Inserito il 20 Novembre 2022 alle ore 10:05 da Plinio Borghi
Con oggi concludo la mia rubrica di meditazioni in libertà e il mio impegno di questo tipo con lettera aperta, che dura ormai da un ventennio.
Qualcuno sospirerà che era ora. Per me è stata un’esperienza insostituibile e ringrazio tutti i miei lettori per l’attenzione, le critiche e i suggerimenti che si sono premurati di farmi pervenire. Mi sentirei già pienamente soddisfatto se anche uno solo di loro, stimolato dalle mie meditazioni, si fosse avvicinato un po’ di più alle sacre scritture.
Un riconoscimento va pure ai tre parroci che si sono succeduti in questa avventura e mi hanno incoraggiato. Un ringraziamento sentito e particolare a tutti gli amici della redazione che non solo mi hanno affiancato, ma sono stati anche solerti nel trovare sempre lo spazio adatto per collocare le mie riflessioni. Con loro proseguirà comunque la consueta collaborazione operativa (non è una minaccia).
Vi porto tutti nel cuore e nelle preghiere.
Plinio Borghi
Inserito in Meditazioni in libertà, Notizie parrocchiali | Commenti disabilitati su Un saluto e un ringraziamento
Inserito il 20 Novembre 2022 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Venga il tuo regno, Signore. Quante volte includiamo questo auspicio nelle nostre preghiere! Non penso sia da considerarla una mera formuletta, bensì un anelito vero e proprio, che poi è la sintesi di tutta l’azione salvifica del nostro Redentore. Non dimentichiamo che è la premessa dell’unica preghiera suggerita proprio da Gesù, per cui diventa obiettivo e mandato missionario ineludibile. In un vecchio foglietto della Messa di questo giorno, trovo al Salmo Responsoriale questa risposta: “Regna la pace dove regna il Signore”. Per la prima volta la chiusura dell’anno liturgico cade in un clima di guerra che ci angoscia in modo particolare e mi sembra giusto riprendere con convinzione quest’affermazione: dove non c’è pace si estromette l’ipotesi che ci sia spazio per la realizzazione del Regno. Sappiamo che nulla giustifica il ricorso alla guerra, ma che solo la nostra dabbenaggine umana pensa di farne strumento risolutivo delle controversie. Ebbene, oltre al resto, con essa vanifichiamo anche il processo universale di far sì che tutti i regni di questo mondo siano ricondotti all’unico Titolare di questo diritto: Gesù Cristo. Questa festa sia stimolo di ricerca della Pace vera, affinché non suoni finto dire che il nostro Salvatore è Re dell’Universo.
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Inserito il 13 Novembre 2022 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Il sacrario dell’uomo è il cuore: così l’ha definito il Concilio Vaticano II. Il motivo è semplice: se vogliamo cercare Dio lo troviamo dentro di noi; se vogliamo seguirne la Parola, è il cuore fatto coscienza che ci guida e se vogliamo difenderci dai falsi profeti è sempre il coraggio del cuore che ci anima. Oggi la liturgia è tutta rivolta alle verità che si riveleranno dopo il passaggio da questa vita terrena e che, guarda caso, sono le più attaccate dai detrattori di ogni estrazione, da chi nega ogni continuità a chi te la svilisce o te la vuol vendere alterata nel suo significato più genuino. Non a caso Gesù ci mette in guardia nel vangelo proprio da questi ultimi: molti si presenteranno a nome suo e pretenderanno di conoscere quando e come si evolveranno i tempi, illustrando segni veritieri e incutendo timori che, per la nostra fede, sono inconsistenti. Egli stesso si perita di indicare alcuni dei segni che precederanno l’epilogo finale, ma si premura di chiarire che nessuno avrà caratteristiche risolutive: tante cose dovranno succedere prima della fine del mondo, incluse angherie e persecuzioni verso chi opera e agisce nel suo nome, ma nessuna di queste sarà preludio di una fine che solo il Padre sa quando avverrà. Per questo non dovremo preoccuparci a “preparare la nostra difesa”: “Io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere”.
Una sola cosa ci è richiesta perché tutto si svolga nella sicurezza più ampia: la perseveranza. Ogni eventuale titubanza o incertezza non farà che minare alla base l’epilogo che la fede ci prospetta. Non a caso una delle preghiere che rivolgiamo al Padre con più insistenza è proprio quella di gratificarci con la Sua santa benedizione e la perseveranza finale. Infatti la pericope in esame si conclude con queste parole del Maestro: “Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”. Attenzione, però, che la perseveranza non è sinonimo di resistenza e men che meno di resistenza passiva. È fatta d’esempio e di impegno, ci avverte san Paolo oggi, di sforzo continuo e di attenzione, per meritarci quel cibo al quale aneliamo. Bella la regola che detta: chi non vuol lavorare neppure mangi. Quindi equipara l’esercizio della testimonianza, accompagnato dalle opere di carità, ad un vero e proprio lavoro che ci plasma come seguaci di Cristo. Al solito, il principio potrebbe benissimo valere pure per tutte le altre espressioni della nostra vita.
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Inserito il 6 Novembre 2022 alle ore 10:15 da Plinio Borghi
Qui occorre capirsi bene: abbiamo appena celebrato la giornata di tutti i Santi e quella di suffragio per i defunti che ancora non hanno avuto l’ammissione al banchetto celeste. Si tratta in entrambi i casi di gente che ha concluso la sua vita terrena e sono morti o almeno fisicamente noi li riteniamo tali. La nostra fede ci dice che sono nati a nuova vita e ritornati fra le braccia del Creatore che li attendeva. A chi passerebbe ora per la testa di affermare che il nostro Dio non è il Dio dei morti? Guarda caso proprio a Gesù, a conclusione del vangelo di oggi. Siamo ormai entrati nella fase finale dell’anno liturgico, tutta dedicata alla prospettiva escatologica, cioè di quello che ci aspetta dopo il passaggio in questo mondo. A prescindere dal contesto del brano in lettura, dove i sadducei, negazionisti della resurrezione, si peritavano di prendere per il naso il Maestro con il problema della donna “ammazza mariti”, Gesù soggiunge: “Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono in lui”. Da qui sembrano partire tre evidenze, che aggiustano un po’ il tiro sul nostro modo di vedere. La prima che la nostra vita non finisce con la morte fisica, ma “continua” con il passaggio alla vita nuova. Nulla di nuovo sul concetto, sembra quasi una questione di lana caprina, ma è doverosa premessa per ricordare che l’avvento del Regno è già in atto qui, anche se troverà compimento col passaggio alla nuova vita. La seconda che noi tutti in comunione, qui e là, viviamo per Dio, e, in particolare per noi qui, possiamo ritenerci vivi solo se rimaniamo tra le braccia del Padre che ci ha dato la vita. Ciò vale ovviamente se il nostro sentiero non devia dalla traccia segnata dal Vangelo, nel pensiero ma soprattutto nelle opere. La terza che allora i morti veri sono quelli che fanno esattamente e volutamente il contrario, disconoscendo la divina paternità, allontanandosi dalla retta via o addirittura combattendo i principi che la costituiscono. È chiaro che Dio non è e non potrà mai essere per loro. Ecco che la frase pronunciata dal nostro Messia non solo non è più tanto estemporanea, ma suona addirittura come un anatema nei confronti di quei sadducei che lo interpellavano, ma non solo, anche di quelli che camminano su quella falsa riga, per leggerezza o per scelta, comunque per miscredenza. Certo, per “essere vivi” ci vuole una fede veramente salda, che non lasci spazio a incertezze sul nostro futuro. Non ci resta che darci da fare per rafforzarla.
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Inserito il 30 Ottobre 2022 alle ore 10:07 da Plinio Borghi
Un pizzico di curiosità non guasta, anzi, è il sale della vita e il sostegno della nostra fede. Guai a perdere lo stimolo che solo la curiosità sa innescare: passa la voglia di qualsiasi cosa, sia essa la più banale, come voler gustare un nuovo cibo o una bevanda particolare, sia la più sublime, come la conoscenza e l’amore. Tutto diventa insipido, anche il godere della natura che Dio ci ha concesso. L’episodio del vangelo di oggi, che ha come protagonista l’arcinoto Zaccheo, è l’esaltazione di quest’aspetto: era un truffaldino patentato e la sua voglia di sapere, di vedere chi era questo Gesù di cui tanto si raccontava gli ha raddrizzato quella sua vita deviata. Il messaggio non tanto subliminale è chiaro: non c’è fede che tenga se scema il desiderio di conoscere, nel senso letterale del termine, l’unica fonte, Colui che ha incarnato la Parola, rendendola concreta, comprensibile e parte essenziale della nostra esistenza. Il pericolo, per noi “iniziati”, è che diamo per scontato di sapere già tutto e che perciò non serve tanto penetrare, approfondire, sviscerare questo inesauribile scrigno di doni che il Maestro ci ha consegnato. E così quel poco che abbiamo accumulato in anni di pratica religiosa s’inaridisce. La conversione di Zaccheo non si esaurisce nell’aver soddisfatto una mera curiosità visiva né con l’accoglienza del Messia in casa propria, bensì con lo stravolgimento di tutta la sua impostazione di vita, mettendo in primis l’attenzione ai poveri e dimostrando così di aver ben capito il senso del messaggio che il Salvatore diffondeva. La maggior parte del Vangelo si perita di mettere più in evidenza gli effetti che le varie conversioni producono, appunto per far capire a tutti quello che poi riprende San Paolo: se anche avessimo tutte le qualità necessarie, ma ci mancasse la carità, saremmo come bronzi che suonano a vuoto. Ma c’è un altro spunto che ci arriva dalla prima lettura e dalla pericope trattata: ogni cosa che Dio ha creato Gli è cara, altrimenti non l’avrebbe fatto, e tutto ciò che si è perso o tende a perdersi trova nell’anelito del Padre l’ansia del recupero. Per questo ha chiesto al Figlio quel popò di sacrificio e per questo saremmo solo degli ingrati a non essere solleciti a ricambiarlo. L’1 e 2 novembre celebreremo coloro che hanno saputo rispondere adeguatamente, chi più e chi meno e per quest’ultimi avremo preghiere di suffragio. A tutti chiediamo che ci aiutino con la supplica degli apostoli: Signore, aumenta la nostra fede.
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Inserito il 23 Ottobre 2022 alle ore 10:02 da Plinio Borghi
Fariseo o pubblicano? Bella domanda! Conosciamo tutti la parabola che il vangelo di oggi ci propone e razionalmente ci verrebbe da paragonarci di più al pubblicano, ritenendoci tutti peccatori e bisognosi della Misericordia del Signore. Se non fosse che poi di fatto, sotto sotto, riteniamo tutto sommato di essere dalla parte del giusto, di comportarci abbastanza con linearità, di essere forse anche migliori di tanti “basabanchi” che bazzicano in chiesa. In buona sostanza non paghiamo le decime di quanto possediamo, non facciamo tanto digiuno, come si vantava il fariseo impettito davanti a Dio, forse siamo anche un tantino ingiusti, talora anche adulteri e, perché no?, anche ladri, almeno quando non facciamo il nostro dovere fino in fondo o ci riesce di fare i furbetti, però ci avanza di confrontarci con chi riteniamo certamente peggiore, magari perché meno furbo e più plateale nel muoversi. Quindi alla fin fine siamo anche peggio del fariseo, sebbene apparentemente modesti, in quanto, con falsa umiltà, rifuggiamo dal metterci in mostra. Di più. Se abbiamo qualche momento di resipiscenza, che ne so, in occasione di una confessione periodica, nella quale ci è richiesto di batterci il petto, siamo convinti di farlo come il pubblicano della parabola? Ne dubito, non fosse altro che per il fatto che il vero pentimento comporta una concreta presa di distanze dal modo di comportarsi e pertanto una conversione a tutto tondo. Un risultato del genere sarebbe immediatamente percepito e gli effetti si noterebbero anche sul piano sociale. Allora non siamo paragonabili nemmeno al pubblicano, che è uscito dal tempio “giustificato” per il suo reale rimorso. Come possiamo constatare, non è così facile dare una risposta coerente alla domanda posta inizialmente e con ogni probabilità il dualismo proposto dal nostro divin Maestro aveva proprio lo scopo di far scoppiare le nostre contraddizioni. Qual è a questo punto la via d’uscita? Quella che accennavamo la settimana scorsa e cioè la preghiera, costante, insistente, non rituale, vera. La preghiera è come uno strofinaccio, o meglio come un aspirapolvere per la nostra coscienza. Attraverso la preghiera creiamo le condizioni per esaminarla continuamente e pulirla realmente. Un po’ alla volta scopriremo la carità, abbandoneremo l’inedia e la presunzione del fariseo, ci avvicineremo alla sincerità del pubblicano. Leggiamoci con calma il Salmo Responsoriale e avremo una traccia utile.
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Inserito il 16 Ottobre 2022 alle ore 09:59 da Plinio Borghi
La furbizia nel chiedere si apprende dagli infanti: chi ha ne ha fatto esperienza lo sa bene. A prescindere da come la richiesta viene posta, in modo accattivante o ammiccante, col far da “ruffiano” o con finta nonchalance, elementi per sé già sufficienti a far andare in brodo di giuggiole nonni, zii e parenti vari, di fronte al diniego subentra l’insistenza, magari accompagnata dal piagnisteo. E qui
si scopre la capacità istintiva del pargolo nel calcolare i tempi utili al cedimento e nel distinguere le differenze tra i vari interlocutori, di solito il papà e la mamma. Se, preso dall’esasperazione, uno molla i cordoni dopo, diciamo così, cinque minuti, stiamo tranquilli che la volta successiva la manfrina non avrà tempi inferiori. E se, per mostrare una certa fermezza, riusciamo a tirarla per dieci o venti minuti, dopo l’insistenza non durerà meno. Se invece la fermezza di uno dei due non troverà cedimento, i tempi d’insistenza con questo saranno nulli e il giochino durerà con l’altro. Ovvio che l’esperimento non può essere introdotto a processo educativo avanzato, ma da subito. Come facciano i piccoli a essere così “furbi” lasciamo agli esperti la parola. Noi impariamo a trasferire questa esperienza nei rapporti col Padre celeste, che, a quanto ci dimostra la liturgia di oggi, ha la stessa sensibilità dei genitori, compresa la pazienza nell’ascoltare le nostre istanze. Con una leggera differenza, però: a conoscere i tempi necessari per cedere e concedere non siamo noi, ma Lui stesso. A noi spetta solo chiedere con insistenza e, ovviamente, con tanta fede. Qui un paio di interrogativi sorge spontaneo: perché chiedere così tanto al Padre, quando Egli conosce le nostre esigenze meglio di noi e a cosa può servire questo modo incessante di pregare? La prima questione è semplice: serve a noi, per l’attenzione che dobbiamo ad ogni aspetto dei nostri bisogni. La seconda è strettamente legata alla crescita della nostra fede. Tutte le religioni prevedono forme rituali ricorrenti e ripetitive, che servono a catturare mente e cuore mentre si è in tensione con l’Essere superiore. L’episodio di Mosè nella prima lettura è l’esempio di quanta efficacia rivesta la continuità di questo rapporto. Il Rosario, cui questo mese è dedicato, e la contemplazione dei misteri ne è una delle espressioni più belle, anche per rispondere in concreto alla domanda con cui si chiude il vangelo di oggi: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
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Inserito il 9 Ottobre 2022 alle ore 09:44 da Plinio Borghi
Esprimere sincera gratitudine non rientra molto agevolmente nei nostri atteggiamenti preferiti, primo perché è inevitabile una situazione di dipendenza da colui al quale la dovresti manifestare, secondo perché sarebbe un riconoscimento di superiorità (sua) o di inferiorità (nostra), e anche questo non s’attaglia così bene alle nostre corde, terzo perché potrebbe diventare preludio di un vincolo non sempre gradito, specie se ci sentiamo obbligati a dover in qualche modo ricambiare. Eppure non è detto che l’attore abbia agito con riserve mentali o secondi fini, anzi, potrebbe averlo fatto non solo disinteressatamente, ma addirittura avendo a cuore solo il tuo bene. Ma tant’è, il tarlo del sospetto fa parte delle nostre debolezze, ed è sostenuto purtroppo da tante realtà che lo alimentano. Ognuno può attingere alla miriade di situazioni che conosce, non ultime quelle che incrementano le fila nella malavita, ma qui saremmo agli estremi. Sta di fatto che, anche nella migliore delle ipotesi, far sì che l’espressione di gratitudine sia pure sincera è dura, specie se il destinatario fa parte di una cerchia molto vicina. Se leggiamo il vangelo di oggi, abbiamo la conferma di questo quadretto deprimente. Eppur non c’erano dubbi che Gesù non cercasse riconoscimenti pelosi e agisse per pura empatia col sofferente, tanto è vero che i dieci lebbrosi lo supplicano chiedendo pietà per la loro condizione. Per non ingenerare il minimo sospetto di protagonismo gratuito, egli li invita ad andare a presentarsi direttamente ai sacerdoti. Quelli obbedirono e strada facendo furono guariti. Logica vorrebbe che si fossero precipitati tutti indietro per ringraziarlo. Macché. È scattato il meccanismo descritto sopra, soprattutto da parte dei suoi conterranei. Infatti, l’unico a farlo è proprio l’estraneo, il samaritano, che perciò esprime una fede che lo salva. Qui ci sarebbe da spendere una riflessione sulla meraviglia di Gesù, rivolta proprio a noi: perché lesinare riconoscenza a Colui che ci ha redento, al Padre che ci ha dato la vita e ci riempie di attenzioni? Con Dio non corriamo il pericolo di strumentalizzazioni, la sua misericordia e infinita e spassionata. Certo, anche Lui si aspetta di essere ricambiato, ma liberamente e con espressioni che vanno comunque tutte e nostro vantaggio e a sua maggior gloria. Oggi suggerirei di seguire il consiglio del Canto al Vangelo: “In ogni cosa rendete grazie: questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di noi”.
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Inserito il 2 Ottobre 2022 alle ore 09:50 da Plinio Borghi
Il tenero virgulto che si affaccia alla luce dopo che è stato piantato il seme ha bisogno di cure e attenzioni particolari per aiutarlo a non soccombere alla nuova situazione. Va abbeverato adeguatamente, senza mai esagerare perché in questa fase un eccesso può ottenere l’effetto opposto ed essergli fatale. Superato il primo step, l’opera di mantenimento e consolidamento di quella che si presenta ormai come una pianticella non deve venir meno, se vogliamo che si rafforzi e domani diventi adulta. Una volta raggiunte le debite proporzioni, le incombenze diventano ordinarie, ma se ne aggiungono altre come quella di mantenere il terreno attorno ben dissodato, per assorbire la giusta umidità, e di provvedere alle adeguate potature, indispensabili per sviluppare sempre di più la sua consistenza. Anche queste operazioni non possono essere lasciate al caso, ma richiedono tempi e tecniche adatti per ogni tipo di pianta. Ormai la raggiunta autonomia non richiede più quell’assillo indispensabile in precedenza: qualsiasi evento naturale la trova forte e preparata. Tuttavia, l’occhio è bene che resti vigile, perché l’assalto di taluni parassiti abbisogna di un nostro preciso e tempestivo intervento. Fine della lezione di botanica. Era necessaria? Presumo di no, perché ciascuno di voi potrebbe insegnarmi di più e meglio. Allora entriamo nella liturgia e sostituiamo il virgulto con la fede ripercorrendo tutto il procedimento: non c’è una virgola da spostare, compresa la potatura che, nella fattispecie, è costituita dai momenti di approfondimento, utili per la verifica e la validità del percorso. Per alcuni può essere un serio esame di coscienza prima di una salutare Confessione, per altri un corso di esercizi spirituali, per altri ancora un momento di confronto collettivo o individuale col proprio referente spirituale. Pure il problema dei parassiti non è da sottovalutare, il più subdolo dei quali è adagiarsi sulla routine, sulle sicurezze acquisite, tutti aspetti che rischiano di inaridire la fede, di frenarne la crescita. Non ce lo possiamo permettere e se ci accorgessimo di non approdare a granché dobbiamo fare come gli apostoli e supplicare Colui che ha piantato il seme (non scordiamo che la fede è sempre un dono), che ha curato il virgulto tramite tutti i supporti che ci ha messo a disposizione, la Chiesa in primis, e ci tiene d’occhio di aumentare la nostra fede. Soccomberà chi non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede, conclude la prima lettura.
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Inserito il 25 Settembre 2022 alle ore 10:09 da Plinio Borghi
Le cicale andranno in Paradiso? Bella domanda. Teoricamente sì, anche se con molta difficoltà, verrebbe da pensare di primo acchito. Nell’immaginario collettivo e date tutte le similitudini contenute negli aneddoti e nelle varie fiabe, viene digerita molto meglio la formica, così lavoratrice, previdente e parsimoniosa, ma anche sul tirchietto, stanti ad Esopo. In effetti, nemmeno l’atteggiamento di quest’ultima è molto in sintonia con il Vangelo, non fosse altro che per tre motivi. Primo: ha fatto dell’accumulo di risorse la propria finalità di vita, ignorandone altri e parimenti utili risvolti; secondo: si erge a giudice dell’operato altrui e condanna di conseguenza; terzo: rifiuta quel minimo di solidarietà che la potrebbe affrancare dalla sua grettezza. C’è un particolare che sfugge a una troppo veloce lettura della favola: ognuna delle due protagoniste risponde alla propensione naturale che le è propria, per cui nessuna poteva agire diversamente. Anche la cicala, allora, ha fatto la sua parte, cantando senza alcun tornaconto, ma solo per la soddisfazione di chi ascoltava, ruolo che le è attribuito. In ciò sono più d’accordo con l’interpretazione che ne dà Gianni Rodari. La liturgia di oggi presta un po’ il destro alle figure in argomento, sebbene, trattandosi di persone, è più difficile appellarsi alle propensioni naturali. Infatti, gli “spensierati di Sion” descritti dalla prima lettura finiranno in testa ai deportati. E il ricco epulone del vangelo, chiaramente cicala, non ha certo giustificazione per la sua condotta dissoluta e si guadagnerà una bella nicchia all’Inferno, senza fermate intermedie. Del povero Lazzaro non si può dire che sia stato una formica, né avrebbe potuto esserlo, ma la sua pena gli è servita ad accumulare ben più di una riserva per una sopravvivenza stagionale: addirittura per l’eternità. Ora, poteva egli muoversi a pietà per la sorte del ricco e alleviargli un po’ di sofferenza? Non spetta a lui decidere, ma è Abramo stesso che interloquisce. Chissà, forse lui l’avrebbe anche fatto. Comunque emerge un dato dal dialogo che s’instaura: pure il ricco poteva fare una fine diversa, se avesse ascoltato Mosè e i profeti e cioè se avesse usato la sua ricchezza con un occhio di riguardo per chi non era come lui. In buona sostanza, anche noi siamo “dotati” di tutte le risorse e le prerogative per godere di ogni aspetto della vita, basta saperle investire bene, come si considerava domenica scorsa. Sì, allora sotto questo profilo, per le cicale le porte del Paradiso sono aperte
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