Inserito il 6 Aprile 2016 alle ore 14:59 da Don Gianni Antoniazzi
Non basta una casa accogliente e una pancia piena. Abbiamo un’esigenza più profonda ancora: dare senso alla vita e condividerla con i compagni di cammino
Nell’ambiente del Vangelo c’è una parola pasquale che forse è caduta in disuso: “Compagni”. Non soltanto fratelli e amici; compagni deriva dal latino “cum-panis” e accomuna coloro che mangiano lo “stesso pane”. Lo sono i due di Emmaus e coloro che celebrano l’Eucaristia pasquale. Il termine ricorda che si vive appieno solo quando si condivide. Primo Levi scriveva che «da quando abbiamo una casa calda e il ventre sazio, ci sembra di aver risolto il problema dell’esistenza e sonnecchiamo davanti alla tv». L’individualismo moderno è andato anche oltre: restiamo chiusi in Internet anche quando abbiamo gente intorno. Per molti sono tornate di moda le parole di Plauto: “Homo homini lupus” (l’uomo è un lupo per l’uomo) e quelle attribuite a Cicerone: “Senatores boni viri, Senatus mala bestia” (i senatori sono dei bravi uomini, il Senato, preso insieme, è una bestia cattiva). I compagni di cammino sembrano talora una minaccia. Tuttavia “non di solo pane vive l’uomo”. Non è sufficiente risolvere i problemi di sopravvivenza. Per diventare quello che siamo occorre un cammino insieme. La pena quotidiana non sta solo nel camminare senza meta, ma più ancora nel non avere alcun compagno di cammino.
don Gianni
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Inserito il 3 Aprile 2016 alle ore 12:05 da Plinio Borghi
Come fulcro di una leva è questa domenica seconda di Pasqua, dedicata alla Divina Misericordia, per tutto quest’anno giubilare straordinario, indetto appunto all’insegna di questa salubre e imprescindibile caratteristica di Dio. Le iniziative che si sono susseguite e moltiplicate dallo scorso 8 dicembre, quando è stato aperto, l’insistenza di papa Francesco, che ancor prima, sin dall’inizio del suo pontificato, non ha fatto altro che riproporre questo Padre che non si stanca mai di perdonare e il nostro bisogno di ricorrere all’ineffabile rimedio delle nostre umane debolezze hanno fatto di questa festa, voluta da San Giovanni Paolo II, un utile riferimento, un giro di boa per continuare decisi verso il traguardo, un volano per rilanciare il desiderio del perdono gratuito che ci viene costantemente offerto. Il Papa ne fa anche una questione di comportamento per la Chiesa stessa, che vuole altrettanto aperta e accogliente, lontana dal pregiudizio e dal giudizio discriminatorio, e in definitiva pure per ciascuno di noi nei rapporti col nostro prossimo: sarebbe ben ridicolo godere della Misericordia divina e non esercitarla poi a nostra volta, come il servo infingardo della famosa parabola! Ci verrebbe da chiederci: perché tutta questa insistenza, tutte queste iniziative, tutte queste Porte Sante aperte ovunque, quasi a rendere la Chiesa più permeabile di una spugna? La risposta, fin troppo scontata, è che noi tendiamo esattamente all’opposto: pentirsi poco e giudicare molto la pagliuzza dell’altro, ignari della trave che pesa nel nostro occhio. Ci dà fastidio, specie se siamo convinti di comportarci bene, che si usi troppa misericordia verso i rei e i derelitti della società. Vorremmo un Dio che esercitasse (meglio se verso gli altri) anche la sua infinita Giustizia, magari equilibrando un po’ di cose già su questa terra. Insomma, con tutte le doti infinite che ha e che ci sono state enumerate fin dai tempi del catechismo, perché si deve chiamare solo “Misericordia”? Noi tapini! Noi presuntuosi! Noi che abbiamo dimostrato di saper generare solo rancore e contrasti, al punto da fare della pace un’utopia! (Infatti, proprio nel Vangelo di questi giorni successivi alla Resurrezione Gesù, nell’apparire ai suoi, ripete: “Pace a voi!”). Verrà per tutti il giorno in cui saremo soggetti solo alla Giustizia divina, senza più spazio alcuno per un briciolo di misericordia. Per ora, approfittiamo di questa, finché siamo nel tempo per potervi ricorrere.
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