Come aveva promesso
Inserito il 19 Dicembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo BarleseNell’aprire la sua lettera, Paolo si presenta come «servo» di Gesù Cristo, cioè una persona che “gli appartiene”. Nella Bibbia era questo il titolo d’onore di un primo ministro nei confronti del suo signore, e in modo specifico designava il personaggio descritto dal profeta Isaia (il «Servo di Jahwè»), al quale era stata conferita la missione non solo di annunziare ai giudei esiliati la loro prossima liberazione, ma anche di renderla possibile mediante la sua sofferenza espiatrice.
In quanto servo di Gesù Cristo Paolo è anche «chiamato ad essere apostolo». Nelle sue lettere il termine «apostolo» indica tutti coloro che si dedicano all’annuncio del vangelo.
In forza del carisma apostolico Paolo è «scelto» (= messo da parte) «per (annunziare) il vangelo di Dio», cioè la buona notizia che Dio ha rivolto a tutta l’umanità.
Il vangelo, per il quale Paolo è stato “messo a parte” come apostolo, era già stato «promesso» da Dio «per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture».
Al popolo di Israele Dio aveva preannunziato per mezzo dei profeti, un momento futuro nel quale la salvezza iniziata con l’esodo dall’Egitto avrebbe trovato il suo compimento.
Il vangelo di Dio ha come tema centrale il «Figlio suo».
Per mezzo del profeta Natan, Dio aveva promesso a Davide che la stessa dignità sarebbe stata propria, in modo speciale, di ogni re (messia, unto) appartenente alla sua dinastia, assicurando al tempo stesso che questa sarebbe stata stabile per sempre sul suo trono.
Quando in seguito all’esilio babilonese la dinastia davidica era ormai scomparsa, i giudei cominciarono a sperare che Dio un giorno avrebbe inviato un discendente di Davide che, sulla linea degli antichi oracoli profetici, avrebbe liberato definitivamente il suo popolo. A lui perciò fu assegnato il titolo di Messia (in greco “Christos” – “l’Unto” per eccellenza) e fu riconosciuta in modo specialissimo la dignità di «Figlio di Dio».
Sullo sfondo di queste attese si comprendono le caratteristiche che Paolo attribuisce al Figlio di Dio di cui parla il vangelo. Esse sono delineate in due frasi. Nella prima si dice che «secondo la carne» il Figlio di Dio è «nato dalla stirpe di Davide» e di conseguenza è il suo lontano discendente, inviato da Dio per portare la salvezza finale a Israele.
Nella seconda frase si afferma che lo stesso Figlio di Dio è stato «costituito Figlio di Dio con potenza», cioè ha potuto esercitare in modo effettivo i suoi poteri, «secondo lo Spirito di santificazione», ossia in forza di un dono speciale dello Spirito.
Il Figlio di Dio ha dunque conseguito, mediante la sua risurrezione, una dignità immensamente superiore a quella che i giudei attribuivano al «Figlio di Davide».
Paolo conclude affermando che il Figlio di Dio di cui parla il vangelo è «Gesù Cristo nostro Signore»: a Gesù di Nazaret compete non solo il titolo di «Cristo» (Messia), che rimanda alla sua ascendenza davidica, ma anche quello di «Signore» (Kyrios). Questo nome Kyrios/Signore, significa la piena partecipazione al potere stesso di Dio. L’«obbedienza della fede», a cui l’annuncio dell’apostolo deve portare, può indicare l’adesione al messaggio cristiano, oppure, con più probabilità, quell’obbedienza a Dio che si esprime nella fede.
Con il termine «fede» l’apostolo indica la piena fiducia in Dio. La missione affidata ad ogni cristiano ha come scopo finale la «gloria del suo nome», cioè il riconoscimento di Dio come unica fonte di salvezza per tutta l’umanità.
Don Danilo