferrandone la radice e il senso. Oggi il vangelo ci presenta l’episodio della visita di Gesù a Marta e Maria. Entrambe sentono il Maestro che parla, ma, mentre l’una si dà da fare per agevolare l’ospitalità, l’altra si ferma ad ascoltarlo, al punto che la prima si lagna della sorella, che non le dà una mano. Lascia sorpresi la risposta di Gesù: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”. Bella riconoscenza!, verrebbe da pensare, ma la realtà è che viviamo in un mondo che ci coinvolge in mille cose, ci distoglie con mille pensieri anche da quel minimo di preghiera che magari stiamo recitando e non ci lascia il tempo per fermarci un attimo e ascoltare. Gli stessi mass media non aiutano, ci martellano continuamente: riusciamo a sentire e anche a leggere, ma quanto ad ascoltare e ad introiettare ne passa. Se poi ci si mette anche lo scarso approfondimento “filologico”, la frittata è fatta e diventiamo avulsi dal contesto, che ci sfiora appena. Salvo che non ci colpisca, ma allora o si tratta di disgrazie o di fatti che ci riguardano. Il Vangelo, è un testo che non si presta ad approcci fugaci: va penetrato nel giusto modo e vissuto, entrambe le cose in modo dinamico e senza soluzione di continuità. A tal proposito è proprio oggi la festa del Redentore, un attributo del nostro Salvatore che è un progetto e racchiude e sublima tutti gli altri attributi possibili. Redimere significa riscattare, ed è un impeto che a Dio, nella sua infinita misericordia, è venuto subito dopo la disobbedienza dei nostri progenitori, mentre li stava cacciando. Capirlo, ci fa esplodere nell’antifona che udiamo ripetere alla Via Crucis in Colosseo: “Adoramus te Christe et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum” (Ti adoriamo o Cristo e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo). Comprenderlo e riproporlo è un atto di riconoscenza.

Lettera aperta del 21 luglio 2019

Inserito il 18 Luglio 2019 alle ore 10:43 da Redazione Carpinetum

Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 21/7/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.

Il Redentore: rischiare per crescere

Inserito il 18 Luglio 2019 alle ore 10:28 da Don Gianni Antoniazzi

Per secoli pur di tenere aperti i commerci la Serenissima si è esposta al rischio della peste Chi invece desidera essere sempre garantito e non si gioca, è destinato a spegnere la vita

Il morbo Yersinia Pestis fu riconosciuto e isolato nel 1894. Quando Venezia affrontò la peste del Redentore, nel 1575, la chiamavano semplicemente “morte nera”. Il suo effetto era fulmineo: si pranzava con i vivi e si cenava con i morti.

Venezia sapeva che viaggiando fra i porti del Mediterraneo era facile portare in città la malattia sconosciuta. In precedenza c’erano stati almeno due casi: nel 1348 giunsero in laguna equipaggi mercantili fuggiti da Caffa, morirono 37 mila abitanti su una popolazione di 110 mila. Un fatto analogo avvenne, poi, nel 1478. In quell’occasione Venezia creò il primo ospedale pubblico, il Lazzaretto Vecchio dove venivano portati i malati. Ci fu poi il Lazzaretto Nuovo, dove veniva condotto chi era stato a contatto con persone malate. C’erano isole adibite alla sepoltura e roghi accesi per purificare l’aria. Alcune zone cittadine venivano chiuse e le case sospette murate.

Tuttavia, la città capiva che, chiusi i commerci, per lei non ci sarebbe stato un futuro. Così, passato il pericolo, il Senato prevedeva sgravi fiscali per rilanciare i traffici, intimava gli ufficiali pubblici a riprendere il servizio, incoraggiava l’immigrazione, ripristinava processioni e feste per dimostrare che il morbo era sconfitto.

Nel 1575, Venezia stava perdendo ingenti guadagni: i commerci più preziosi si erano spostati dal Mediterraneo all’Atlantico, e la città, che già aveva perduto Cipro, non voleva chiudersi ulteriormente. La peste arrivò questa volta via terra, da Trento, ed era di origine turco-ungherese.

Venezia capiva che il rischio del contagio era il prezzo da pagare per continuare a vivere. Così morirono in 50 mila su 180 mila abitanti. Fu una scelta legata alla cupidigia del denaro o al desiderio di pensare al futuro? Non è facile rispondere.

Di fatto oggi, in materia di salute e di sicurezza, siamo diventati così sensibili da bloccarci di fronte a qualsiasi difficoltà. Di questo passo siamo destinati a trasformarci in cadaveri viventi.

don Gianni

Esiste ancora la bontà?

Inserito il 14 Luglio 2019 alle ore 10:02 da Plinio Borghi

Esiste ancora la bontà? Cioè quella vera, che trovava la sua massima espressione nel rapporto con i figli e che includeva un’accoglienza incondizionata delle nuove vite che il Signore concedeva alla coppia? Quella che trasformava l’educazione in investimento, nel senso che non dovevamo plasmarli a nostro uso e consumo o riponendo in loro le nostre aspettative deluse, ma consegnarli come persone al mondo valorizzando le loro specificità? Quella bontà che non voleva dire condiscendenza o asservimento perché tutto è dovuto, ma era fatta di tanti no e di tanti richiami al dovere prima che al diritto? Ho proprio l’impressione di no. Oggi siamo scivolati in un buonismo arido, fine a sé stesso, che poi varia dal “tre volte bon” di veneziana estrazione all’incapacità di impostare un’azione educativa, tale da far luogo da una parte alla contrazione delle nascite (e siamo arrivati a un picco veramente drammatico) e dall’altra al disordine sociale delle baby gang che imperversano con la copertura dei genitori. Che sia un fatto consolidato lo stiamo dimostrando anche nell’accoglienza dei migranti. La vera bontà richiederebbe anche qui un’ampia disponibilità programmata e finalizzata non tanto e solo all’integrazione, quanto all’investimento di un potenziale sinergico da un lato con la valorizzazione di culture diverse e dall’altro col loro immediato impiego in attività convenienti per il nostro Paese e la crescita della nostra società. Nulla osta che nel frattempo si svolgano tutti gli adempimenti burocratici che la sicurezza richiede. Invece si è scelta ancora la strada del buonismo, variamente interpretato a seconda che lo si veda da destra o da sinistra, complice anche la Chiesa, che si è guardata bene dal perorare con i governi che si sono succeduti, come fa in altre occasioni, una sua visione pratica di accoglienza programmata. I risultati li abbiamo sotto il naso: gente che staziona e bighellona, strumentalizzata da cooperative “depositarie” ma prive di potere di intervento. Eppure la parabola del buon Samaritano che il vangelo racconta oggi è chiara: questi affida il malcapitato alle cure e paga affinché poi venga restituito alla sua vita, non trattenuto dall’albergatore a oltranza. Questa è la vera bontà per il prossimo. Fare come abbiamo fatto finora, con effetti iceberg tipo “mafia capitale”, ci assimila di più al sacerdote e al levita: non programmare e non investire ha lo stesso valore che “passare oltre” senza curarsene.

Lettera aperta del 14 luglio 2019

Inserito il 10 Luglio 2019 alle ore 15:42 da Redazione Carpinetum

Abbiamo inserito nel sito lettera aperta del 14/7/2019. Aspettiamo i vostri commenti in email o direttamente sul blog.

Grazie a Dio nessun ferito

Inserito il 10 Luglio 2019 alle ore 15:25 da Don Gianni Antoniazzi

Il maltempo domenica scorsa ha fatto danni dovunque, anche a Carpenedo: in chiesa una raffica violentissima ha divelto la vetrata del rosone. Poteva essere una sciagura, ma è andata bene

Tutti sanno che domenica scorsa, 7 luglio, alle 18:14, una ventata possente ha spalancato il robusto finestrone dietro il rosone della chiesa e ha divelto la vetrata colorata abbattendola al suolo. In chiesa era appena finita la preghiera del vespro. Qualcuno già era entrato per la messa vespertina che, negli ultimi tempi, è sempre gremita. Pochi secondi prima una signora aveva raccolto due foglietti nella zona dove poi sarebbe caduta la struttura. Nel momento del crollo un uomo era entrato in chiesa e, allarmato dalle urla dei presenti, si è messo in salvo, cavandosela con due graffi profondi alla testa e al braccio. Bisogna riconoscergli uno scatto straordinario senza il quale non saremmo qui a parlare serenamente.

La vetrata pesava certamente più di un quintale e mezzo. Precipitando da 12 metri d’altezza avrebbe potuto far disastri. È rimbalzata sul davanzale della cantoria: lì si è frantumata e ha rallentato la velocità, dando modo a chi era sotto di fuggire. Il materiale precipitato ha fatto dondolare il crocifisso ma non l’ha neanche graffiato.

Col restauro della volta della chiesa tutto era stato controllato da esperti. Il vento che ha disastrato piante e altre strutture della zona ha combinato anche questo malanno. Adesso c’è la sofferenza per questa sventura, il dispiacere per la paura dei presenti, la fatica per il lavoro di ricostruzione, ma anche la serenità perché nessuno ha subito conseguenze. Nelle pagine interne (di lettera aperta, NdR) c’è qualche indicazione concreta. Qui intanto Deo Gratias.

don Gianni

Un po’ sopra le righe

Inserito il 7 Luglio 2019 alle ore 10:10 da Plinio Borghi

Un po’ sopra le righe, il vangelo di oggi. Una regia riconducibile più che all’evangelista Luca all’eccellente maestro Zeffirelli, da poco scomparso. Non bastasse la dovizia di particolari che definiscono i confini entro i quali i 72 discepoli si devono muovere a due a due e la descrizione persino dell’abbigliamento da adottare, a dimostrazione del distacco da cose profane, l’azione si focalizza su tre aspetti particolari: la pace come esternazione e come dono, sopra ogni cosa, l’accettazione di quanto viene offerto per mangiare, bere e dormire, senza altre richieste e men che meno passare di casa in casa (non sarebbe male che i testimoni di Geova ne facessero tesoro) e la soddisfazione degli inviati al ritorno, specie nel constatare come, nel nome di Gesù, i demoni si dichiarassero sconfitti. Su tutto domina la scena madre che scaturisce dall’eventuale rifiuto dell’accoglienza. E qui è il Maestro stesso a dettare le parole: “Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. E aggiunge: “Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città”. Parole terribili e incombenti. Viene spontaneo chiedersi come evitare di incappare in tali anatemi. Se ci limitassimo alle formalità, non ci sarebbero problemi: tanto per restare in Italia, abbiamo sempre avuto riguardo per la Chiesa e, dal Concordato in giù, fino all’otto per mille, abbiamo espresso alla grande la nostra ospitalità. Non parliamo della cura verso i manufatti e le strutture. È chiaro, però, che non è questo l’aspetto che interessa a Gesù: accoglienza è apprezzamento per la lieta novella, è adesione al suo contenuto, che si traduce innanzitutto in pace e cura (amore) degli uni verso gli altri, è attenzione per deboli ed emarginati e così via. Il pericolo che il richiamo a tutto ciò dia fastidio è sempre in agguato. Non a caso il Signore, nell’inviare i 72, premette: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. Ancor più insidiosa è poi l’indifferenza. Il vivi e lascia vivere è quanto di più falso ed equivoco si possa opporre al disegno divino, anzi, è ancora più offensivo del rifiuto. Chi rifiuta tutto sommato ha preso in considerazione. L’indifferente sega sul nascere ogni velleità. Riflettiamoci un po’, soprattutto noi cosiddetti praticanti, e analizziamo con quale slancio ci rapportiamo al messaggio e poi valutiamo se non corriamo il rischio che ci tocchi la fine di Sodoma.

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