Inserito il 4 Agosto 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
La cicala e la formica, protagoniste dell’arcinota favola di Esopo, in effetti rappresentano bene la dualità di comportamenti di noi esseri umani, fatte salve le varie sfumature che intercorrono tra un atteggiamento e l’altro. A differenza dei due simpatici animaletti, noi siamo però in grado di giustificare le nostre scelte di vita contraddittorie appigliandoci alle più disparate motivazioni. La più ovvia è che se siamo oculati e sparagnini non è per attaccamento alle cose o per avarizia, bensì per non fare la fine della cicala; di contro se viviamo superficialmente e prendiamo la vita come viene, all’insegna della spensieratezza, del divertimento e “se succede qualcosa qualche santo provvederà”, non è per imprudenza, ma perché la vita è una sola ed è bene godersela. E poi non lo dice anche il Vangelo che non dobbiamo affannarci più di tanto perché il Padre che provvede agli uccellini e ai gigli non potrà lasciare noi suoi prediletti senza risorse? E non è proprio sul vangelo di oggi che “la formica” di turno progettava di accumulare l’abbondante raccolto costruendo granai più grandi, per poi vivere di rendita e alla grande e Dio lo stronca di brutto dicendogli che la notte stessa morirà? Nulla da dire: per arrampicarci sugli specchi non ci batte nessuno, specie se si tratta di non impegnarci. La verità è che escludere l’affanno non significa fregarsene di tutto e ancor meno sfuggire agli impegni: devono cambiare il senso per cui si fanno le cose e gli obiettivi, troppo egocentrici. Il nostro scopo non dev’essere solo questa vita, ma anche quella eterna e quindi, ce lo spiega il Maestro, dobbiamo arricchire agli occhi di Dio. E come? Mettendo il prossimo al centro della nostra attenzione: ogni cosa avrete fatto a uno di questi più piccoli l’avrete fatta a me. Va bene lavorare e accumulare, ma per il bene di tutti, come fanno appunto le formiche. Altrimenti, come dice anche Qoèlet nella prima lettura, tutto quello che avremo trattenuto a chi andrà? A chi non ha per niente collaborato e si premurerà solo di sperperare. Figurarsi se Dio ci spinge a fare le cicale! Meglio che rinfreschiamo la parabola dei talenti, per rammentare che di tutto il potenziale che ci ha fornito domani ci chiederà il conto e allora saranno cavoli amari se ci saremo limitati a congelare senza investire. Ci verrà risposto come la formica alla cicala: hai voluto irresponsabilmente cantare tutta l’estate? Adesso balla (magari sui carboni ardenti delle fiamme dell’Inferno)!
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Inserito il 28 Luglio 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
L’insistenza nel chiedere il più delle volte dà fastidio, specie se deborda nella petulanza, e si rischia di sortire l’effetto opposto. Eppure la liturgia di oggi è tutta un’apologia dell’insistenza. Nella prima lettura Abramo perora la causa di Sodoma, che il Signore vuole distruggere, incalzando con una vera e propria trattativa di stampo sindacale. Nel vangelo è lo stesso Gesù che ribatte: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Ma perché star lì tanto a chiedere, quando poi precisa che “il Padre vostro sa di che avete bisogno”? Evidentemente c’è modo e modo di chiedere e c’è modo e modo di insistere. Tornando ad Abramo, noteremo con quale rispetto egli si rivolge al Signore. La sua richiesta non scivola mai nella pretesa e men che meno nel ricatto, cose alle quali noi siamo più avvezzi: anche con Dio spesso mettiamo in atto il “do ut des”, se mi concedi io m’impegno. Salvo che non succeda il contrario, per cui si parte col “prego, ma Dio non m’ascolta” e si finisce col “se c’è un Dio lassù non dovrebbe permettere queste cose”. Con altrettanta evidenza, quindi, l’esaltazione dell’insistenza non è fine a sé stessa, ma leva per invitare alla preghiera costante, che sta alla base del nostro rapporto “aperto” con il Padre. E allora, tanto per fare il punto, ci conviene aggregarci ai discepoli che in premessa del brano in lettura oggi, consapevoli dei loro limiti, si rivolgono al Maestro chiedendo: “Signore, insegnaci a pregare”. Qui Gesù esordisce con quella stupenda preghiera che è il Padre nostro, l’unica che ci ha trasmesso testualmente e che è di una completezza incomparabile, tale da essere tranquillamente assunta come regola di vita. Egli stesso la metterà in pratica nel momento cruciale del suo percorso di salvezza, quando nell’orto del Getsemani stava attendendo che lo arrestassero per crocifiggerlo: “Padre, se è possibile allontana da me questo calice, ma non la mia bensì la tua volontà sia fatta”. Sul Padre nostro si potrebbe dare la stura a un libro intero di commenti. Qui mi limito a rilevare un aspetto che nei fatti ci vede parecchio in mora: il perdono. A chiederlo ci riesce facile e non smetteremmo mai di farlo. Quanto a darlo ne corre; ma non funziona così: ogni volta che ci apprestiamo a recitare la preghiera, dovremmo aver già provveduto, altrimenti suona stonato quel “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Intanto insistiamo, così ce lo ricordiamo.
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Inserito il 21 Luglio 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Tra il dire e il fare.. c’è di mezzo l’ascoltare. Non il sentire, bensì l’ascoltare, cioè il prestare attenzione, capire. Proprio l’altro giorno Rai 3 ha riproposto un intervento di Cacciari sul programma di Augias, dove il nostro sottolineava l’importanza della “filologia”, che studia il vero significato delle parole, e insisteva che solo così si arriva a capire e quindi ad ascoltare compiutamente. Il discorso si dilungava poi in modo magistrale sull’uso, anche allegorico, e sull’elaborazione dei vari concetti, possibile solo afferrandone la radice e il senso. Oggi il vangelo ci presenta l’episodio della visita di Gesù a Marta e Maria. Entrambe sentono il Maestro che parla, ma, mentre l’una si dà da fare per agevolare l’ospitalità, l’altra si ferma ad ascoltarlo, al punto che la prima si lagna della sorella, che non le dà una mano. Lascia sorpresi la risposta di Gesù: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”. Bella riconoscenza!, verrebbe da pensare, ma la realtà è che viviamo in un mondo che ci coinvolge in mille cose, ci distoglie con mille pensieri anche da quel minimo di preghiera che magari stiamo recitando e non ci lascia il tempo per fermarci un attimo e ascoltare. Gli stessi mass media non aiutano, ci martellano continuamente: riusciamo a sentire e anche a leggere, ma quanto ad ascoltare e ad introiettare ne passa. Se poi ci si mette anche lo scarso approfondimento “filologico”, la frittata è fatta e diventiamo avulsi dal contesto, che ci sfiora appena. Salvo che non ci colpisca, ma allora o si tratta di disgrazie o di fatti che ci riguardano. Il Vangelo, è un testo che non si presta ad approcci fugaci: va penetrato nel giusto modo e vissuto, entrambe le cose in modo dinamico e senza soluzione di continuità. A tal proposito è proprio oggi la festa del Redentore, un attributo del nostro Salvatore che è un progetto e racchiude e sublima tutti gli altri attributi possibili. Redimere significa riscattare, ed è un impeto che a Dio, nella sua infinita misericordia, è venuto subito dopo la disobbedienza dei nostri progenitori, mentre li stava cacciando. Capirlo, ci fa esplodere nell’antifona che udiamo ripetere alla Via Crucis in Colosseo: “Adoramus te Christe et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum” (Ti adoriamo o Cristo e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo). Comprenderlo e riproporlo è un atto di riconoscenza.
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Inserito il 14 Luglio 2019 alle ore 10:02 da Plinio Borghi
Esiste ancora la bontà? Cioè quella vera, che trovava la sua massima espressione nel rapporto con i figli e che includeva un’accoglienza incondizionata delle nuove vite che il Signore concedeva alla coppia? Quella che trasformava l’educazione in investimento, nel senso che non dovevamo plasmarli a nostro uso e consumo o riponendo in loro le nostre aspettative deluse, ma consegnarli come persone al mondo valorizzando le loro specificità? Quella bontà che non voleva dire condiscendenza o asservimento perché tutto è dovuto, ma era fatta di tanti no e di tanti richiami al dovere prima che al diritto? Ho proprio l’impressione di no. Oggi siamo scivolati in un buonismo arido, fine a sé stesso, che poi varia dal “tre volte bon” di veneziana estrazione all’incapacità di impostare un’azione educativa, tale da far luogo da una parte alla contrazione delle nascite (e siamo arrivati a un picco veramente drammatico) e dall’altra al disordine sociale delle baby gang che imperversano con la copertura dei genitori. Che sia un fatto consolidato lo stiamo dimostrando anche nell’accoglienza dei migranti. La vera bontà richiederebbe anche qui un’ampia disponibilità programmata e finalizzata non tanto e solo all’integrazione, quanto all’investimento di un potenziale sinergico da un lato con la valorizzazione di culture diverse e dall’altro col loro immediato impiego in attività convenienti per il nostro Paese e la crescita della nostra società. Nulla osta che nel frattempo si svolgano tutti gli adempimenti burocratici che la sicurezza richiede. Invece si è scelta ancora la strada del buonismo, variamente interpretato a seconda che lo si veda da destra o da sinistra, complice anche la Chiesa, che si è guardata bene dal perorare con i governi che si sono succeduti, come fa in altre occasioni, una sua visione pratica di accoglienza programmata. I risultati li abbiamo sotto il naso: gente che staziona e bighellona, strumentalizzata da cooperative “depositarie” ma prive di potere di intervento. Eppure la parabola del buon Samaritano che il vangelo racconta oggi è chiara: questi affida il malcapitato alle cure e paga affinché poi venga restituito alla sua vita, non trattenuto dall’albergatore a oltranza. Questa è la vera bontà per il prossimo. Fare come abbiamo fatto finora, con effetti iceberg tipo “mafia capitale”, ci assimila di più al sacerdote e al levita: non programmare e non investire ha lo stesso valore che “passare oltre” senza curarsene.
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Inserito il 7 Luglio 2019 alle ore 10:10 da Plinio Borghi
Un po’ sopra le righe, il vangelo di oggi. Una regia riconducibile più che all’evangelista Luca all’eccellente maestro Zeffirelli, da poco scomparso. Non bastasse la dovizia di particolari che definiscono i confini entro i quali i 72 discepoli si devono muovere a due a due e la descrizione persino dell’abbigliamento da adottare, a dimostrazione del distacco da cose profane, l’azione si focalizza su tre aspetti particolari: la pace come esternazione e come dono, sopra ogni cosa, l’accettazione di quanto viene offerto per mangiare, bere e dormire, senza altre richieste e men che meno passare di casa in casa (non sarebbe male che i testimoni di Geova ne facessero tesoro) e la soddisfazione degli inviati al ritorno, specie nel constatare come, nel nome di Gesù, i demoni si dichiarassero sconfitti. Su tutto domina la scena madre che scaturisce dall’eventuale rifiuto dell’accoglienza. E qui è il Maestro stesso a dettare le parole: “Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. E aggiunge: “Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città”. Parole terribili e incombenti. Viene spontaneo chiedersi come evitare di incappare in tali anatemi. Se ci limitassimo alle formalità, non ci sarebbero problemi: tanto per restare in Italia, abbiamo sempre avuto riguardo per la Chiesa e, dal Concordato in giù, fino all’otto per mille, abbiamo espresso alla grande la nostra ospitalità. Non parliamo della cura verso i manufatti e le strutture. È chiaro, però, che non è questo l’aspetto che interessa a Gesù: accoglienza è apprezzamento per la lieta novella, è adesione al suo contenuto, che si traduce innanzitutto in pace e cura (amore) degli uni verso gli altri, è attenzione per deboli ed emarginati e così via. Il pericolo che il richiamo a tutto ciò dia fastidio è sempre in agguato. Non a caso il Signore, nell’inviare i 72, premette: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. Ancor più insidiosa è poi l’indifferenza. Il vivi e lascia vivere è quanto di più falso ed equivoco si possa opporre al disegno divino, anzi, è ancora più offensivo del rifiuto. Chi rifiuta tutto sommato ha preso in considerazione. L’indifferente sega sul nascere ogni velleità. Riflettiamoci un po’, soprattutto noi cosiddetti praticanti, e analizziamo con quale slancio ci rapportiamo al messaggio e poi valutiamo se non corriamo il rischio che ci tocchi la fine di Sodoma.
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Inserito il 30 Giugno 2019 alle ore 10:05 da Plinio Borghi
Attrezzarsi e dritti all’obiettivo! È tempo di ferie, per molti un’occasione di partenza per differenziati tipi di vacanza in cui mare, monti e viaggi prevalgono; per una buona parte la prova di maturità sta per terminare e per tutti serve darsi o rinverdire degli obiettivi verso i quali decisamente puntare. In ogni caso è opportuno attrezzarsi e qui le vignette su come ognuno si organizza si sprecano e vanno dal solito praticone che dice di volersi dotare del minimo indispensabile e poi dimentica mezze cose a casa all’arruffone che la porrebbe intera sopra la macchina. Per un viaggio si va da chi si prefigge un itinerario ben preciso e non sgarra d’un net, cascasse il mondo, a chi sostiene che basta partire e andare dove ti porta il cuore e poi va a finire che trascura l’essenziale. Non disquisiamo di mare e montagna, dove si nota gente attrezzata di tutto punto per dedicarsi alla pesca proficua, magari d’altura, o ad escursioni impegnative e poi si limitano.. all’esposizione dell’attrezzatura; di contro si affrontano alte quote in maglietta o si passeggia per il ghiacciaio con i tacchi a spillo (visti di persona). Le similitudini potrebbero continuare anche sui temi più importanti della vita, quando o si procede spesso a vista o ci si pone obiettivi ambiziosi ben sapendo che sono irraggiungibili. Non ci vuol molto a capire che occorre concretezza nelle scelte, non scevra da determinazione e accettazione dei rischi e qui si innesta la lezione che ci deriva direttamente dal vangelo di oggi, un Gesù che si dirige decisamente verso Gerusalemme, dove ben sapeva cosa lo aspettasse, e che fatica a trovare alloggio: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, esclama a un certo punto (ma questa è una rogna che si porta dietro fin dalla nascita). Tuttavia coinvolge nel suo andare gente disponibile a seguirlo, ma non subito: uno deve prima seppellire un morto, un altro sente il bisogno di andar a salutare madre e padre prima di stravolgere la sua vita. Due esempi tipici di attendismo, incertezza nelle scelte, che finiscono per offuscare l’obiettivo prescelto. Ecco allora che il Messia impartisce il fatidico insegnamento: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio”. Ancora una volta il Maestro trae spunto dalle cose semplici e ovvie. Ve lo vedete il contadino che invece di tirare avanti a testa bassa si gira per compiacersi del lavoro svolto? Quello non finisce più. O lo scalatore che invece di puntare alla cima guarda giù? Oltretutto rischia di cadere. Acquisiamo e facciamone tesoro.
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Inserito il 16 Giugno 2019 alle ore 08:00 da Plinio Borghi
Il mistero è svelato! Ho scoperto che cos’è la Trinità. Chissà quanti ci hanno provato, da fior fior di teologi a manipoli di scettici! I primi elaborando le più disparate teorie e finendo per incrementare ancor più l’alone di un mistero a dir loro impenetrabile, se non con gli occhi della fede; i secondi riducendola a fotocopia di altre realtà politeiste, come ad esempio l’induismo, glissando sul fatto che nessuna di queste riconduce i vari dei a un’unica Entità. Anzi, si scordano che in queste religioni i vari protagonisti hanno ruoli e compiti diversi, spesso in contrasto fra di loro, fino al punto di farsi concorrenza o combattersi a vicenda. Nel nostro caso, invece, vigono un’armonia e un’unicità d’intenti invidiabile, pur se ogni Persona è identificata in modo distinto dalle altre, con funzioni che non si possono contrapporre, poiché, insieme, costituiscono un unico Dio. Semplice? No, detta così mica tanto, sennò che ci starebbero a fare tutti quei soloni a elucubrare teorie e approfondimenti? Nel vangelo di oggi anche Gesù ammette che avrebbe ancora tante cose da dire agli apostoli, ma che non sarebbero stati in grado di portarne il peso. Tuttavia, apre uno spiraglio di prospettiva: lo Spirito di verità provvederà a trasferirle e ad introdurli verso la verità intera. Domenica scorsa questo abbiamo celebrato e rivissuto e oggi finalmente uno dei più grandi misteri è svelato: la Trinità è una fonte, o meglio, la Fonte di ciò che di più grande possa muovere il mondo e cioè dell’Amore. Tutto ciò che esiste discende da un atto d’amore, a cominciare da Dio stesso, che per amore si esprime nel fenomeno trinitario e a finire con tutta la creazione e il suo futuro epilogo. In mezzo ci sta quel popò di progetto di salvezza ideato dal Padre, realizzato dal Figlio e del quale lo Spirito Santo è portatore. Da notare che il nostro Maestro specifica che lo Spirito non parlerà di sé, ma “prenderà del mio e ve lo annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio…”: mirabile armonia, come dicevo. La realtà umana che si avvicina di più a questo concetto è proprio la famiglia: due persone che diventano una sola carne, pur mantenendo distinte le proprie caratteristiche, e, per effetto dell’amore, generano tutto il resto, in primis i figli. “Beh – dice – hai scoperto l’acqua calda? Si sapeva già che la Trinità era la Fonte dell’Amore”. Può darsi, ma io è da una vita che, anno dopo anno, affronto questa ricerca e per me ogni volta è una scoperta sorprendente.
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Inserito il 9 Giugno 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
“Sacrum septenarium” non è qualcosa di misterioso o di esoterico: sono le parole in latino incluse nella sequenza che ancor oggi recitiamo, in italiano, nella Messa di Pentecoste e che indicano nel complesso i sette doni di cui è portatore lo Spirito Santo. È da quando eravamo bimbi che ce li sentiamo ripetere col catechismo e che in buona sostanza sono a fondamento di una corretta formazione della persona e pure della società stessa: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio. A ben osservarli, fatta eccezione per l’ultimo, andrebbero bene in qualsiasi situazione, riguardi essa un credente ovvero un non credente, una società cristiana ovvero impostata su una religione diversa o financo materialista. Sostenere che uno solo di questi possa essere nocivo o solamente insignificante per dare completezza alla crescita dell’uomo sarebbe una menzogna bella e buona e detta con la consapevolezza che tale si configurerebbe. Di più. Pensare che anche l’assenza di uno solo di essi non inciderebbe negativamente è pure mistificante. Ora, se li applichiamo a ogni ruolo, di studio o di lavoro, di governo o esecutivo, di dirigenza o subalterno, di genitore o di figlio, di laico o religioso e poi li eleviamo all’ennesima potenza, a seconda delle capacità di ciascuno, quali splendide persone e quali armoniose società otterremmo! Purtroppo l’umana fragilità rende imperfette tutte le cose, al punto da non coltivarle adeguatamente o addirittura da inaridirle e qui subentra l’azione efficace dello Spirito Santo, che tutti abbiamo ricevuto al momento della nostra creazione, che ne siamo o meno convinti. Egli aiuta nella comprensione e nel discernimento, senza invasione o costrizione, nel pieno rispetto della libertà dell’uomo. Per questo il suo intervento va sollecitato e invocato e prende forma attraverso i Sacramenti. Per questo il “timor di Dio”, che è sinonimo di “fede”, diventa il dono vero e proprio che eleva tutti gli altri, li aggancia, li motiva e li proietta nella comunione con Dio stesso, quindi timore non nel senso di paura, bensì di amore e rispetto del Creatore, del quale siamo frutto. Ne deriva un compito molto importante per gli educatori cattolici: trasmettere questi principi di fede e tenerli vivi nelle generazioni che avanzano, dando costantemente l’esempio di come vanno vissuti, senza tradirli. Non è responsabilità da poco e oggi è l’occasione per invocare lo Spirito, affinché ci aiuti a mantenere la giusta tensione.
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Inserito il 2 Giugno 2019 alle ore 08:00 da Plinio Borghi
Il senso di languore e di vuoto che ti prende quando cessa un rapporto con una persona che ti piace, con la quale stavi bene assieme, è qualcosa di struggente. Anche ammesso che i motivi del distacco siano i più plausibili, che tu comprenda che non si poteva fare diversamente, che ti prometta che in ogni caso non ti dimenticherà, che sarai sempre nei suoi pensieri, lo struggimento avrà il sopravvento, specie se è stato bello ed è un peccato che sia finito così presto. L’autoconsolazione ti porta a pensare che in fin dei conti sei stato fortunato, che ti devi accontentare di averlo vissuto, che l’aver avuto a che fare con una figura così coinvolgente ti ha arricchito, al punto da darti una carica da trasmettere anche agli altri. Tuttavia, il risultato non cambia: ai sentimenti e alle sensazioni non si comanda. E così lo stato d’animo ti porta a ripercorrere i momenti più stimolanti, le perplessità miste a gioia del primo incontro, la voglia immediata di approfondire la conoscenza, l’emozione di sentirsi chiamare per nome, l’orgoglio di essere protagonista privilegiato; anche le tirate d’orecchi quando non ti adeguavi al suo modo di vedere le cose ora diventano prove d’amore. Senti ancora la sua forza d’animo, la spinta che ti imprimeva, le prospettive di vita che ti dava. È vero, talvolta faceva discorsi strani, incomprensibili, come l’ultima volta che ha garantito di esserci sempre anche quando la sottrazione alla vista sarebbe stata messa in atto, ma non ti prendeva mai il disagio: ti dava invece tanta sicurezza. Ha anche detto che la partenza era inevitabile, ma che ci sarebbe stato un ritorno. Lo dicono tutti e poi non li vedi più, ma stavolta mi sa che la promessa non sia peregrina: una persona così speciale non può tirare scherzi. Rimane solo da capire come, ma ha assicurato che in qualche modo ci renderà edotti… Presumo che gli apostoli si siano abbandonati a queste elucubrazioni quando l’angelo li ha colti con lo sguardo perso nel vuoto, mentre Gesù era appena sparito dai loro occhi. Anche quell’emissario speciale, peraltro, ha ripetuto il medesimo concetto del ritorno, modalità incluse: “Come l’avete visto salire al cielo, così il Signore ritornerà”. A questo punto le cose son due: o rannicchiarsi nella tristezza o crederci, convinti, e reagire con gioia. Il vangelo di oggi ci racconta che tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio. Ci conviene fare altrettanto, in attesa di una Pentecoste illuminante.
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Inserito il 26 Maggio 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
La conoscenza del Vangelo avrà il suo pieno compimento solo quando saremo seduti al banchetto celeste. Solo allora, pregni dell’onniscienza divina, la nostra mente sarà in grado di sopportare il “peso” che Gesù ci ha consegnato con l’annuncio della lieta novella. Per il momento ci stiamo arrabattando, in modo maldestro o con raffinata perizia, su mille interpretazioni, stando attenti a non scivolare nel relativismo o nel soggettivismo. E che oggi abbiamo una Chiesa guidata dallo Spirito Santo e deputata a far sintesi ufficiale del messaggio, anche se poi non sempre riesce ad adeguarvisi! Figurarsi gli apostoli di allora, in procinto di essere lasciati dal Maestro in balia di sé stessi! Se già allora il Redentore garantì che avrebbe inviato lo Spirito per aiutarli a ricordare tutto ciò che aveva detto e per insegnare (attenzione: non ha detto “capire”) a comportarsi di conseguenza, vuol dire che sapeva bene i nostri limiti, non tanto intellettivi, ma puramente umani. Già in precedenza se n’era uscito con l’espressione “avrei ancora tante altre cose da dirvi, ma non sareste in grado di comprenderle”: oggi ne abbiamo la conferma. Allora, che si fa? La fede ci insegna che dobbiamo “eseguire”, il resto lasciamolo fare allo Spirito Santo. Non è certamente un modo per lavarsene le mani, anzi, l’osservanza della parola è un impegno bello e buono che investe tutta la nostra capacità di discernimento, ma è l’unico modo per dimostrare amore a Chi ha dato la vita per salvarci. Se saremo coerenti e fedeli, Dio prenderà dimora in noi, dice il vangelo di oggi, e pertanto sarà sicuro il nostro passo. Occhio però a non far confusione e a pensare che se le cose non vanno come noi vorremmo significa che Padre e Figlio stanno pensando ad altro: non faremmo che scimmiottare Tommaso. È curiosa la frase che Gesù dice a un certo punto: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi..”. Com’è la pace del mondo? È una pace “armata”, frutto di una non belligeranza di convenienza, un sedersi a trattare con il coltello sotto il tavolo. Non c’è trasporto, non c’è gratuità, non c’è disponibilità. Quella che ci viene da Gesù è “semplicemente” amore. Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato, ricordavamo domenica scorsa, e il nodo sta tutto su quel “come”. È dura? Non ce la facciamo? È più forte di noi? E allora possiamo lasciare aperte tutte le porte che vogliamo, ma che la Trinità scelga noi come sua dimora sarà molto improbabile.
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