Compiacersi di noi stessi
Inserito il 23 Agosto 2020 alle ore 08:00 da Plinio BorghiCompiacersi di noi stessi è una tentazione veniale nella quale è facile scivolare. A volte lo facciamo nella più totale intimità, se riusciamo a ultimare un lavoretto cui tenevamo o esprimiamo con destrezza le diverse abilità. Più spesso avviene quando ci supportano gli apprezzamenti altrui per le nostre opere o per le azioni che compiamo. Magari abbiamo messo tutto l’impegno possibile per ottenere certi risultati legati alla nostra intelligenza e/o alla spiccata manualità, entrambe utili in molti casi a toglierci dagli impicci, quindi non pare sconveniente più di tanto cedere a quel pizzico di vanagloria. Infatti, non lo è, se però ce l’abbiamo messa tutta per raggiungere il massimo del nostro livello e purché teniamo il debito conto dei vantaggi oggettivi di cui siamo stati dotati: i famosi talenti. Qualora invece avessimo la presunzione di attribuirci ogni merito, non saremmo più a un livello veniale ed ogni compiacimento, oltrecché suonare falso, darebbe soltanto fastidio. Penso che il taglio che Gesù ha voluto dare all’episodio riferito nel vangelo di oggi, fuori dalle interpretazioni ufficiali, sia stato proprio quello di mettere bene in chiaro il limite dei nostri meriti a fronte di quanto invece ci è stato donato. Altrimenti che senso avrebbe avuto un sondaggio estemporaneo su cosa pensasse la gente del Figlio dell’Uomo? Certamente Pietro, preso dal suo proverbiale entusiasmo, si sarà compiaciuto nel dire “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” e infatti il Maestro gli dà tosto corda col “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona”, pronto però a girargli la frittata aggiungendo “perché né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. In buona sostanza è come se gli avesse sì riconosciuto la correttezza della sua dichiarazione e la positività del suo intuito e della sua fede, ma che non se ne facesse vanto perché erano solo frutto di un dono gratuito, al quale ha saputo corrispondere. Tanto che poi gli conferisce un’investitura non da poco. Essere consci di tale gratificazione ci obbliga a valorizzare tutto ciò di cui disponiamo, come fecero i due servi della parabola dei talenti, e a non agire con come il terzo nei limiti di mera custodia, pena cedere al fatalismo che è l’anticamera della grettezza e dell’inanità. Andiamo piuttosto orgogliosi della fede, che in termini esistenziali è la cosa più bella che ci potesse capitare, e se riusciamo a compiere grandi cose gioiamo pure con noi stessi per il privilegio di essere strumento del Padre. In definitiva questa è vera umiltà.