L’essere famelici…
Inserito il 31 Luglio 2016 alle ore 10:44 da Plinio BorghiL’essere famelici è evidentemente un aspetto irrinunciabile del nostro comportamento. Già ai tempi di Qoèlet (prima lettura), con la famosa frase “Vanità delle vanità, tutto è vanità” si stigmatizzava l’eccesso col quale ci si profondeva su beni che poi avrebbero goduto altri che non si erano per niente profusi. Gesù poi, sollecitato da uno che pretendeva una mediazione con il fratello per l’eredità, cita l’affanno del ricco nel voler ampliare i magazzini per contenere tutto il sovrabbondante raccolto per poi godersi la vita in pace e il Signore “guastafeste” che gli dice: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” Il brano del vangelo si conclude sollecitandoci ad arricchire presso Dio e non certo accumulando beni su questa terra. Ciò nonostante San Paolo ritorna sull’argomento, è ovvio, per chiarire che dovremmo essere “morti” e che la nostra vita, con la Resurrezione, è nascosta in Cristo. Quindi entra nel merito di come dovremmo arricchire il nostro libretto di risparmio per il regno dei cieli che ci attende: “Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria”. Ne basta e avanza, ma, evidentemente, nelle nostre corde non è previsto alcun automatismo che denoti valorizzazione di queste premesse: di mortificazione in certe tendenze si fa orecchio da mercante (“manie da preti, robe che ti inculcano per complicarti la vita”, insisteva sempre un mio amico), altrimenti si perde il fascino del proibito; di rincorrere il possesso in modo ossessivo men che meno, anzi, più si ha e più si vorrebbe avere; di non pretendere fino all’ultimo centesimo di quello che riteniamo ci spetti non se ne parla proprio, tanto è vero che, dopo le questioni condominiali, la maggior litigiosità nei tribunali è alimentata proprio dalle divisioni ereditarie (o societarie o familiari, che poi sono sulla stessa lunghezza d’onda). Mia mamma, che non era esperta né di Qoèlet né di San Paolo e che del Vangelo capiva poco, anche perché allora lo leggevano in latino, diceva sempre: “Chi no s’incontenta de l’onesto perde el manego e anca el sésto”. Mi sembra in effetti una buona sintesi di tutte le suddette discettazioni, fermo restando che non dev’essere un invito a non darsi da fare per ottenere da questa vita il meglio, bensì per essere indotti non dalla cupidigia, ma dall’investimento per la gloria finale.