Il blog di Carpenedo

Il blog di Carpenedo
La vita della Comunità parrocchiale dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo

Chi mi ama mi segua!

Inserito il 17 Maggio 2020 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

Chi mi ama mi segua! Era il grido d’incitamento che ogni condottiero, dotato di un certo carisma, lanciava ai suoi adepti se era in procinto di sferrare un attacco impegnativo o d’intraprendere un’azione rischiosa. Certo, doveva averne di peso e d’influenza per essere sicuro di guidare persone entusiaste e disponibili a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”! Se la risposta fosse stata fiacca o incerta, una figuraccia alla Brancaleone da Norcia non gliel’avrebbe risparmiata nessuno. Gesù non aveva di questi problemi e sul suo ascendente non v’era allora, come non c’è adesso, alcun dubbio. Tuttavia, la mano sul fuoco per i suoi non l’avrebbe messa tanto decisamente, anche se poi non solo la mano, ma la vita stessa ha sacrificato nella certezza che lo avrebbero seguito. E così è stato e quelli che non hanno mollato nemmeno di fronte al martirio non si contano. Qual è la strada per seguire il Salvatore? Ce l’ha detto tante volte: l’amore e, come ben sappiamo, la gittata dell’amore è talmente ampia che nessun pezzo d’artiglieria può eguagliarla. In questa sesta domenica di Pasqua, alla vigilia della sua ascensione, Egli specifica come si esplicita questo sentimento nei suoi confronti: osservando i suoi comandamenti. Non ci chiede di compiere atti di eroismo speciali, bensì di vivere eroicamente la nostra fede, senza deflettere né scendere a compromessi con chi volesse smorzare la speranza che è in noi. “Tutto questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza”, ci avverte San Pietro nella sua prima lettera, “perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo”. Purtroppo sono molti i cristiani che scambiano l’amore per un’arma da brandire e la fermezza nella verità per protervia; troppi errori del passato lo stanno a dimostrare. Il vero amore non ha bisogno di questo, è già contagioso di suo. Quante volte ce lo ripete anche il Papa, che ha ereditato il compito di guidare la Chiesa e ha il suo bel daffare nel contenere l’esuberanza di qualche suo alto rappresentante! Anche l’obbedienza civile espressa con correttezza rientra in quel comportamento che esprime un amore che chissà quanti sedicenti condottieri vorrebbero riscuotere dai loro governati. Colui che accoglie e osserva i comandamenti, conclude Gesù, questi mi ama. Anche l’emergenza che stiamo vivendo ci offre un’opportunità di verifica: non sprechiamola, magari pensando di fare i furbi.

“I soliti ignoti”

Inserito il 10 Maggio 2020 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

“I soliti ignoti” è il giochino condotto da Amadeus che va in onda tutte le sere su Rai 1 dopo il Tg. Si tratta di assegnare a otto personaggi altrettante attività, anche non professionali, con alcuni indizi a disposizione e si conclude abbinando un paio di persone, legate da parentela, sulla base di caratteristiche fisionomiche. Chissà perché il vangelo di oggi mi ha richiamato questo format. Siccome ci si sta avviando a conclusione dell’avventura terrena di Gesù, il liturgista avrà pensato bene di riprendere una parte del lungo testamento che secondo l’evangelista Giovanni il Maestro fece ai suoi nell’orto del Getsemani prima d’essere arrestato. In buona sostanza vuol essere una verifica di quanto abbiano ben compreso tutti gli indizi che ha seminato lungo i tre anni di predicazione, ma soprattutto se hanno colto il nesso di correlazione tra lui e il Padre, dato che è proprio lassù che lo seguiranno un giorno, in quella definitiva dimora che egli si accinge ad andare a preparare per ciascuno di loro. E li provoca e loro ci cascano, con domande da bambini del catechismo agli inizi. “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”, attacca Tommaso; “Signore, mostraci il Padre e ci basta”, incalza Filippo. Non meravigliamoci, siamo pure noi ancora a quel livello, con l’aggravante che noi lo Spirito Santo l’abbiamo già ricevuto e loro invece ancora no. A ogni modo la risposta di Gesù non poteva essere che “magistrale” ed esaustiva, per loro e per noi: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Si rammarica il Messia: dopo tanto tempo trascorso insieme ancora non hanno (abbiamo) capito che Lui riassume tutti i fondamentali dell’uomo e dà la risposta certa alle sue prospettive. E rivolto a Filippo aggiunge: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Ecco la soluzione del quesito finale, però, se saremo intuitivi, il nostro “format” non prevede una valanga di soldi, bensì la via impervia del martirio, che è poi quella che preconizza ai suoi e che lui stesso sta per intraprendere. Ancora oggi molti nel suo nome lo subiscono letteralmente, altri lo vivono affrontando le avversità della vita in modo propositivo, comunque il più delle volte derisi se esprimono una fede salda nel Risorto e nella resurrezione. San Paolo dice che saremo anche noi pietra d’inciampo, il che significa che se saremo “operativi” non sarà possibile eluderci. L’atteggiamento della Chiesa nel momento drammatico che stiamo vivendo la dice tutta!

Le situazioni di emergenza

Inserito il 3 Maggio 2020 alle ore 18:53 da Plinio Borghi

Le situazioni di emergenza sono la prova del nove per misurare la capacità di un pastore nel far da guida al suo gregge. Ogni riferimento al comportamento dei vari governi nel mondo sul modo col quale hanno affrontato la pandemia in atto è puramente casuale, ma non più di tanto. In questa quarta domenica di Pasqua, in cui si celebra come sempre la figura del Buon Pastore, il vangelo sciorina una serie di caratteristiche che qualificano un ruolo così importante e che vanno dal conoscere le proprie pecore ad una ad una, le quali a loro volta conoscono la sua voce, nel saperle condurre fuori, nel camminare sempre davanti ad esse, nell’essere egli stesso la porta delle pecore, nel salvarle dal pericolo, fosse anche il caso di lasciare le altre per provvedere ad una sola, nel dare la propria vita per loro. Quanti di quelli che si ergono a guide possono ritenere in tutta tranquillità di rivestire siffatte doti? La domanda è retorica e lascio ad ognuno la risposta che in coscienza pensa di poter fornire. C’è anche il rovescio della medaglia: quanti di noi si sentono rinfrancati dalla voce dei propri governanti? Quanti sono in grado di intendere e agire per il bene di tutti, a prescindere dagli obblighi, o non si cerca piuttosto di affrancarsi dal gregge ritenendo di essere più intelligenti o più furbi degli altri? E anche qui l’esito è appannaggio di ciascuno. Attenti, però, che Gesù mette in guardia dai cattivi pastori, da chi entra nel recinto da un’altra parte che non sia la porta principale; addirittura li definisce ladri e briganti. Costoro avranno la meglio proprio su chi si arroga il diritto di non sentirsi pecora, di non appartenere al gregge e finisce poi per cadere dalla padella alla brace. Di millantatori, di esperti raffazzonati e di politologi abbiamo un florilegio inesauribile. Basta aprire la tv e se ne affacciano continuamente, senza contare chi imperversa su facebook, whatsapp, youtube o altri social similari; aggiungiamoci coloro che, in crisi di astinenza dal calcio, si sono improvvisati virologi o epidemiologi e il quadro è perfetto. Ci sfugge in genere un particolare: che essere pecora o appartenere al gregge non significa portare il cervello all’ammasso, bensì saper riconoscere la voce della verità e affidarvisi, nonché, parimenti, saper rifuggire da voci che non quagliano. Noi cristiani sappiamo qual è, perché è chiara e dà vita. Nell’impegno sociale, chi guida cerchi almeno di non far confusione, altrimenti è finita.

Essere un tantino fisionomisti…

Inserito il 26 Aprile 2020 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

Essere un tantino fisionomisti non guasta affatto e ti evita qualche figura barbina. Per certe professioni è poi indispensabile: se un investigatore o un poliziotto ne difettassero dovrebbero cambiare mestiere! Anche per noi comuni non esserlo del tutto rasenta il patologico, appunto perché uno non se la mette via se non ci riesce a mettere a fuoco una persona, ma in genere, specie se questa ha dimostrato di conoscerti, continua ad elucubrare sforzandosi di inquadrarla. Allora cominci a collocarla nei vari ambienti, a immaginarla vestita nei modi più disparati, nella speranza che la tua defaillance sia determinata da un abbigliamento diverso da quello consueto, e così via. A me è successo anche di instaurare nuove amicizie, se nello scambiare i saluti siamo scivolati entrambi nello stesso equivoco: praticamente non ci conoscevamo per niente ed era solo un qui pro quo ovvero ci vedevamo spesso nello stesso luogo pubblico, come l’autobus. Pressappoco anche ai discepoli di Emmaus è accaduto di incappare nella perdita di immediatezza nel riconoscere il viandante che li aveva affiancati quando se ne tornavano delusi dall’epilogo della storia del loro Maestro. È pur vero che il Gesù da risorto non poteva essere uguale a prima, altrimenti la Maddalena al sepolcro non l’avrebbe preso per il giardiniere né i suoi apostoli scambiato per un fantasma quando li aspettò di ritorno dalla pesca in riva al mare. Però quelle strane sensazioni che avvertivano mentre, strada facendo, spiegava loro il senso delle scritture dovevano pur innescare un campanello d’allarme! Macché. Tuttavia, la botta prima o dopo ti arriva e il gesto di spezzare il pane durante la cena fu inequivocabile. Tutto fu chiaro… a posteriori; e la delusione si è trasformata in certezza, e la certezza in entusiasmo, fino a ritornare di corsa, e di notte, per raccontarlo a tutti. Quanto ci identifichiamo noi in questi due protagonisti che la liturgia di oggi ci propone? Fino a quale consistenza abbiamo aggiornato la fisionomia di Gesù, attraverso il Vangelo? O siamo ancora fermi ai tratti elementari, di carattere più affettivo che altro? Se ci affianca, lo sappiamo riconoscere nei panni del povero, del diseredato, dell’emarginato, così da essere tempestivi nel rispondere alle situazioni che ci interpellano o ci abbandoniamo alle elucubrazioni per capire ciò che la nostra consapevolezza dell’essere cristiani è già in grado di percepire? Gli aspetti fisionomici vanno curati, se vogliamo essere all’altezza, sennò è tutto inutile.

Due modi di fare Pasqua

Inserito il 12 Aprile 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Due modi di fare Pasqua. Spostarla non si può, altrimenti finiamo col celebrare la Pentecoste il 15 agosto e l’Assunta a dicembre, al posto dell’Immacolata. E allora, tanto per vedere il bicchiere mezzo pieno, vale la pena di cogliere l’occasione di vivere siffatto momento storico e unico e di valorizzarlo al massimo, dandogli i connotati che si conviene, affinché non resti solo il ricordo di un virus che ci ha fatti prigionieri. Facciamogli quindi assumere tutta la positività spirituale e sociale che ci veda poi uscire non solo vittoriosi, ma cresciuti. Legati come siamo alle mai disattese tradizioni, capisco come non sia così facile reinventarsi su due piedi il percorso adeguato, specie per le persone più anziane. Secondo me è senz’altro utile seguire in Tv le varie funzioni che il Papa e il Patriarca hanno promosso, ma, per chi può ed è capace di farlo, è ancora più bello attivare i collegamenti messi in atto dalla parrocchia, perché li sentiamo più “domestici”, ma pure in quanto stimolo giusto per acquisire tanti passaggi liturgici altrimenti meno percepiti dato l’incalzare dei riti. Dovendo ridurre i vari momenti all’osso, infatti, senza la massiccia ed enfatica partecipazione fisica, si tende a fissare meglio l’attenzione sul contenuto, esaltato dallo sforzo che i celebranti compiono nel trasmetterlo. Sarebbe peraltro opportuno accedere dopo aver letto e meditato le varie letture. Io lo sto sperimentando, anche per ragioni operative dovendo scrivere in proposito con anticipo, e vi garantisco che il risultato è gradevole. Non è secondaria nemmeno la sensazione comunitaria che se ne ricava, specie a fronte del pizzico di nostalgia che si prova a non poter essere là tutti assieme. Va da sé che, nel riavviare, si spera presto, la vita abituale, saremo come minimo molto più entusiasti avendo sperimentato cosa ha voluto dire privarsene. Socialmente non è possibile fare gran che, dati i limiti perentori che ci sono imposti, e passerà ancora molto tempo prima che possiamo azzardarci ad abbracciarsi e a stringerci la mano. Può questa essere l’opportunità buona per riesaminare il modo col quale ci siamo sempre scambiati gli auguri, perché dobbiamo comunque formularli, magari rivedendo certi elenchi ridotti e approfittare per riallacciare rapporti sopiti. I mezzi di comunicazione ci agevoleranno tentativi, che magari di persona potevano imbarazzare di più. Così quando ne usciremo, malgrado l’isolamento, avremo allargato la cerchia sociale. Io intanto approfitto di questo consueto veicolo per augurare a tutti BUONA PASQUA!

Essere all’altezza di governare

Inserito il 5 Aprile 2020 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

Essere all’altezza di governare. È un fattore determinante per chi si assume la responsabilità di ricoprire certi incarichi, fosse anche quello di amministrare un condominio. Se poi ti capitano fra capo e collo tegole come quelle che stiamo sperimentando in questo periodo, la cosa diventa essenziale. Ogni riferimento agli attuali referenti a tutti i livelli, europei compresi, è puramente casuale: basta e avanza quello che ha detto il nostro Patriarca durante l’omelia di domenica scorsa. Oggi fa da interfaccia il più che famoso Ponzio Pilato, non soltanto perché, con il virus in circolazione, è un buon esempio di come ci si debba lavare le mani, ma anche per la figura barbina che ha fatto come governatore (buon per noi, altrimenti con uno più capace non ci sarebbe stata crocifissione di Gesù a redenzione nostra!). Certamente a Roma l’hanno inviato in periferia pensando a un incarico di routine, dopo aver capito che quello non era tipo da imprese epiche. Sennonché, non bastasse Erode, il quale, pur servile, non gli dava certo una mano a tenere a bada un popolo oppresso, ci voleva anche la tegola di quel Rivoluzionario da quattro soldi, tanto innocuo per l’impero quanto rottura di equilibri per il Sinedrio e i suoi rappresentanti. Pazienza, la questione andava affrontata. Da bravo inetto, gli sarebbe bastata una strapazzata apparente (alla faccia!) e tutto si sarebbe risolto, ha pensato. Magari avrà pure consultato qualche esperto del suo entourage. Macché. Quei marpioni si sono poi messi a fomentare il popolo e questa non ci voleva. Con un colpo di genio degno della più plateale imbecillità, ha allora proposto uno scambio col più incallito dei criminali, certo Barabba. Era fin troppo chiaro che l’onda montante avrebbe rifiutato l’éscamotage, non solo, ma all’ennesima titubanza, ha dimostrato tutta la sua incapacità di essere all’altezza della situazione: prima proclama a un Gesù chiuso nel silenzio che lui aveva il potere di salvarlo e si becca la risposta dal Maestro “Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto” e poi si mette a disquisire con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo (è il brano della Passione in lettura il Venerdì Santo), che lo ricattano e minacciano tout court di rivolgersi a Cesare. L’epilogo lo conosciamo. Mi direte che la storia ci ha consegnato parecchi capi di tal fatta. Beh, è un’altra delle dimostrazioni che il Vangelo è intramontabile e ti dà sempre un’ottima risposta. Approfittiamone per riprenderlo e approfondirlo in questa Settimana Santa inedita.

“Gesù, dove sei?”

Inserito il 29 Marzo 2020 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

“Gesù, dove sei?” È il grido che in questa fase d’impotenza contro il nemico invisibile si eleva dal mondo intero. “Se tu fossi qui tutto ciò non succederebbe!”, insistiamo, aggrappati a quell’unico filo di speranza che ci sostiene nella lotta che stiamo conducendo con le armi spuntate. Chi non è o non è ancora stato sfiorato dal contagio ha almeno la forza di reagire, ma ai molti di coloro che hanno già provato l’esperienza o subito la perdita di persone care, senza poterle nemmeno accompagnare nell’ultimo viaggio, riesce difficile anche imprecare. Sembra che anche la liturgia di oggi metta il dito sulla piaga e le reazioni di Marta e Maria alla morte del fratello Lazzaro riflettono perfettamente le nostre posizioni testé evidenziate: Maria, affranta, all’arrivo di Gesù nemmeno si muove e rimane in casa; Marta invece gli corre incontro sostanzialmente recriminando che se fosse stato più tempestivo non sarebbe successa tale disgrazia. Tuttavia, in Marta rimane quel barlume di fiducia che le fa pronunciare: “Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”. Qualche giorno prima, quando gli riferirono che l’amico era ammalato, il Maestro non si affrettò, ma disse una frase enigmatica ai suoi astanti: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio”. Sapeva, quindi, quale sarebbe stato l’epilogo. Non ci è dato di comprendere il disegno divino nei nostri confronti, ma in tutto quello che sta avvenendo Dio non è assente. Tant’è vero che Gesù, pur sapendo che il Padre l’avrebbe ascoltato, rende grazie e piange davanti al sepolcro, ma il suo non è un pianto di disperazione, bensì di empatia: soffre con chi sta soffrendo, il suo cuore è colmo di compassione e chi sta vedendolo e ascoltandolo deve capire che la sua fede e la sua partecipazione sono indefettibili. Aveva appena “alzato la voce” con Marta che gli controbatteva sulla resurrezione: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà”. Il doppio monito è anche per noi: Colui che è vita e ha vinto la morte è con noi e sta combattendo con noi, anche se ci sembra che si stia soccombendo un po’ troppo. Usciremo anche noi dai nostri sepolcri, come attraverso Ezechiele dice Dio al popolo di Israele, e vedremo la terra promessa. Intanto recitiamo con fede il ”De profundis”, che una volta sapeva solo di funerale, ma che in effetti è il salmo 129, riproposto oggi fra le letture: un inno alla bontà e alla misericordia del Signore.

Vivere con il senso di colpa

Inserito il 22 Marzo 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Vivere con il senso di colpa, se c’è la consapevolezza di averla combinata grossa, non è poi così male come a volte può sembrare. In fin dei conti il rimorso è l’unica reazione che smuove un po’ la coscienza, se ne abbiamo una e ancora non è addormentata. Purtroppo i modi per sedarla sono molti, a partire dal soggettivismo, passando per il crearci principi e verità tutti nostri e approdando al non trovare nulla di male nella trasgressione e nel misfatto. Ce la raccontiamo e ce la confezioniamo come ci sembra più opportuno, mentendo sapendo di mentire, e a lungo andare ci inganniamo da soli finendo per credere sul serio alla realtà che ci siamo disegnati. Non c’è nulla di teorico in questo: basta guardarci attorno con occhio critico e ci accorgiamo che non c’è categoria esente, cominciando dai politici. Era così anche al tempo di Gesù e il lungo brano del vangelo di oggi prende a pretesto la guarigione del cieco nato per mettere in evidenza l’atavico dualismo: chi si crea senza motivo i sensi di colpa e chi, colpevole, si adopera per farli venire agli altri. Stavolta l’esordio è affidato agli apostoli stessi: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Ecco il luogo comune. “Cosa ho fatto di male per meritare tutto questo?” non manchiamo di esclamare in più di qualche circostanza. Ora lo si dice a mo’ di sfogo, ma non più di tanto, specie quando ce la prendiamo col Padreterno. Allora era la regola, interpretata ovviamente da chi manipolava il popolo. Il Maestro la demolisce subito: “Né lui ha peccato né i suoi genitori”; ed ecco l’occasione per dimostrarlo col miracolo cosiddetto della piscina di Siloe, che ha ispirato anche quella bella antifona alla Comunione, che un tempo ben s’esprimeva in latino col canto gregoriano (Lutum fecit). Rivolto poi ai farisei, che peraltro avevano tentato di svilire l’intervento del Messia e che ora fingevano di preoccuparsi di essere anch’essi ciechi per non aver capito il senso dell’accaduto, Gesù li stronca dicendo loro che se lo fossero sarebbero anch’essi senza peccato, ma poiché dicono di vederci benissimo, il loro peccato rimane. È la norma della consapevolezza che ci riguarda tutti: è quindi tempo e c’è spazio (viste anche le condizioni causa epidemia) per un bell’esame di coscienza.

Alla sete non si comanda

Inserito il 15 Marzo 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Alla sete non si comanda, lo sappiamo tutti, specie chi ha attraversato il deserto senza adeguata scorta o si è cimentato nello sciopero della fame: a quella si può anche resistere (l’ha dimostrato il Gesù che ricordiamo in questi giorni), ma alla sete è impossibile. Perfino sulla croce il nostro Salvatore, preso com’era in quelle condizioni e prossimo a morire, non seppe resistere e gridò: “Ho sete!”. Sta di fatto che da sempre non esiste comunità che non si sia strutturata attorno a un corso d’acqua o a una fonte o a un pozzo. Per un goccio d’acqua si è fatto luogo ad aggressioni e invasioni, si sono scatenate guerre, si è addirittura perso il senso della fede e ci si è rivoltati contro Dio, come ha fatto pure il popolo eletto che la prima lettura di oggi ci descrive. Per fortuna il Creatore ci conosce e, misericordioso come sempre, ha fatto sì che Mosè compisse il miracolo. Anche oggi il Messia manifesta il bisogno di bere e per un po’ d’acqua supera persino le convenienze: non solo ne chiede a una samaritana, ma poi le si rivela per quel che è e si sofferma con lei a parlare attorno al pozzo. Tralasciamo i commenti degli apostoli, di ritorno dai loro compiti, che tuttavia riflettono proprio il nostro tipico modo di pensare nel cogliere ciò che appare, e torniamo ai fatti. Alla donna, meravigliata che un ebreo si degnasse di rivolgersi a gente di Samaria, il Maestro oppone un’affermazione quanto mai calzante: se tu sapessi con chi hai a che fare, saresti tu a chiedere da bere a me. La donna non può capire, oltretutto poi se quello strano personaggio le aveva appena chiesto da bere e quindi non aveva di che servirsi. Quando però si rende conto della verità, ben conoscendo il contenuto delle profezie, allora si trasforma in testimone della grazia che le è capitata. Ebbene, fuor dell’epilogo, resta il filo conduttore: l’acqua e Gesù che, definendosi fonte inesauribile, immette a livello spirituale la stessa logica umana. In poche parole, per una vita completa e piena non possiamo fare a meno di Lui, con l’aggiunta non da poco che dopo aver bevuto della sua acqua non avremo più sete, saremo del tutto appagati. Non mi sembra un’offerta da sottovalutare o, peggio, da snobbare. A latere, è bello notare come la salvezza ci venga presentata attraverso le cose più semplici. Infatti, fra poco l’Unto dal Signore si consegnerà totalmente a noi, e vi rimarrà, sotto le specie del pane e del vino. Aprire cuore e mente e testimoniarlo, come fece la samaritana, è il minimo.

“Che beo, el gèra fora de lu!”

Inserito il 8 Marzo 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

“Che beo, el gèra fora de lu!” avrebbero raccontato agitati Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre apostoli che Gesù ha portato con sé sul monte Tabor… se fossero stati veneziani e avessero potuto parlare. Invece non lo erano e per di più è stato imposto loro il silenzio. Peggio, ne avrebbero potuto far cenno solo dopo che il Figlio dell’Uomo fosse morto e risorto e questo non solo ha smorzato gli entusiasmi, ma li ha lasciati anche alquanto perplessi, perché non ci capivano nulla. Già era deprimente il solo pensiero che il loro Salvatore, il Messia che avevano atteso da tempo, sarebbe morto, evidentemente molto presto, ma che addirittura si introducesse il concetto di resurrezione era inconcepibile. L’unica era fidarsi. D’altronde avevano appena sentito la voce imponente di Dio che ordinava di ascoltarlo: potevano essi permettersi di confutare quello che stava dicendo? E allora perché tutta quella manfrina, che aveva coinvolto nientemeno che Mosè ed Elia, se dovevano tenerla per sé? Una sensazione così appagante, tanto da aver voglia di non muoversi più da quel posto, non aveva senso tenerla nascosta. Del senno di poi, sappiamo essere stato ovvio che prima avrebbero dovuto capire dove si andasse a parare. Nulla di ciò che il Maestro insegnava era privo di senso e, in questo caso, ci risulta evidente che quella fu un’anticipazione di come sarà la nostra condizione di risorti in Cristo e di quanto saremo al settimo cielo una volta introdotti nel banchetto eterno, al punto di non farci venire nemmeno nell’anticamera del cervello l’idea di pensare a gioia più grande. Purtroppo anche noi siamo nelle condizioni mentali dei tre apostoli e facciamo fatica a percepire, se non aiutati dalla fede, una resurrezione e un appagamento totale. Se così non fosse, non avrebbero alcun motivo di essere tutti quei dubbi, quelle devianze, quelle disattese del Vangelo di cui è costellata la nostra vita. D’altronde, se nella nostra umanità non fossimo vacillanti, verrebbe anche meno la curiosità che ci è stimolo per la ricerca, l’approfondimento e alla fine il rafforzamento della fede che ci ritroviamo, più piccola di un granello di senapa. Ci soccorre da un lato la grande indulgenza che il Padre ha per noi, per cui non ci molla allo sbaraglio, e dall’altro la prospettiva che Gesù oggi ci offre: siamo anche noi con Lui sul Tabor e stavolta abbiamo via libera per testimoniarlo. Non rimane che ascoltarlo e credere nel Vangelo, che poi è quello che ci è stato sollecitato all’imposizione delle ceneri.

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