Inserito il 3 Giugno 2018 alle ore 10:11 da Plinio Borghi
È la festa dell’Eucaristia, sostanzialmente; non tanto della sua istituzione, che trova spazio nei vari punti del Vangelo, con particolare riferimento all’ultima cena rivissuta il Giovedì Santo, quanto del Cristo “passus” ossia del Cristo che ha sofferto, come lo definisce quel grande cultore che ne fu San Tommaso d’Aquino. Il quale, in prevalenza, la colloca proprio sotto la croce, dove da una parte c’è il corpo di Gesù e dall’altra il sangue versato per la nostra salvezza. Entrambe le componenti, corpo e sangue, contengono ciascuna il Cristo nella sua interezza e ogni volta che celebriamo la Messa riproponiamo sull’altare quel grande mistero di fede. Non siamo più al livello figurativo del Vecchio Testamento, dice sempre San Tommaso, ma “essendo questo il sacramento della Passione del Signore…, contiene in sé il Cristo che ha sofferto”, per cui, attraverso l’Eucaristia, l’uomo ne diviene partecipe. Il Santo è anche il cantore per eccellenza dell’Eucaristia e suoi sono gli inni più belli e avvincenti, perché in essi, assieme alla preghiera, fa sintesi anche del suo pensiero, così ben sviluppato nel trattato. Bando quindi ad altre parole, che saranno sempre povere e insufficienti, e mi affido ad alcuni passaggi degli inni stessi. Del “Lauda Sion Salvatorem”, altra sequenza, riservata a questa festa (le altre due erano di Pasqua e Pentecoste), la liturgia attuale prevede la lettura dell’ultima parte e rimando al testo nel foglietto. Ricordo invece il “Pange lingua”, che si conclude con il famoso “Tantum ergo Sacramentum”, tuttora cantato nelle benedizioni eucaristiche: “Il verbo fatto carne cambia con la sua parola / il pane vero nella sua carne e il vino nel suo sangue / e se i sensi vengono meno, / la fede basta per rassicurare / un cuore sincero. // Adoriamo, dunque, prostrati / un sì grande Sacramento; / l’antica legge / cede alla nuova, e la fede supplisca / al difetto dei nostri sensi”. Mirabile! Come altrettanto pregno è quell’atto di elevazione espresso nel famoso “Adoro te, devote”: “Oh Dio nascosto, / sotto queste apparenze ti celi veramente: / a te tutto il mio cuore si abbandona / perché, contemplandoTi, tutto vien meno. // Oh memoriale della morte del Signore, / pane vivo che dai vita all’uomo /…/ Oh Gesù, che velato ora ammiro, / prego che avvenga ciò che tanto bramo, / che, contemplandoTi col volto rivelato, / a tal visione io sia beato della Tua gloria.” Piccoli flash, ma che vorrei stimolassero una lettura completa di questi testi così “nutrienti” (cliccando su internet è un attimo).
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Inserito il 27 Maggio 2018 alle ore 10:03 da Plinio Borghi
Il mistero dei misteri. Potrebbe così definirsi la Santissima Trinità, che oggi festeggiamo appena fuori dal tempo pasquale, ma del quale è mirabile corollario. Non fa neppure parte dei venti misteri contemplati nel Rosario, eppure potrebbe racchiuderli tutti, posto che ognuno termina con il “Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo”, che è la preghiera che risalta per eccellenza l’identità di Dio, uno e trino. Tutto sommato potremmo anche dire che non è poi questo mistero impenetrabile, tanto è percepibile nella sua essenza. Se abbiamo seguito bene tutta la liturgia del periodo appena trascorso, non ci è sfuggito come il ruolo delle tre Persone si sia alternato nelle rispettive caratteristiche ben distinte, ma senza risultare in alcun caso separato né sovrapposto l’uno all’altro. Il Padre che interviene per indicare in Gesù il suo Figlio prediletto nel quale si è compiaciuto; il Messia che compie il suo mandato di salvezza e nello stesso tempo si presenta come l’immagine concreta del Padre, che nessuno ha mai visto (chi vede me vede il Padre..); lo Spirito Santo che proviene da entrambi, che appare sotto forma di colomba, che viene prima promesso, poi alitato sugli apostoli dallo stesso Maestro, in virtù del quale conferisce loro tutti i poteri e che infine scende per infondere tutta la comprensione di cui c’era e c’è bisogno, all’insegna di una parola d’ordine che è la natura stessa del Dio che il Salvatore ci ha fatto conoscere: l’Amore. Il tutto quindi in un unicum talmente armonico da passare quasi inosservato, impercettibile, come tutte le cose che funzionano alla perfezione. Ecco, la Trinità come segno di armonia potrebbe essere un taglio particolare di contemplarla, per calarla poi nella nostra realtà terrena, specie di questi tempi, quando, oltre a continuare nei contrasti atavici che ci caratterizzano, stiamo facendo di tutto per minarla anche nella natura che ci circonda. È vero che il peccato dei nostri progenitori ha determinato la traumatica uscita da un’oasi di perfetta armonia, ma ciò non ci autorizza ad inseguire il sentiero dell’autodistruzione. Quando ci presenteremo al Giudizio, saremo interpellati anche su questo, oltre che sull’amore per il prossimo, che ovviamente discende dallo stesso principio. Allora stavolta invochiamo la Santissima Trinità, esempio di armonia per antonomasia, affinché ci riconduca e ci mantenga in un mondo quanto più vicino a quel Paradiso terrestre dal quale siamo partiti.
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Inserito il 20 Maggio 2018 alle ore 09:39 da Plinio Borghi
Una forza rigenerante, chi non la desidera? Forse soltanto da molto giovani non ci si pensa più di tanto, ma non appena si affacciano i primi problemi e le preoccupazioni cominciano a logorare la nostra normale esistenza, è da persone responsabili ricercare i modi migliori per porvi rimedio. Allora, se si tratta di sola tensione fisica ci si affida alle varie attività sportive per scaricarla e compensare, specie al giorno d’oggi, una routine troppo sedentaria. Se però subentra anche lo stress, le risorse si ampliano e vanno dal più elementare yoga al training autogeno o dalle sedute olistiche al trattamento professionale di psicologi e psichiatri, dei quali abbondiamo alquanto. E tutto allo scopo di evitare la somatizzazione e di fornire al nostro corpo nel suo complesso fisico e mentale quell’energia che lo rimetta in carreggiata. Per lo spirito il percorso e le esigenze non sono tanto diversi: cali di tensione e crisi entrano nell’ordine del giorno senza che ce ne rendiamo quasi conto, anzi, spesso succede esattamente il contrario che per il corpo e cioè la calma piatta, frutto dell’abitudine, lo addormenta, vanificando così tutti i benefici che solo la sua vivacità produce. Il particolare che il benessere spirituale e quello fisico vadano di pari passo non è secondario. Oggi la scienza ha compiuto dei grandi passi avanti nella dimostrazione che la loro interazione li aiuta a sostenersi reciprocamente, anche in presenza di malattie importanti. Tuttavia, già San Paolo ci esortava a camminare “secondo lo Spirito”, sostenendo che la legge della carne ci rende prigionieri, mentre quella dello Spirito ci libera. Vale la pena di rileggersi entrambe le sue letture di oggi, quella della veglia e quella della Messa del giorno, per trarne parecchi spunti di riflessione. La solennità della Pentecoste ci ripropone tutta la forza rigeneratrice dello Spirito Santo, che è in noi, con tutti i doni di cui è portatore e che la Sequenza così bene riassume. Sono doni che non vanno conservati in salamoia, ma usati continuamente, proprio perché influiscono positivamente sull’equilibrio della nostra vita, su come la spendiamo e non solo per noi stessi, ma anche nel rapporto con gli altri. Scorriamone il testo ancora una volta e scopriremo la carica che ci dà, qui e in prospettiva della vita eterna. Una prospettiva che ci rende più stabili, che ci inquadra i problemi in un’ottica giusta, che ci garantisce che stiamo “già” vivendo l’eternità anche se “non ancora” in senso compiuto. Che la rigenerazione dello Spirito operi in tutti noi.
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Inserito il 13 Maggio 2018 alle ore 10:11 da Plinio Borghi
Volgere lo sguardo al ritorno e organizzarsi di conseguenza. No, non sto parlando del ritorno alle urne, ma dell’invito degli Angeli agli uomini di Galilea che stavano guardando attoniti nel nulla, dopo che Gesù se n’era andato in cielo. Anche se, a ben considerare, non è che i nostri rappresentanti eletti stiano facendo una figura tanto diversa: continuano a guardare stralunati ai risultati elettorali, taluni rivendicando posizioni che non hanno affatto conquistato, altri arroccandosi ad oppositori di governi che non esistono e che forse non riusciranno più a configurarsi. Il vantaggio degli apostoli, dopo il primo momento di sbandamento, è che riceveranno lo Spirito Santo, che farà loro capire il messaggio del Redentore e lo proclameranno nelle varie lingue, ottenendone la comprensione di tutti i popoli. Non penso invece che il nostro Mattarella riesca in analoga performance e, se ce la facesse a produrre lingue di fuoco, sono sicuro che li incenerirebbe tutti. Ne consegue che i partiti, se non la finiranno di guardare al 4 marzo scorso e non si proietteranno in avanti, costi quel che costi, proseguiranno nel parlare linguaggi astrusi, che si continuerà a non comprendere, incrementando nella gente il dilagare del qualunquismo, che già ha prodotto il 4 marzo fenomeni paranormali di improbabili riflussi storici (ogni riferimento alla riproposizione della cartina d’Italia in chiave borbonica non è casuale). Eppure il messaggio della liturgia di oggi è chiaro e valido anche sul piano sociale; basterebbe rileggersi con calma la seconda lettura, dalla lettera di Paolo agli Efesini, e ne ricaveremmo un’esortazione inimitabile: comportarsi in maniera degna della “vocazione” (= mandato) che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di “conservare l’unità dello Spirito” (= fare gli interessi della collettività) per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la “speranza” (= obiettivo) alla quale siete stati chiamati. Tornando a bomba, noi credenti dobbiamo puntare al ritorno del Messia nella sua Gloria, che ci sarà solo dopo che avremo adempiuto al mandato missionario ricevuto e che il Vangelo oggi riporta: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura”. Rimboccarsi le maniche quindi è d’uopo e non restiamo là imbambolati a contemplare il nulla. Non credo proprio che il fenomeno della manna si ripeta.
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Inserito il 6 Maggio 2018 alle ore 10:14 da Plinio Borghi
Parlare d’amore non è facile, tali e tanti sono i risvolti interpretativi che l’argomento comporta. Quando poi ci si è fatta un’idea abbastanza decente e convincente, metterla in pratica in modo coerente è ancora più difficile. Quel che ci scorre sotto gli occhi tutti i giorni ne è la dimostrazione più lampante: contrasti, reazioni eccessive per un nonnulla, e giù fino alle estreme conseguenze che da sempre ci tormentano, come l’odio verso il fratello e le guerre. Ci meravigliamo quando sentiamo qualche imam proclamare che l’Islam è una religione d’amore, che nutre il massimo rispetto per la donna: il pensiero va a tutti gli atteggiamenti diametralmente opposti che constatiamo. E noi? Quante aggressioni abbiamo compiuto in nome di Dio? Magari con fratelli che adoravano lo stesso Dio? Pure nel nostro piccolo, come esprimiamo il bene per chi amiamo? Facciamo spesso fatica anche a dichiararlo! Forse ci riusciamo a mala pena nelle prime fasi di innamoramento, quando le pulsioni giovanili ci aiutano a superare l’imbarazzo, poi diventa il più delle volte strumentale o sollecitato. Quante volte il partner (prevalentemente la donna) se ne esce con la frase: “Ma tu mi vuoi bene?”. “Certo che te ne voglio!”, ti viene spontaneo rispondere; al che di rincalzo: “Ma non me lo dici mai e me lo dimostri poco..” e via con i soliti chiarimenti che non rimuovono molto. Se Sant’Agostino ha affermato con tanta tranquillità: “Ama e fa quello che vuoi”, significa che ben difficilmente lo spessore della prima azione sarà tale da giustificare la seconda. La liturgia di oggi, nella quale si respira ormai tutta l’aria dell’imminente addio del Maestro, è proprio improntata su quello che è anche il nerbo della Parola e del progetto di salvezza nel loro insieme: l’amore. Quante volte Gesù ritorna sull’argomento! Amatevi.. se mi amate.. da come vi amate.. (gli uni gli altri come io vi ho amato.. osserverete i miei comandamenti.. riconosceranno che siete miei discepoli..). Evidentemente anche in questo ambito si riflettono le stesse problematiche di cui si diceva prima. Oggi addirittura eleva i suoi al rango di “amici” e qui il discorso si farebbe lungo, visto il largo uso (e abuso) che facciamo di questo termine. Gesù però è un partner esigente e pretende che ce lo meritiamo professando il suo amore, dichiarandoglielo, dimostrandoglielo, dando la vita per gli altri come lui l’ha data per noi. Altrimenti rimaniamo solo servi e quindi schiavi delle nostre incertezze, delle nostre pastoie.
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Inserito il 29 Aprile 2018 alle ore 09:55 da Plinio Borghi
“Fatti e non parole” sembra lo slogan più obsoleto in circolazione, usato e abusato ad ogni piè sospinto anche da chi, per decenza, farebbe meglio ad evitarlo. In campagna elettorale, per esempio, dovrebbe essere un j’accuse dell’elettore e non la sottolineatura dei candidati a tutte le promesse sbandierate con la consapevolezza che non saranno poi mantenute. S’è notato, per dirne una, che fine hanno fatto la “flat tax” e il “reddito di cittadinanza” nei punti programmatici offerti nel tentativo di formare il nuovo governo? Eh, è il prezzo del compromesso (leggi: spartizione del potere), pena il peggio che possa succedere.. e una caterva di giustificazioni è già bell’e pronta. Tornando allo slogan, c’è una fonte non sospetta e per niente obsoleta che la liturgia di oggi ci offre: la seconda lettura, dalla lettera di san Giovanni apostolo, che esordisce proprio con “Figlioli, non amiamo a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”. Un invito che è la sintesi di tutto l’annuncio evangelico, annuncio sempre attuale e rimasto immutato nei secoli. Per due motivi: il primo perché è innestato nel Salvatore stesso che lo incarna; il secondo perché si basa sull’amore, motore intramontabile che fa girare il mondo. Tutto ciò che si discosta da questi due elementi è destinato a naufragare e, l’abbiamo sempre constatato, a creare danni. S’è mai vista una guerra provocata da un amore sviscerato verso chi si combatte? Ed è concepibile la ricerca della Verità a prescindere da Cristo? Oggi nel vangelo Gesù ci presenta un altro spaccato molto semplice di questa realtà: ci paragona ai tralci, che solo attaccati alla buona Vite (lui stesso) sono in grado di produrre buon frutto. Se qualcuno pensa di improvvisarsi vite, ammesso che ci riesca, non potrà produrre nulla di gradevole. Mi sovviene l’episodio di quando accusarono il Maestro di essere amico di Satana. Che cosa rispose ai suoi interlocutori? “Può un demonio scacciare gli altri demoni? Può il maligno compiere le cose belle che io ho compiuto?”. È perentorio Gesù oggi: “Senza di me non potete far nulla”. Ecco perché nei fatti dimostriamo la nostra appartenenza a lui e le parole lasciano subito il tempo che trovano. “Non chi dice Signore, Signore.., ma chi fa la volontà del Padre mio”. E che cosa anima questi fatti? L’amore, ovviamente. “Da come vi amerete gli uni gli altri capiranno che siete miei discepoli”. La lezione, anche per oggi, è chiara. Resta solo da metterla in pratica.
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Inserito il 22 Aprile 2018 alle ore 10:11 da Plinio Borghi
A me una leva e alzerò il mondo, disse pressappoco Archimede, esprimendo così un concetto che aveva sì tutto il suo fondamento tecnico, ma rivestiva anche un importante indirizzo di vita sotto ogni profilo. In fin dei conti non ci fu granché da scoprire: basta una stanga e un fulcro e, fatti i conti tra peso da sollevare e resistenza del materiale, il gioco è fatto. Quel fulcro, tuttavia, ci indica come in tutte le cose ci sia bisogno di un punto d’appoggio che ti sia riferimento e ti consenta di sviluppare in modo mirato tutto il tuo potenziale. Tanto vale pure nei rapporti umani (gli stessi affetti trovano un loro slancio nel reciproco supporto), nei campi scolastico, culturale, sociale, politico e financo, anzi, soprattutto in quello spirituale. Come non esiste che uno pensi di librarsi in qualsivoglia disciplina senza trarre spunto dai percorsi già attuati da chi lo ha preceduto e senza essere impostato da insegnanti e insegnamenti ben precisi, così è per le esigenze dello spirito, che, per noi credenti in particolare, sono sostenute dai riferimenti sicuri che stanno alla base della nostra fede. Nella fattispecie per noi cristiani il nostro rifugio e la nostra sicurezza è Gesù Cristo, morto e risorto, e il fulcro è costituito dal Vangelo. Va anche detto, a ragion del vero, che nessuno è disposto a consegnarsi a occhi chiusi al primo che passa e ti alletta: ne va della tua vita. Ne consegue che, nei limiti del possibile, i tuoi maestri sono oggetto di selezioni accurate e devono darti le dovute garanzie. Noi, con Gesù, non abbiamo di questi problemi: siamo noi a essere stati addirittura scelti, siamo le sue pecore ed Egli è il nostro pastore, ci conosce ad uno ad uno e noi conosciamo Lui, distinguiamo la sua voce; se ci perdiamo è sempre Lui che viene a cercarci. Chi altro può vantare un rapporto simile col proprio maestro? Detto questo, però, non adagiamoci sugli allori: siamo impegnati a corrispondere a tutta quest’attenzione, prima di tutto cercando di essere uniti (ricordiamo il saluto “Pace a voi!”, col quale il Risorto continua a esordire) e poi sostenendo e aiutando la Chiesa, sposa di Cristo e strumento terreno per la realizzazione del Regno, nel compito che egli le ha affidato. Oggi è la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, ma non basta pregare, occorre anche sollecitarle e promuoverle, per essergli in concreto riconoscenti e perché si realizzi il suo desiderio: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre”.
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Inserito il 15 Aprile 2018 alle ore 10:14 da Plinio Borghi
L’associazione di idee è un meccanismo che si innesca quando una frase o un episodio te ne richiamano altri, non necessariamente affini o collegati. Nulla a che vedere quindi con le coincidenze o le sincronicità quantistiche, tanto care alla nostra collaboratrice e scrittrice Adriana Cercato. Leggendo il vangelo di oggi la mia mente vi ha associato un curioso scambio di battute avvenuto molti anni fa durante un tour con una famiglia amica (allora si girava con le tende). Lungo l’itinerario prestabilito, sulla cartina ci si accorge di un sito e mia moglie se ne esce con il suo classico: “Eh, questo bisogna ‘ndarlo vedar!”. Al che il mio amico, che fungeva un po’ da capo comitiva e piuttosto rigido nelle sue impostazioni, è sbottato: “Qua no bisogna gnente! Solo morir bisogna!”. Frase sacrosanta, evangelica, espressione di quanto stiamo seguendo nel periodo forte della nostra liturgia. L’amico non l’ha detto certo con questo taglio, ma, per associazione di idee, appunto, le due cose mi si sono collegate. Oggi il Risorto appare ancora fra i suoi, peraltro spaventati perché non ancora assuefatti alla novità, e riprende un discorso affrontato in Quaresima: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me…” . Si riferiva al chicco di grano che deve morire per dare frutto e infatti poi prosegue: “Il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati”. Ecco i frutti che solo la sua morte poteva produrre. Domenica scorsa ha promosso gli stessi apostoli a latori di questa divina Misericordia (e non a caso San Giovanni Paolo II così ha deciso che fosse chiamata quella festa) e oggi vuole loro e tutti noi “testimoni”: non un ruolo passivo, dunque, ma ben attivo. Il testimone non si limita a riferire, bensì vive in tutto il suo comportamento la fede che lo motiva, il Vangelo che lo forma e lo guida, la tensione a quella che sarà anche la sua resurrezione (come ci ricorda Giovanni nella seconda lettura), che passa giusto per come ci rapporteremo col prossimo. “Pace a voi”, insiste il Maestro nell’apparire, pur avendone ben donde per nutrire risentimento. Se non è arrabbiato lui con noi, ci arroghiamo noi il diritto di esserlo con gli altri? Per essere bravi testimoni, intanto, ripetiamo la preghiera che ci suggerisce il salmo responsoriale: “Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto”.
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Inserito il 8 Aprile 2018 alle ore 08:00 da Plinio Borghi
Razionalità e fede: è l’eterno binomio che si rincorre, s’incontra e si scontra da quando esiste l’uomo. Anche la mente più pigra e refrattaria, se sollecitata in tal senso, ha un moto di reazione e tende a schierarsi o per l’una o per l’altra ovvero a sostenerne l’interazione. Credere solo a ciò che si vede, che si può toccare con mano, che si può dimostrare? È una posizione già superata da lunga pezza anche dal più convinto materialista. Infatti, qualsiasi scoperta scientifica ha poi bisogno di una serie di verifiche per essere confermata, che non possono essere eseguite se non si crede almeno nel risultato parziale o provvisorio. Escludere il processo razionale nelle questioni di fede? Ci ha pensato lo stesso San Tommaso d’Aquino a dare una bella spazzolata a teorie di tal fatta e oggi nessuno, nemmeno il filosofo più miscredente, si sogna di pensare che nelle questioni di fede non ci sia anche una logica razionale. È pur vero che la fede è un dono e lascia ampio spazio alla più spontanea e genuina espressione dell’animo, ma ciò non esime dall’approfondimento, dalla ricerca e dai riscontri chiunque vi si voglia cimentare al fine di rafforzare le proprie convinzioni. Oltretutto, per chi la possiede, questo è anche un modo per preservarla, alimentarla e incrementarla, sempre accompagnato ovviamente dalla preghiera. Orbene, checché riporti il detto comune, l’apostolo Tommaso, richiamato nel vangelo di oggi, è l’antesignano degli atteggiamenti in argomento e ne rappresenta l’intera gamma. Anch’egli tende a non voler credere senza vedere, senza mettere dito e mano; ma quando il Risorto gli appare, in un attimo fa sintesi di tutto il suo insegnamento (processo razionale); malgrado l’invito del Maestro, non mette il dito sulle ferite (al di là di come alcuni artisti lo rappresentano) e invece prorompe con un’affermazione che è la dimostrazione di un vero, spontaneo, profondo e genuino atto di fede: “Signore mio e Dio mio!”. Un atteggiamento che ha saturato d’emblée il buco aperto dalla sua titubanza. Gesù, però, non intende chiudere con una pietra tombale l’argomento e non tanto per l’apostolo, quanto per noi. “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”, aggiunge al rimprovero per Tommaso. E in quel “beati” è racchiusa tutta la prospettiva di vita riservata non a babbei o a creduloni senza costrutto, bensì a chi saprà forgiare la propria fede sui presupposti forniti dal Vangelo. Chi ha orecchie da intendere…
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Inserito il 1 Aprile 2018 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
“Vogliamo vedere Gesù” disse un gruppo di greci a Filippo nel vangelo in lettura la quinta di Quaresima. Pura curiosità fisica, evidentemente, per constatare chi fosse quell’uomo con idee così distanti dalle loro eppure con tanto seguito. Se ci ricordiamo bene, il Maestro non li accontentò, ma approfittò della richiesta per richiamare gli astanti sulla sua glorificazione e su come si sarebbe verificata (il seme che deve morire per far frutto, l’elevazione da terra per attirare a sé l’attenzione di tutti). Il Messia, il nostro Salvatore non è venuto per farsi vedere, ma per farsi conoscere, per farsi capire e per indicarci la strada sicura della nostra salvezza. Una strada che non sarà diversa da quella percorsa da lui, perché anche noi facciamo parte dello stesso disegno del Padre, anche a noi spetta di fare non la nostra, ma la Sua volontà, come Gesù stesso ha proclamato nell’orto degli ulivi subito dopo aver supplicato che gli fosse allontanato il calice amaro che si apprestava a bere; anche noi siamo seme che deve morire se vogliamo portare frutto, ma la ricompensa non avrà limiti. Oggi siamo all’epilogo del processo di salvezza, oggi abbiamo la prova della vittoria sulla morte, ma attenzione: la resurrezione è solo la “ratifica” di una fede già esistente (“costui è veramente il Figlio di Dio” il centurione l’ha pronunciato prima, a prescindere dai fatti successivi), fondata sulla lieta novella che ci è stata annunciata. L’approccio alla Resurrezione non può avvenire se prima tutta la nostra vita non si è conformata in quella direzione. In seguito, la venuta dello Spirito Santo non sarà per aprirci gli occhi sulla Resurrezione, bensì per aprire la mente alla comprensione di tutto il messaggio, sul quale l’Unto dal Signore ha costruito il processo di salvezza e che fu causa della sua stessa morte, conseguente alle insopportabili contraddizioni che ha messo a nudo. Chi ha aderito alla nostra fede, anche solo a livello ideologico come Gandhi, non l’ha fatto per la Resurrezione in sé, ma per il contenuto e la bellezza del messaggio che l’ha preceduta. Certo, tutto sarebbe stato vano se non fosse intervenuto il trionfo sulla morte, ma è Cristo che si è giocato tutto su questo e ovviamente perché conosceva la nostra labilità, non solo, ma proprio per offrire una prospettiva impareggiabile di vita eterna: sapere di risorgere tutti in Lui non è stimolo da poco per le nostre aspettative. Perciò, ora, basta dubbi e sia per tutti una BUONA PASQUA!
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