Il blog di Carpenedo

Il blog di Carpenedo
La vita della Comunità parrocchiale dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo

Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori

Inserito il 12 Settembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento.
Ecco il vero Vangelo, di cui Paolo può parlare sempre soltanto personalmente e con traboccante gratitudine. è il miracolo incomprensibile della sua vita, da cui egli non riesce ad allontanarsi e a cui deve sempre far ritorno: il fatto che la grazia di Dio lo abbia «giudicato degno»! E la Grazia stessa era la fiducia, la mano tesa da Dio, la mano che rinfranca e che rafforza, che ha innalzato colui che era indegno rendendolo una persona interiormente capace, ricca e perciò degna, “nobile” in senso sovrannaturale. è  il miracolo della fedeltà eterna di Dio, che si fida di noi, che si affida a noi: questo è il vangelo della gloria.
Paolo torna sulla sua situazione precedente: “prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento”.
Da questa oscurità del peccato giunge colui che è stato chiamato e il suo passato gli resta nella memoria a glorificazione della grazia e per nessun altro motivo. Né per interesse psicologico in sé, né per incapacità di liberarsene. Allo stesso modo il cristiano (Agostino!) confessa il suo passato per esaltare la grazia. Neppure per porsi come modello di convertito.
San Paolo si sente parte di coloro cui è diretta la parola della croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Così anche l’essere portati dal buio della mancanza di fede alla sua luce meravigliosa, è la situazione normale; da qui si può intraprendere una missione, un apostolato. Diverso sarebbe se qualcuno peccasse nella fede, nella «conoscenza», dopo aver intrapreso la sua missione: costui perderebbe coscientemente, per quanto lo riguarda, la Grazia.
In questo effondersi al di là di ogni limite della Misericordia di Dio sta l’essenza della riflessione di Paolo: intende evidenziare il venir meno della proporzione, che ancora regnava nell’Antica Alleanza, tra grazia e merito. Fede in senso cristiano è perciò fede in Cristo, figlio di Dio, da cui deriva tutta la grazia del Padre, insieme alla fede e all’amore; ma anche fede e amore insieme con Cristo nei confronti del Padre. Dio Padre e Figlio e Spirito Santo ci fa partecipi della sua stessa Vita. Questa è «sovrabbondanza». Insieme con Paolo, con gratitudine, contempliamo con stupore il fatto incomprensibile che ci è accaduto.
“Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io”.
Non è lontano dal pensiero di Paolo leggere nella grandezza della grazia gratuitamente concessagli, la grandezza della perdizione, in cui la grazia ha brillato e tuttora brilla; perché la confessione è al presente. Damasco resta sempre attuale.
“Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia”: poiché Paolo è stato il primo peccatore, Dio lo ha reso un modello per dimostrare la «magnanima» grazia di Cristo.
Tutto infine sfocia nell’adorazione; la dimensione personale si libera in una formula liturgica di glorificazione e di ringraziamento che coinvolge tutta la Chiesa.

Don Danilo

Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore

Inserito il 5 Settembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

“Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”: così recita un versetto del salmo che pregheremo nella Santa Messa di oggi, 5 settembre.
Nell’occasione dell’inizio del nuovo anno pastorale questa invocazione è quanto mai provvidenziale.
è proprio importante vivere ogni giorno come un dono prezioso. Iniziare la giornata accogliendola dalle mani di Dio Padre e a Lui riconsegnarla prima di addormentarsi permette di prendere in mano l’agenda con i suoi mille “calendari” senza ansie, paure o pretese.
Ritrovare lo sguardo della fede in Cristo “dentro” il tempo dell’orologio e dentro la complessità dei nostri ritmi è un dono urgente per ciascuno di noi e una testimonianza per tutti.
“Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” significa saper rendere grazie per i quattro anni di ministero di don Marco in mezzo a noi e saper accogliere don Stefano.
“Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” significa custodire fedelmente la partecipazione all’Eucarestia domenicale e far crescere la “bellezza” dell’amore nelle nostre famiglie, grandi e piccoli.
“Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” significa desiderare di incontrarci per “leggere” insieme i fatti del nostro tempo alla luce della Parola di Dio e del Mistero Pasquale.
Un primo appuntamento in questa direzione sarà quello dell’assemblea parrocchiale di Domenica prossima, 19 settembre.
“Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” significa lasciarci educare da Dio nella scelta della gestione del nostro tempo. La sapienza del cuore permetterà di “fare” e di “dire”, di “pensare” in modo da orientare la vita nella stessa direzione, quella della Storia della Salvezza, della Bellezza, della potenza della Carità e della Misericordia.
Soltanto così ogni giorno sarà “luminoso”anche nei momenti più duri e tenebrosi.
Sì, Signore, ne abbiamo proprio bisogno: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”.

Don Danilo

Voi vi siete accostati alla città del Dio vivente

Inserito il 29 Agosto 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

“Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.” (Ebrei 12,18-19.22-24)

Anche se non è possibile stabilire una perfetta antitesi tra le due descrizioni, tuttavia il senso generale di questo dittico è chiaro. La vecchia alleanza e la relativa rivelazione di Dio avvenuta nel contesto del monte Sinai sono contrassegnate dalla paura.
La nuova alleanza siglata nel sangue di Gesù, è una esperienza gioiosa di festa, caratterizzata dalla partecipazione alla salvezza definitiva.
Il mediatore dell’alleanza nuova è Gesù che con “l’aspersione del suo sangue” attua la piena riconciliazione e l’incontro salvifico con Dio, inaugurando l’accesso definitivo alla Gerusalemme celeste.
I particolari della prima visione sono una raccolta di elementi desunti dai testi biblici che descrivono la rivelazione di Dio al monte Sinai o Horeb. Del resto il fuoco e la tempesta sono i simboli ricorrenti.
Però il nostro oratore non si limita a trascrivere i testi biblici, ma li rilegge in vista della comunità alla quale rivolge il suo discorso. L’autore della lettera richiama il rifiuto del popolo ai piedi del Sinai ad ascoltare la «Parola». Questa precisazione prepara l’avvertimento successivo sul rischio che corrono i cristiani di subire una più grave condanna se seguiranno l’esempio degli ebrei che ricusarono la voce di colui che parlava loro tramite Mosè.
Più complessa è l’identificazione di alcuni particolari del secondo quadro, quello della nuova alleanza. È facile rilevare la disposizione scenica dei vari particolari: le prime tre espressioni tratteggiano il «luogo» (monte Sion, Città del Dio vivente, Gerusalemme celeste); le tre successive, descrivono “l’assemblea celeste”, “angeli”, “primogeniti e giusti resi perfetti”.
Sorge un interrogativo per queste tre espressioni che presentano l’assemblea celeste: si tratta della chiesa terrena storica, o di quella ideale celeste e escatologica?
Probabilmente il nostro autore non si pone questa alternativa. E’ annunciata la Chiesa come realtà globale e definitiva alla quale partecipano i cristiani. Questo incontro nell’assemblea celeste dove si trova il santuario di Dio e la comunità dei salvati è reso possibile dal sangue di Gesù che con la sua morte accolta liberamente ottiene perdono e salvezza per i membri della nuova alleanza.
L’intera esistenza cristiana, accolta come dono di Dio, vissuta nella fedeltà, è il culto accetto a Dio. L’impegno con il Dio vivente non è un hobby o un passatempo per gente sfaccendata o volubile, ma una scelta seria e irreversibile che abbraccia l’intera esistenza.

Don Danilo

Vivere la “prova” perché il piede “zoppo” guarisca

Inserito il 22 Agosto 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

“«Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio». Perciò, rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (cfr. Ebrei 12,5-13).

Questo “passaggio” della Lettera agli Ebrei affronta la delicata tematica dell’«educazione» divina dei figli “attraverso le prove”. Non dimentichiamoci che essa fa seguito alle affermazioni sull’esperienza vissuta da Gesù, il Figlio, che “attraverso quello che patì esperimentò la fedeltà”.
Qui il rapporto educativo “padre-figlio” è ricostruito secondo i criteri dell’antica pedagogia che prevedeva il ricorso a sistemi preventivi e rigorosi. È proprio dentro la cornice di questo sistema educativo che si può inserire il discorso del nostro autore, il quale desidera offrire una riflessione sul senso delle prove, tribolazioni o sofferenze dei cristiani.
Le conclusioni della sua argomentazione, che si avvale del metodo dell’analogia, si possono riassumere così:
1. le sofferenze sono un «segno» del rapporto di figliolanza con Dio, perché solo verso i figli veri si rivolge la cura pedagogica-disciplinare dei genitori (-> Dio Padre).
2. l’educazione o pedagogia divina a confronto di quella terrena o umana ha questo vantaggio: è fatta da un Padre che in quanto «celeste» ha di mira il bene definitivo dei suoi figli che consiste nel partecipare alla sua santità, alla sua pienezza di vita.
3. quindi nonostante l’attuale crisi o sofferenza che provoca questa pedagogia divina essa alla fine produrrà un frutto eccezionale: una vita corrispondente alla divina volontà, garanzia della pace o salvezza definitiva.
Questo modo di affrontare il problema delle sofferenze o tribolazioni cristiane ha una sua logica quando si sono accettati i criteri dell’antica pedagogia (che suscitano legittime perplessità e riserve al confronto con le moderne scienze dell’educazione).
Ma il problema non è qui. Il rischio è quello di semplificare il paragone utilizzato dal nostro autore tra pedagogia umana e divina, e concludere che Dio è Padre perché «rimprovera e castiga» i suoi figli e tanto più si rivela buono e paterno quanto più li “riprende”.
Il paragone condotto alle sue estreme conseguenze porterebbe ad attribuire a Dio le sventure e disgrazie o le sofferenze e tribolazioni che colpiscono i credenti. Se in una visione teologica astratta si può far rientrare “tutto quello che capita” nel disegno di Dio, resta il fatto che le criminalità umane, fonte spesso di sofferenza e dolori, come nella morte di Gesù, non possono essere semplicisticamente giustificate sulla base del “destino”.
Solo in un contesto di fedeltà, sulla linea di Gesù (il Figlio fedele anche nelle prove) le sofferenze che accompagnano l’esistenza dei credenti possono diventare un invito a riscoprire il nuovo rapporto con Dio Padre in un contesto là dove la fede viene purificata anche dalle sue scorie di illusione e di interessi superficiali. In altre parole l’efficacia della «pedagogia» divina delle prove suppone già quella scelta di fede e fedeltà che trova in Gesù la sua sorgente (e nei padri dell’Antico Testamento e nei Santi i testimoni). Certamente queste considerazioni entrano in un percorso delicato ma estremamente concreto e quotidiano. Un percorso da approfondire, da leggere con gli occhiali del nostro tempo, ma inevitabile. Le prove di ogni giorno non si possono eludere. O le “attraverso” nella fede di un figlio che si affida a Dio Padre oppure vivrò l’illusione della mia presunta onnipotenza seguita da un’inutile fuga, deluso davanti all’incapacità di avere in pugno il cammino della vita.

Don Danilo

La FEDE: fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede

Inserito il 8 Agosto 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

Il primo versetto del cap. 11 della lettera agli Ebrei descrive la FEDE in termini chiari: “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. Questa frase iniziale non può essere separata da tutto il capitolo 11, dove si “racconta” la fede.
La fede dei padri, di Abramo, di Mosè e dei martiri che perseverarono nelle prove in vista del compimento futuro, è fondata sulla promessa del Dio fedele.
L’accento non è posto tanto sulla “stabilità” della fede; quanto sul suo dinamismo, sulla sua apertura al “futuro definitivo” come «cose sperate» o «realtà invisibili».
Questo aspetto verrà continuamente marcato nel tratteggiare il profilo spirituale dei “padri”: Abramo, i patriarchi e Mosè sono quelli che guardano alle realtà promesse da Dio, quelle definitive o ultime e per questo possono perseverare nella loro scelta di fede, possono mettersi in cammino. L’autore della lettera agli Ebrei non offre una definizione astratta, ma una descrizione che illumini la vita quotidiana a partire dalla storia della salvezza. La fede è la condizione per entrare in relazione vitale con Dio. Dio non è un oggetto «dottrinale» della fede, ma una realtà personale alla quale l’uomo si apre con l’ascolto, la fiducia, la risposta. La presenza di Dio rientra in quelle «realtà» che non si vedono, ma di cui la fede dà la certezza; la sua azione efficace e salvifica, che risponde alle attese profonde dell’uomo, fa parte di quelle «cose che si sperano» e delle quali la fede dà la garanzia.
Il racconto giunge ad Abramo. Per la tradizione cristiana primitiva Abramo è il padre della fede. Il cammino di fede di Abramo inizia con la «partenza», l’uscita dal suo passato sicuro per andare verso un futuro che egli non conosce, ma che gli è solo promesso come «eredità», cioè un bene da trasmettere alla discendenza: all’origine di questa partenza c’è la chiamata di Dio alla quale Abramo aderisce prontamente. Questa prima fase è caratterizzata dal movimento che va dal posseduto a quello che non è posseduto, da “quello che si vede e conosce” all’invisibile e sconosciuto. La stessa tensione si esprime nella contrapposizione tra abitare nella tenda da straniero nel paese promesso e l’attesa della «città» dalle solide fondamenta progettata e costruita da Dio.
La seconda fase si svolge attorno al tema della «discendenza». Anche in questa sequenza è palese il contrasto tra la sterilità da una parte e la potenza di generare la tensione tra la morte e la vita, tra uno solo e la moltitudine dei discendenti. Ancora una volta il passaggio o il superamento avviene grazie alla «fede» che si appoggia alla potenza e fedeltà di Dio.
Il terzo momento, quello della prova, rappresenta il vertice dell’espressione e forza della fede.
Qui la tensione raggiunge l’acme perché sembra che Dio stesso voglia distruggere il pegno del futuro promesso chiedendo il sacrificio di Isacco. Il superamento della crisi avviene in forza della fede di Abramo che si fida della «potenza» di Dio che risuscita i morti. La conclusione di questa sequenza fa intuire uno scorcio “cristiano” della fede di Abramo: egli per la fede ritrova non solo il figlio della promessa, ma il figlio «risuscitato» da Dio. In questo l’autore cristiano intravede un’anticipazione profetica della vicenda di Gesù.

Don Danilo

Il nuovo cappellano

Inserito il 8 Agosto 2010 alle ore 07:55 da Don Danilo Barlese

Vi annuncio che il Patriarca ha nominato nuovo cappellano di Carpenedo don Stefano Cannizzaro, trasferendolo da San Lorenzo M. di Mestre.

Accompagniamolo con la preghiera e con la simpatia con le quali continuiamo a fare il “tifo” per don Marco.

Se volete, potete cominciare a conoscere don Stefano leggendo la sua biografia dal sito del Duomo di Mestre.

Don Marco sarà Parroco

Inserito il 27 Luglio 2010 alle ore 22:34 da Don Danilo Barlese

Carissimi/e,
nel cuore dell’estate ci raggiunge l’annuncio della nomina a Parroco del nostro don Marco.
La notizia da un lato ci riempie di letizia e di soddisfazione perché questo nuovo ministero dona ad un sacerdote la responsabilità della cura della “famiglia allargata” di una determinata comunità.
D’altra parte il cuore prova dispiacere perché si dovrà concludere un cammino pastorale comune con un compagno di strada generoso, discreto e intelligente.
L’appartenenza alla Chiesa di Venezia ci spinge ancor più a custodire i frutti delle esperienze condivise in questi quattro anni e a cercare i luoghi e le occasioni per nuovi momenti di incontro e di impegno comune.

Caro don Marco,
sono certo che tutto il tempo donato in mezzo a noi porterà frutti abbondanti che passeremo nelle mani anche del nuovo cappellano (il cui nome conosceremo a fine agosto).
Il distacco porta con sé sempre un sacrificio e una sofferenza nel campo degli affetti: soprattutto, ne sono certo, in tanti ragazzi e ragazze, in tanti giovani e adulti, che hanno potuto trascorrere con te giornate e momenti importanti per la loro vita e per la crescita nella fede.
Io ringrazio insieme con te il Signore per il dono che sei stato e che sei per la nostra comunità di Carpenedo e per il nostro vicariato, per tutte le Sante Eucarestie che hai presieduto per noi, per tutti i giorni trascorsi insieme, a servizio del Vangelo, con semplicità, con sempre maggiore “complicità”, con gioia.
Il Patriarca ti ha chiesto di diventare segno del “Pastore Buono” per la comunità cristiana dei Ss. Francesco e Chiara di Marghera (mantenendo i precedenti incarichi diocesani nella pastorale sociale).
Noi preghiamo per te, perché il Signore ti sostenga e ti illumini in questa nuova avventura.
Tu continua a pregare per noi perché Gesù, il Crocifisso Risorto, ci doni di crescere nella santità e di edificare una comunità cristiana secondo la sua volontà.

Saluteremo e ringrazieremo coralmente don Marco a settembre e nel mese di ottobre lo accompagneremo al suo ingresso come Parroco in quel di Marghera.
Negli stessi giorni accoglieremo il nuovo cappellano, anzi fin d’ora preghiamo il Signore per lui, (chiunque il Signore ci manderà).

Nel frattempo la parola più adeguata è sempre “GRAZIE”. “Grazie” per aver condiviso un tratto di strada con il mistero della vocazione di un prete che ci ha testimoniato il suo amore per Gesù, per la Chiesa, per il mondo.
Invochiamo insieme il dono inestimabile di vocazioni alla vita consacrata nella nostra Chiesa di Venezia e nella nostra comunità parrocchiale, pronti ad accompagnare tutti, anche fossero… milanisti!

Don Danilo

Con Cristo sepolti nel battesimo, con Lui siamo risorti

Inserito il 25 Luglio 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

’appartenenza a Cristo dal quale proviene ogni dono divino è stata fissata nel Battesimo. (Col 2,12-14, seconda lettura)
Occorre che i cristiani si ricordino cosa significa il Battesimo per la loro propria vita.

A San Paolo preme sottolineare la novità di vita che ne risulta. I battezzati sono stati da Dio trasformati nel loro essere profondo. Da una situazione di peccato, di lontananza da Dio e quindi di morte, noi, nel Battesimo, siamo passati sotto la signoria di Cristo.
Il Battesimo ci inserisce nell’evento pasquale della morte-risurrezione di Gesù, in quell’evento che costituisce la grande svolta nella storia dell’umanità.

Nella sua morte in croce, Gesù ha vissuto con noi e a nostro favore la separazione da Dio che caratterizza la condizione umana di peccato. Ma egli ha vissuto questa totale solidarietà con la nostra condizione di lontananza da Dio nella massima obbedienza filiale, in totale apertura all’azione del Padre che lo risuscita. La nostra vera morte avviene nel Battesimo: siamo con-morti, con-sepolti con Cristo. Questa partecipazione alla morte del Signore avvenuta nel Battesimo viene attuata lungo la nostra esistenza nella «fede che agisce mediante l’amore» (Gal 5, 6), e la morte fisica non è che l’ultimo “Sì” a quanto è già fondamentalmente avvenuto nel Battesimo.

“Nella fede che agisce mediante l’amore”, già è all’opera lo Spirito Santo, lo Spirito del Risorto.
San Paolo insiste e mette in luce, con altri temi, il passaggio avvenuto per ognuno nel Battesimo. Nel passato eravamo morti, come il figlio prodigo, lontano dalla casa del padre. Attori in un mondo dominato dal male, dalle strutture di peccato, per il rifiuto di rinunciare al proprio egocentrismo, eravamo già morti ben prima di ricevere il battesimo. Essere sepolti con Cristo significa allora essere “morti alla morte” che è lontananza da Dio, morire ad una esistenza di vita del tutto sbagliata, che non poteva non condurre al fallimento definitivo.

Ma ciò che conta è che Dio ha perdonato, ha quindi, per propria iniziativa, tolto la separazione con Lui. La vita nuova ricevuta da Dio al battesimo e nella fede si caratterizza come un vivere-con-Cristo: solo nella comunione con Gesù risorto l’uomo si trova realizzato, perché riceve quella forza capace di superare l’egocentrismo fondamentale, riceve l’amore, che è la vita stessa delle Persone divine, creatrice di comunione.

Il v. 14 lo esprime con l’immagine del certificato di debito: “Cristo ha tolto di mezzo il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario. Lo ha inchiodato alla croce

L’uomo è in debito nei confronti di Dio, si trova con Lui in un rapporto fallimentare. In rigore di giustizia, non c’è per il peccatore altra possibilità che presentare a Dio questo documento dove è segnata, con l’elenco delle nostre trasgressioni, la nostra propria condanna. Ma Dio ha messo una croce sopra questo documento, lo ha annullato «inchiodandolo alla croce», come un contabile attacca al chiodo una fattura pagata.

Nella morte in croce di Gesù, il Padre ha tolto, gratuitamente per puro amore, l’ostacolo che allontanava l’umanità dalla Sua presenza. Con la venuta di Gesù, l’umanità vive sotto il Perdono definitivo di Dio che diventa efficace in ognuno nella misura in cui anche noi rimettiamo i debiti a coloro che sono in debito con noi. L’attenzione si porta dunque in finale su Gesù risorto, la risposta che la fede dà ai problemi esistenziali dell’uomo. Non c’è bisogno di oroscopi e altre potenze! «Essere con Lui» ci rimanda anche al suo Corpo che è la Chiesa, e quindi alla vita d’unità della comunità, spazio dove viene fin d’ora vissuta la comunione piena con il Padre.

Don Danilo

Un cantiere per il Redentore

Inserito il 19 Luglio 2010 alle ore 17:48 da Don Danilo Barlese

è iniziata l’avventura del restauro della volta della nostra chiesa. In pochi giorni i tubi innocenti hanno raggiunto “le stelle”. Il nostro Crocifisso circondato dalle impalcature è un rinnovato invito a fare della nostra comunità parrocchiale un appassionato “cantiere” per edificare continuamente al Signore una “casa” capace di raccontarlo, di incontrarlo, di farlo toccare con mano. Una “casa” che quanto più ha buone fondamenta, tanto più è pronta ad andare verso tutti, fino agli estremi confini.

Buon lavoro agli operai e alle maestranze!

Continuiamo a sostenere anche con le nostre piccole ma preziose offerte questo restauro, simbolo di un dono molto più grande: Dio con noi.

Don Danilo

A me non capiti di vantarmi se non nella croce del Signore Gesù

Inserito il 4 Luglio 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

Per San Paolo l’unico vanto possibile è la Croce. Ogni altro vanto è vanagloria. La Croce è la gloria stessa di Dio, vertice del suo Amore. Amore totale che sconfiggerà la morte e si manifesterà nella Risurrezione.
La croce “gloriosa” è il «criterio» della vita cristiana, pace per chi l’accoglie, e misericordia per gli altri. Paolo vive nella sua carne questo “criterio”, come testimoniano i segni delle sue sofferenze apostoliche. Gesù, il Crocifisso Risorto, e la sua Grazia costruiscono l’uomo nuovo, la vita cristiana.
La conclusione della lettera ai Galati torna a ricordare che ci sono “coloro che vogliono far bella figura nella carne”. Paolo definisce così gli avversari del Vangelo: gente in cerca del proprio io, che vuol far bella figura. L’umiltà è il versante soggettivo della verità. Chi non è umile, piega la verità e la usa a proprio vantaggio.
Chi cerca “discepoli di se stesso”, tradisce sempre la verità. Anche se dice il vero, compie la massima falsità: si erge a maestro, ponendo al centro il proprio io invece di Dio.
Vanagloria, coercizione, paura, incoerenza e ricerca di successo: questi sentimenti sono la radice di ogni divisione e settarismo, e, ancor peggio, portano a tradire la verità dell’evangelo e a svendere la libertà dei figli.
Ci possono essere comunità piccole e non settarie – come Paolo voleva dai suoi cristiani – e comunità grandi e pur settarie, se sono centrate su di sé. Non è il numero, ma la mentalità che distingue tra comunità ecclesiale e setta.
L’essere in Cristo ci fa uomini nuovi, figli di Dio, che vivono del suo Spirito. È il compimento della profezia di Isaia: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?».
Questa “cosa nuova” è il “cuore nuovo”, capace di amare come è amato (come io ho amato voi) e di compiere il comandamento, insieme nuovo e antico: amerai il Signore Dio tuo con tutte le tue forze e il prossimo come te stesso.
La croce gloriosa è “criterio di verità”: rivela chi è Dio e chi siamo noi. In essa si compie la legge: è portato tutto il peso della debolezza del mondo. La norma della croce è la libertà di amare e servire senza condizione, vero volto di Dio e dell’uomo.
L’agire e il pensare cristiano si misura sempre sulle coordinate della croce, in un costante “incontro-scontro”. La croce, congiunzione perfetta tra cielo e terra, tra oriente e occidente, unisce tutti gli uomini, sollevandoli in un unico abbraccio verso Dio.
Il «criterio» della croce distrugge in sé ogni inimicizia e riconcilia gli uomini tra di loro e con Dio in un solo corpo, in un solo uomo nuovo.
San Paolo infine è dispiaciuto non del proprio male, bensì del male che si fa chi gli fa del male. Anche per questo Paolo porta nel suo corpo le stesse ferite (stigmate) del Crocifisso che annuncia. Le sue ferite nella carne testimoniano la sua appartenenza a Cristo.

Don Danilo

« Articoli precedenti Articoli successivi »