Il blog di Carpenedo

Il blog di Carpenedo
La vita della Comunità parrocchiale dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo

Perseverate, gente, perseverate!

Inserito il 13 Novembre 2016 alle ore 11:39 da Plinio Borghi

Perseverate, gente, perseverate! Sembra quasi lo slogan di una campagna pubblicitaria. In effetti è un buon suggerimento comportamentale per la vita pratica, che diventa fondamentale per quella eterna. Se uno si desse un obiettivo e cercasse di avanzare sempre col vento in poppa, inseguendo il percorso più facile, procederebbe come una banderuola, difficilmente riuscirà a mantenere la direzione e non giungerà mai dove si era prefisso. Se addirittura si arrendesse alla prima difficoltà, avrebbe finito ancor prima di cominciare e meglio sarebbe per lui non essere mai nato. La vita è un continuo superare sé stessi e, come dice il motto, chi si ferma è perduto. Tanto vale anche per le varie tappe spirituali e proprio nel vangelo di oggi Gesù stesso, come nostro faro, ci mette in guardia dai pericoli cui possiamo andare incontro, dalle difficoltà materiali, che non possono mancare, da guerre e catastrofi, che però non costituiscono alcun presagio della fine, ma soprattutto dai falsi maestri, che cercheranno di farci volgere il nostro sguardo altrove per distoglierci dal vero riferimento, magari improvvisandosi essi stessi fari credibili. Il cristiano deve sapere che la fine, sua o del mondo poco importa, arriverà comunque improvvisamente e lasciarsi andare a studi arzigogolati o correre dietro a previsioni astronomiche basate su strani calendari (vedi la teoria dei Maia) serve a niente. Conta invece essere sempre pronti (“estote parati!”) e non lasciarci abbindolare; men che meno fuorviare o fiaccare da derisioni o persecuzioni (non sono purtroppo cose di altri tempi), che ci derivano dal portare alto il vessillo della nostra fede (quanto fastidio provoca!) e dal procedere imperterriti nel nome di quel Messia che per primo salì sulla croce. Anche lui nel momento topico fu provocato (se sei il figlio di Dio, scendi da quella croce!), ma gli stava a cuore la nostra salvezza più di ogni altra cosa e “perseverò”, fino in fondo. Il suo premio è anche il nostro: la resurrezione. Vogliamo rendergliene atto almeno nel cercare anche noi di essere coerenti? Non avremo certamente da seguire pedissequamente la sua strada: oggi non si crocifigge più nessuno; ma le traversie della vita sono più che sufficienti a metterci alla prova. Non ci viene richiesto di essere eroi, è sufficiente vivere secondo le regole, come dice San Paolo nella seconda lettura, senza far luogo a disordini: “Mangiare il proprio pane lavorando in pace”. Sarà mica difficile perseverare nella normalità! O ci vogliamo complicare le cose da soli?

Siamo all’epilogo del “Credo”…

Inserito il 6 Novembre 2016 alle ore 10:34 da Plinio Borghi

Siamo all’epilogo del “Credo” e perfino la natura ci aiuta a comprenderlo. D’altronde, cosa meglio della natura può darci la sensazione del ciclo della vita? Quest’aspetto crepuscolare che novembre ci presenta ben si coniuga sia con il ricordo di quanti ci hanno preceduto sia con la conclusione dell’anno liturgico, che già si aggancia, anche nelle argomentazioni, con il nuovo incalzante. Nulla muore in natura, sebbene par di assistere a un arresto generale, nemmeno ciò che in teoria marcisce sul serio, perché anche quello serve a favorire la ripresa della nuova vita: il famoso seme che se non si sacrifica non potrà mai generare la pianta. Così è con i nostri morti, che solo agli stolti possono sembrare tali, recita l’antifona: essi invece sono vivi e sono nelle mani di Dio e non saranno più tormentati dal male, sono in pace. E continuano a rimanere in comunione con noi (“la comunione dei santi”). Certo, non tutti godranno il premio agognato: coloro che non si sono peritati di lasciare questo mondo da giusti non lo avranno, né sarà loro concesso dopo che la resurrezione della carne avrà sancito lo status quo, com’è così ben descritto nel famoso cap. 25 di Matteo. Proprio oggi, per restare in tema, la liturgia ci offre due spaccati interessanti: da un lato la prima lettura, dal secondo libro dei Maccabei, ci racconta la tragica fine di sette fratelli e della loro madre, per mano del re, per non aver voluto tradire i princìpi della fede; moriranno fiduciosi nella promessa di Dio circa la resurrezione. Emblematica la frase che il quarto infine rivolge al re: “Ma per te la resurrezione non sarà per la vita”. Dall’altro lato il vangelo registra una provocazione a Gesù da parte di alcuni sadducei, non credenti nella resurrezione, con motivazioni da presa in giro. Il Maestro risponde a tono, ma anche qui colpisce molto la frase finale, che non è ad effetto, ma evidenzia una sacrosanta verità  di positività e di speranza: “Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”. D’altra parte, si leggeva proprio la scorsa settimana dal libro della Sapienza, se Dio volesse la morte di qualcosa, non l’avrebbe nemmeno creata!. Ecco riassunto l’epilogo della nostra professione di fede, che vede nel culto dei santi la certezza in cui è riposta la nostra speranza e nel suffragio per le anime dei defunti (tutti, non sta a noi giudicare chi può o non può essersi salvato) la prospettiva aperta dalle parole di Gesù: la vita eterna. Amen.

Il desiderio di farsi stanare…

Inserito il 30 Ottobre 2016 alle ore 10:41 da Plinio Borghi

Il desiderio di farsi stanare c’è un po’ in ognuno di noi, in particolare se siamo coscienti dei nostri limiti, se siamo talmente impastoiati del nostro mero quotidiano da aver voglia di elevarci senza tuttavia averne la forza, se presi dal vortice della routine non sappiamo a chi aggrapparci per sottrarci alla nostra ignavia. In poche parole siamo consapevoli di essere peccatori e non sentiamo, come il figliol prodigo, l’impulso di alzarci e tornare al Padre. Sappiamo che Egli è misericordioso e non vede l’ora di perdonarci, ma abbiamo bisogno che ci tenda la mano. Penso sia questo lo stato in cui si trovava lo Zaccheo che il vangelo ci descrive: è capo dei pubblicani, quelli che riscuotono le tasse in modo vessatorio, ed è pieno di soldi; sente parlare di Gesù e si presume anche della parola che dispensa. Si scopre improvvisamente piccolo anche moralmente, oltre che di statura; è come il povero cui la vergogna e la ritrosia impediscono di chiedere assistenza. Quindi si acquatta sul sicomoro e sbircia il Maestro che viene. Scommetto che se Gesù non l’avesse visto avrebbe finto di cadere, pur di farsi notare! Tanto è vero che, appena lo chiamò con l’intento di fermarsi a casa sua, “in fretta scese e lo accolse pieno di gioia”. La mano tesa e tanto agognata era arrivata! Non solo, ma resosi conto della salvezza che in quel momento era a portata di mano, diede una svolta alla sua vita alienando tutte le sue ricchezze a fin di bene e di riparazione. È evidente che la Parola del Figlio dell’uomo era molto più appagante del benessere. Allora, se ci rendiamo conto che il Signore “non guarda ai peccati degli uomini, in vista del pentimento”, come dice la prima lettura dal libro della Sapienza, ed è ansioso di perdonarci, perché indugiare tanto a corrergli incontro? Perché non prendere atto che siamo noi, piccoli e poveri, i destinatari del lieto annuncio, come recita il canto al Vangelo di oggi? Leggo spesso e volentieri le testimonianze di coloro che ritrovano la strada dopo periodi di sbandamento e colgo in essi un entusiasmo contagioso. Com’è brutto non averne parimenti voglia! Fin da piccolo mi hanno sempre insegnato a non farsi sfuggire il momento in cui il Signore passa e chiama: potrebbe accadere che non si presenti un’altra occasione. Il nostro Zaccheo l’ha fatto. Non facciamoci cogliere impreparati o tentare di rimediare quando è ormai troppo tardi. Vale anche per noi il motto “Carpe diem!”, cogli l’attimo!

Lei non sa chi sono io!

Inserito il 23 Ottobre 2016 alle ore 10:11 da Plinio Borghi

Lei non sa chi sono io! È una delle frasi più fastidiose che un personaggio, specie se davvero importante, possa pronunciare e ancor peggio se intende farsi del torto una ragione. Di solito poi sortisce l’effetto contrario: se è rivolta ad una persona corretta, la indispone; se ad un elemento maleducato e prepotente, non cambia un net, acqua fresca. Oggi come oggi è caduta quasi in disuso, vuoi per il superamento delle differenze culturali e sociali, vuoi per il ridimensionamento dell’importanza che si dava alle posizioni di privilegio. Ciò non toglie che, in realtà, non siano ancora fatte pesare in varie forme, magari più in campo burocratico che politico e a scapito dei malcapitati che non hanno né l’intraprendenza né i mezzi per sottrarsi al trattamento da sudditi loro imposto. Finché il tutto si mantiene nell’ambito delle nostre miserie umane, pazienza. Il fatto è che certi personaggi si rapportano con il medesimo sussiego anche nei confronti di Dio e della propria coscienza, fino al punto di opporre un moto di meraviglia unita ad un senso di orrore se qualcuno si permette di richiamare la loro nullità. È la storia del fariseo e del pubblicano, riportata dal vangelo di oggi, che si ripete. Nulla è cambiato, anzi, possiamo dire che oggi si è vieppiù aggravata perché i farisei hanno una diffusione maggiore dei pubblicani. Proprio nell’anno della Misericordia il Papa continua a ricordarci quanto infinita è quella di Dio, ma sempre nei confronti dei pubblicani, dei peccatori, di chi si riconosce pieno di manchevolezze e difetti. Ma come può essere misericordioso il Padre verso chi si sente a posto e gli si rivolge a testa alta? Come potrà essere indulgente con chi guarda gli altri con disprezzo, sentendosi il migliore? Attenti che stavolta possiamo scivolare tutti in tale posizione, noi praticanti criticando i “lontani” e questi a loro volta additando le contraddizioni dei “bacia banchi” e sentendosi più a posto di quanti vanno in chiesa. A volte è anche vero, ma a nessuno vengono per questo applicati bollini in più sul carnet, né agli uni né agli altri e per entrambi non ci saranno giustificazioni. Nel canto al Vangelo ricordiamo che il Signore ha rivelato ai piccoli il mistero del regno dei cieli e in altra circostanza Gesù dice che se non diventiamo come i bambini (spontanei, genuini) non entreremo mai. Allora conta di più prendere atto delle nostre debolezze, con dignità, ben sapendo che “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.

La preghiera non è mai tempo perso

Inserito il 16 Ottobre 2016 alle ore 10:59 da Plinio Borghi

La preghiera non è mai tempo perso. Spesso, o per effetto di qualche luogo comune (magari riferito alle suore di clausura) o perché non riscontriamo efficacia nelle nostre suppliche, tendiamo a concludere che non vale la pena di star lì tanto a pregare. È vero che servono le opere, senza le quali la preghiera sarebbe priva di significato, saremmo come bronzi vuoti, come dice San Paolo, ma è anche vero che stancarsi vale come gettare la spugna, arrendersi a priori. La liturgia di oggi è tutta incentrata proprio sulla costanza nel chiedere, sull’insistenza. Nella prima lettura un Mosè un po’ “fuori dalle righe” viene addirittura puntellato in atteggiamento di supplica con le braccia aperte, perché ogni volta che gli cadevano l’esercito capeggiato da Giosuè cedeva al nemico, mentre quando erano alzate aveva il sopravvento: un esempio di immediatezza dell’efficacia della preghiera. Nel vangelo Gesù non è meno “folkloristico” quando adduce come esempio il giudice inetto che cede alla vedova petulante, non per senso di giustizia, ma per il logorio che questa gli procura. Infatti l’esempio gli serve da predella per una domanda retorica: “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare?”. Da questa convinzione, che “il nostro aiuto viene dal Signore” (come recita il Salmo responsoriale), scaturisce il modo incessante di chiedere. È ovvio che non potremo avere, o almeno non sempre, quel riscontro immediato che ebbe Mosè o la vedova col giudice disonesto, dato che il nostro punto di vista difficilmente ricalca il disegno di Dio su di noi, ma, se ben ricordo, al catechismo ci hanno sempre insegnato che il Signore non butta via mai nulla e che farà sempre buon uso delle preghiere, portandole a buon fine o in una direzione o in un’altra. Ben lo sapevano il santo Curato d’Ars, che passava ore a dialogare fissando il tabernacolo, e sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che coniò il famoso assioma: “Chi prega si salva, chi non prega si danna”. Mi permetto qui un suggerimento pratico: evitiamo di metterci come destinatari delle nostre preghiere (salvo nei casi in cui peroriamo per noi crescita spirituale e promozione umana) e sprechiamoci molto di più per le necessità degli altri; lasciamo che siano gli altri a pregare per noi, come sollecita per sè papa Francesco. I riscontri saranno più frequenti e finiremo per esorcizzare il dubbio di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.

Una gratitudine molto… gretta

Inserito il 9 Ottobre 2016 alle ore 11:14 da Plinio Borghi

Una gratitudine molto… gretta contraddistingue in generale i nostri rapporti, compresi quelli con Dio. Di converso siamo molto prodighi di rivendicazioni, di convinzioni che tutto ci sia dovuto, di preci e suppliche quando vorremmo più attenzione e di recriminazioni quando le cose non vanno nel verso giusto: ovvio che se il colpevole non è nel nostro entourage, a farne le spese in prima battuta è proprio il Padreterno. Per fortuna il nostro Creatore è molto paziente e misericordioso, conosce di che pasta siamo fatti e glissa sulle nostre reazioni scomposte. Quel che però lo infastidisce e non sopporta, e ce l’ha fatto capire in mille modi, è l’indifferenza, la tiepidezza (nell’Apocalisse fa dire a Giovanni che i tiepidi li rigetta dalla sua bocca). Oggi ci è offerta un’altra di quelle occasioni: dieci lebbrosi lo implorano e vengono guariti mentre si accingono a presentarsi, su invito di Gesù stesso, ai sacerdoti, ma uno solo e per giunta samaritano torna indietro a ringraziare. Il Maestro non ha agito per ottenere riconoscenza, non sarebbe nella sua logica, ma ciò non toglie che gli fosse dovuta. Infatti, la sua reazione sembra quasi stizzita: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?” Qui segue una frase che indica il tipo di gratitudine al quale saremmo tenuti, quando le cose ci vanno bene e invece diamo tutto per scontato: “Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” La nostra grettezza è proprio così: non ringraziamo nemmeno quando otteniamo qualcosa su richiesta, figuriamoci in presenza di tutto ciò che ci deriva gratuitamente. Peccato che la vera salvezza non dipenda tanto dallo stato di salute o di benessere quanto da come ne saremo riconoscenti. Tant’è vero che l’epilogo dell’episodio di oggi è nella frase di congedo del Messia: “Alzati e va, la tua fede ti ha salvato!” Se ne deduce che agli altri nove non sia stato concesso altrettanto. Va da sé che la lode a Dio non si esprime solo a parole, bensì a gesti concreti, suggeriti dallo stesso Vangelo, senza bisogno di lambiccarci il cervello per stabilire priorità. Per vincere la ritrosia, cominciamo intanto a renderci conto che tutto nella quotidianità è un dono, anche i disguidi, e magari rispolveriamo in apertura di giornata quella bella e semplice preghiera che ci è stata insegnata da piccoli: “Vi adoro, mio Dio, vi amo con tutto il cuore. Vi ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte …”.

Madre Teresa di Calcutta

Inserito il 2 Ottobre 2016 alle ore 11:33 da Plinio Borghi

Madre Teresa di Calcutta, come ci ha suggerito di continuare a chiamarla Papa Francesco anche dopo la sua canonizzazione, fra i moniti che ci ha lasciato c’è anche quello famoso e bellissimo che si riassume in due parole: anche se ti criticano mentre stai facendo ciò che è giusto, vai avanti e continua a farlo. Guai se lei si fosse fermata sotto la caterva di critiche che le sono piovute da fuori e da dentro la Chiesa! Critiche che non difettano ancor oggi di incremento, perché santi così danno fastidio e la memoria delle loro opere, che mettono sotto accusa tutta la tua pigrizia e la tua ignavia, è troppo recente per non sentirne il peso. San Paolo oggi riprende in sostanza lo stesso argomento e dice a Timoteo: “Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro”. Credo che il problema più grosso che stiamo vivendo come cristiani, soprattutto nel nostro opulento occidente, sia tutto qui: nella migliore delle ipotesi temiamo di dimostrarci tali e nella peggiore ci vergogniamo di esserlo. Per fortuna non abbiamo ancora perso del tutto la consapevolezza del “buon deposito dello Spirito Santo che abita in noi” (sempre S. Paolo) e siamo anche in grado di vedere le cose che saremmo tenuti a fare, ma ci manca il coraggio. Cadiamo così in balia degli avvenimenti quotidiani, affrontiamo il flusso di migrazioni improvvisando di tutto, fuorché un’accoglienza degna di questo nome, subiamo l’aggressività degli altri, che si rendono conto del nostro ventre molle e ne approfittano, reagiamo in un modo scomposto, che nulla ha a che vedere con la forza che ci deriverebbe dalla nostra fede, in grado di vincere il mondo, come recita il salmo responsoriale di oggi. Non siamo nemmeno più quei servi “inutili” richiamati dal vangelo, perché non facciamo quello che siamo tenuti a fare. La prima lettura, in linea con l’argomento, conclude così: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. Non mi verrete a dire che i jihadisti, mentitori e fanatici, han l’animo retto e che noi siamo destinati a soccombere!? Certo che se l’arma più forte che possediamo è spuntata, ci resta ben poco margine per vincere. È ora di rivedere il nostro blando e superficiale comportamento e ciò a prescindere dai motivi contingenti. Facciamo intanto come gli Apostoli oggi e diciamo al Signore: “Aumenta la nostra fede!”. Chissà che almeno un pallido granellino di senapa non cominci timidamente a far capolino.

Spensierati e buontemponi

Inserito il 25 Settembre 2016 alle ore 12:16 da Plinio Borghi

Spensierati e buontemponi, che passate la vita accumulando e gozzovigliando, non tira aria per voi dalle parti dell’evangelista Luca. È da un po’ che pare ce l’abbia con voi e si schieri con i poveri. Fosse ancora tra noi, l’avreste certamente annoverato fra certi movimenti e tacciato di populismo. Oggi, per stare in tema, interviene con la parabola del disastrato Lazzaro che mendicava almeno le briciole che cadevano dal tavolo del gaudente, avendo in cambio solo l’attenzione dei cani, certamente più ben trattati di lui. Si sa com’è andata a finire. Comunque Luca è in buona compagnia del profeta Amos, che lancia strali contro coloro che, presi dal gozzovigliare, non si curano “della rovina di Giuseppe”, dice Amos; in sostanza di chi sta peggio, è il senso. “Perciò andranno in esilio in testa ai deportati”, prosegue il profeta. Sembra proprio che le sacre scritture siano concordi nel condannare il benessere e nell’esaltare la miseria. Niente di tutto questo. Piuttosto, se da una parte è normale che laddove nulla e nessuno ti dà sollievo ci si affidi di più alla fede, dall’altra è altrettanto scontato che non se ne curi chi ha la mente impegnata in ben altri obiettivi, come l’accumulare ricchezze e godersele. Ovvio che la famosa frase di Gesù “è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per il ricco andare in paradiso” sia conseguente. Con ciò non significa demonizzare tout court la ricchezza, bensì il modo con il quale viene usata. Se diventa solo un fine, il cervello ne risulterà obnubilato; se invece è il mezzo per condividerla con chi ha meno, ci si accorgerà più agevolmente che può diventare anche un buon veicolo per il Regno dei cieli, come si diceva la volta scorsa. Nemmeno è scontato che il diseredato abbia a priori la strada spianata: nessuno auspica un mondo o una vita di stenti, anzi, tutti si devono dar da fare per valorizzarla al meglio, anche se non sempre ci si riesce e non sempre per colpa nostra. Un bel monito ci viene da San Paolo in dialogo con Timoteo. Dopo aver denunciato l’atteggiamento dei dissoluti, aggiunge oggi: “Tu, uomo di Dio, fuggi da queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla mitezza. Combatti la buona battaglia per la fede…”. Se sprechiamo la nostra vita, siamo tutti dei dissoluti, ricchi e poveri, e avremo perso l’occasione per combattere la buona battaglia per la fede, per raggiungere la vita eterna alla quale tutti siamo stati chiamati.

“El mondo xe dei furbi!”

Inserito il 18 Settembre 2016 alle ore 11:49 da Plinio Borghi

“El mondo xe dei furbi!”, ammiccò il conducente della piccola utilitaria al proprietario di un grosso SUV, al quale aveva appena sottratto l’unico posto disponibile, a ridosso del muro delle suore, nel parcheggio nell’area del mercato di Mestre mentre questi era impegnato a far manovra per potervisi inserire. Il buggerato non fece una grinza. Fece il giro del piazzale, si ripresentò di muso, accelerò e schiacciò la modesta autovettura addosso al muro, facendone polpetta davanti agli occhi esterrefatti del provocatore. Poi, con nonchalance, scese e, consegnandogli un biglietto da visita, rispose: “El mondo xe de chi che ga schei!”. Squallido, ma variamente significativo del modo con il quale investiamo il nostro potenziale umano nelle cose più meschine di questo mondo. Evidentemente indefettibili da sempre, se anche il vangelo di oggi (ma direi tutta la liturgia) è impostato su questo dualismo: il potere e la ricchezza da una parte, con il modo per usarla correttamente, e la furbizia dall’altra, diretta a essere impiegata in modo disonesto verso chi riteniamo avversario solo perché ha più di noi. Due estremi che possono arrivare anche al reciproco apprezzamento, quando Gesù riferisce che il padrone lodò l’amministratore infedele perché aveva agito con scaltrezza, al fine di garantirsi un minimo di futuro dopo il licenziamento. Tuttavia entrambi sono destinati ad elidersi, se non modificano il tiro: l’uno usando le proprie risorse con più attenzione verso il povero (v/ anche I lettura), calpestato per ansia di arricchimento personale; l’altro affinando la propria scaltrezza per fini onesti e per rendersi più affidabile davanti agli uomini e di conseguenza davanti a Dio. “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto”, continua il vangelo, ma avverte: “Nessun servo può servire a due padroni … Non potete servire a Dio e a mammona”. Vale per tutti e San Paolo, nella seconda lettura, raccomanda proprio di pregare per tutti gli uomini, per i re e per quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla, con pietà e dignità. Di una finezza unica, che tende ad evitare ire e contese inutili, come dirà subito dopo, sostenendo che Dio vuole che tutti si salvino. Basta allora perdere il tempo a piantare paletti solo per rivalsa e agiamo invece di concerto, ciascuno nel proprio ruolo, per perseguire una tranquilla e proficua convivenza, utile a camminare assieme verso l’obiettivo comune: la Verità.

C’è qualcosa di indigesto sullo stomaco…

Inserito il 11 Settembre 2016 alle ore 12:07 da Plinio Borghi

C’è qualcosa di indigesto sullo stomaco e non va né su né giù, quando riscontri che nella vita l’attenzione, che presumi ti sia dovuta, va invece a favore di chi, non la merita. Si ha un bel dire che ci si comporta bene a prescindere, che non si deve giudicare, che non lo si fa per ottenere un riconoscimento o la riconoscenza, ecc. ecc.; ma quando vedi che i figli degeneri godono di attenzioni maggiori, che i genitori inetti, alla prima cosa buona che fanno, vengono portati dai figli in palmo di mano, che nelle compagini associative, civili e religiose i “fedeli” sono dati per scontati, mentre ai “lontani” si fa una corte assidua per avvicinarli, allora ti viene istintivo sbottare. Non parliamo poi di tutte le agevolazioni che vengono messe in atto per gli ex qualcosa (carcerati, tossicodipendenti, perseguitati e così via): da rimpiangere tutto lo sforzo e la buona volontà che tu, “normale”, hai dovuto spendere per conquistarti un minimo di posizione. Se poi aggiungiamo che a più di qualcuno, lungi dal sentirsi un gratificato, avanza anche di prenderti in giro se non ce l’hai fatta c’è da schiattare. Oggi c’è in gioco il tipo di accoglienza da una parte (alloggio e supporti profumatamente pagati in alberghi o comunque in strutture coperte e con servizi) e la carente risposta sociale riservata ai cittadini residenti dall’altra (gente sfrattata che dorme in macchina, famiglie smembrate, disoccupazione), con i conseguenti battibecchi e rivendicazioni che esplodono da tutti i dibattiti televisivi. E poi ti capita fra le mani la liturgia di oggi che è in sintesi la saga degli ex, dal fedifrago popolo eletto al convertito San Paolo e fino al figliol prodigo del vangelo: un’esplosione di Misericordia divina da lasciare esterrefatti!  A rincarare la dose Gesù rigira il dito sulla piaga: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. È qui che ti prende la depressione, perché ti accorgi di non aver capito niente, di aver letto, da cristiano, i fatti con un’ottica sbagliata. Tu fai parte di quelli che gioiscono, di quelli che hanno sempre goduto dell’eredità, perché sei in simbiosi col Padre. Tu sei lo strumento del quale il Padre si serve per la conversione, sei il pastore che recupera la pecorella smarrita e impara ad essere il tramite per elargire la Misericordia divina. Piuttosto che cadere in pensieri negativi, viviamola bene e preghiamo con le parole del salmo responsoriale: “Donaci, Padre, la gioia del perdono”.

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