Inserito il 30 Dicembre 2018 alle ore 08:06 da Plinio Borghi
Guardare alla Santa Famiglia oggi come oggi sembra quasi un paradosso. Da un lato sono tali e tanti i fattori che hanno concorso a modificare il concetto di famiglia che riesce difficile fare paragoni con passati così remoti; d’altro canto “santa” è percepito in modo così distorto da ritenere più vicini Marte e Terra che una famiglia delle nostre a simile definizione. Fosse una questione di lana caprina, si potrebbe sorvolare, ma il guaio è che sganciarsi da un riferimento che non è affatto irraggiungibile porta a essere ondivaghi o addirittura ad assumere modelli negativi, nella convinzione che siano rimasti gli unici accessibili. Il livello di guardia, allora, si abbassa alquanto e i continui fenomeni diseducanti ai quali assistiamo sono il risultato di questo processo. Per rimuovere alibi di comodo diciamo intanto che la santità è alla portata di chiunque: basta vivere il proprio tempo in maniera positiva, concreta, corretta, coraggiosa se non eroica e l’obiettivo è raggiunto. In buona sostanza non vale essere passivi e rinunciatari: il ruolo di genitore va esercitato in modo deciso e autorevole; il figlio s’impegni a crescere per diventare autonomo, non contro qualcuno, ma per costruire un avvenire sempre nuovo e diverso; altrimenti avremo genitori debosciati e figli destinati a diventarlo. Crediamo forse che Gesù, Giuseppe e Maria vivessero in un mondo di fate e ippogrifi? Hanno avuto pur essi delle belle gatte da pelare, prima per accettare una situazione fuori dalle righe e poi per gestirla. Non risulta che Gesù da piccolo non sia stato anche un po’ discolo (basti vedere dal vangelo di oggi lo scherzetto che ha giocato ai genitori) e che Giuseppe e Maria non abbiano esercitato la loro autorità su di lui, pur sapendo chi era: sennò perché sarebbero stati chiamati in causa? Nella sua infinita sapienza, Dio non poteva trovare altre vie per la salvezza? Furono genitori protettivi e attenti fino in fondo, dalla fuga in Egitto per scampare all’eccidio di Erode alla vita in famiglia per insegnare al figlio il mestiere. E anche dopo, iniziata la predicazione, Maria è stata un riferimento per il Maestro e ha seguito il figlio nelle sue performance, tanto che durante un discorso, lo interruppero dicendo che madre e fratelli lo stavano cercando. Certo, anche Maria non poteva aver capito tutta la portata del progetto divino, ma, come riporta Luca nei due brani di oggi e di capodanno, ha saputo essere mamma perfettamente imitabile “serbando tutte queste cose nel suo cuore”, ma senza rinunciare alla sua autorevolezza. Imitate gente, imitate. (Auguri di un buon 2019)
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Inserito il 23 Dicembre 2018 alle ore 08:04 da Plinio Borghi
Buon Natale Erode. È il titolo d’un pezzo scritto dal nostro ex collaboratore domenicale don Luigi Trevisiol, che tutti ricordiamo come fosse preciso, diretto e pungente, oltre che conciso, nel suo dire e nello scrivere. Da giovane lo era ancor di più e, già parroco di Torre di Fine, ha anche pagato care la sua chiarezza e l’esigenza di schierarsi. Il pezzo è del gennaio 1973, pubblicato con lo pseudonimo di “Apolide” su “Segno sette nel mondo”. Mi piace riproporlo, almeno per la parte che riveste tuttora motivi di attualità: “Com’è lontana nel tempo quella notte santa in cui i pastori furono svegliati nella notte dall’annuncio di una grande gioia! In un mondo più povero, più ingiusto di oggi, se vogliamo, era nata una speranza fragile come un bambino in culla. Un bambino che tutti ci affrettammo ad uccidere. Oggi il bambino sembra non nascere più. I pastori vengono dirottati da abili cornamuse verso i grandi magazzini, per esservi derubati dei loro miseri risparmi. Erode indice libere elezioni, viene democraticamente rieletto e organizza in tutto il mondo la sua festa alternativa. Mai si è avuto un natale così freddo e senza speranza, neanche ai tempi di barbarie e di guerra; mai il sopruso e la confusione hanno tenuto banco come oggi, riuscendo per di più a strappare gli applausi del pubblico. Perché, prima, l’ingiustizia era manifesta, era la legge del più forte: il povero la subiva, soccombeva, ma la speranza non era assassinata. Oggi ormai l’attesa del povero viene svuotata dall’interno, ripagata malamente col prezzo banale di oggetti di paccottiglia e infine derisa. La coscienza stessa è narcotizzata. Al suo posto ci ritroviamo un panettone o un brandy”. Tralascio gli esempi con riferimenti a fatti e personaggi dell’epoca, che possono, tuttavia, essere sostituiti con quelli di oggi; non ci manca la materia prima o di sapere dove dirigere i nostri strali: ovunque, dalla politica alla società, sempre più distanti fra loro, dalla mafia alla malavita organizzata, dalla Chiesa combattuta al suo interno alle coperture di comodo e opportunistiche. Ce n’è da gridare ancora “Buon Natale Erode”. Ci sono ancora emarginati e immigrazioni, popoli oppressi e costruttori di muri. Usciamo pure dall’Europa, per non sbilanciarci, ma ogni riferimento a Trump non è casuale. “Buon Natale Erode”. L’articolo del nostro così prosegue: “Ma nonostante questo, malgrado l’apparente trionfo dell’ingiustizia e della stupidità, …, il Bambino nasce ancora. Fuori dall’occhio indiscreto delle telecamere … nasce ed è subito sulla via dell’esilio. Sulle strade dei nomadi e degli emigranti. Vive misconosciuto nella sofferenza delle masse … . Bada, Erode, il Bambino è nato. La tua fine è segnata”. E comunque, Buon Natale a tutti.
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Inserito il 16 Dicembre 2018 alle ore 08:01 da Plinio Borghi
E noi? Come investire l’attesa? Sembra una domanda da finti tonti, del genere cui ricorriamo quando sappiamo benissimo come dovremmo muoverci, ma non ne siamo invogliati e vorremmo svicolare. Fingere di non capire fa parte della grande famiglia delle risposte elusive, come quella di chi non ha nulla da fare, ma se gli domandi una mano ti risponde che non ha tempo. È una furbizia sociale che non trova particolari collocazioni temporali e ambientali, visto che anche ai tempi di Giovanni il Battista si esibivano spudoratamente in questo modo. Il precursore del Messia predicava la conversione. Sarà mica difficile afferrare un concetto che mettiamo in pratica non so quante volte al giorno, quando abbiamo ripensamenti, quando cambiamo più di idea che di camicia o pensiamo di fare una cosa e poi ci buttiamo su tutt’altro. Con l’arrivo dell’automobile, poi, l’abbiamo acquisito in modo strutturale come manovra (la nota conversione a U), consentita o proibita a seconda dei casi. La risposta ora sta nelle stesse indicazioni stradali introdotte con la realizzazione delle rotonde: “Inversione di marcia a metri …”. Ma va!? Nella nostra tendenziale grettezza e nel proverbiale egocentrismo, messi con le spalle al muro, “facciamo finta di pomi”. E probabilmente è quello che avrà pensato lo stesso Giovanni, quando ha risposto alla domanda delle folle con indicazioni molto semplici, quasi lapalissiane, se a quei tempi monsieur de La Palisse fosse già esistito: “Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto. … Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato. … Non maltrattate e non estorcete nulla a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”. Cose scontate che dovrebbero già appartenere a comportamenti normali e corretti, ma che evidentemente non lo erano in quelli degli interroganti. Attenti, però. Anche se siamo abbastanza in linea o crediamo di esserlo, che non ci scappi di mettere i soldi sotto il materasso convinti che si moltiplichino da soli: c’è sempre da investire, se non si vuol perderci, e quindi c’è sempre qualcosa da raddrizzare, se vogliamo dare un senso anche a questo Natale. Giovanni gridava nel deserto, ma non parlava a vanvera e soprattutto non si rivolgeva a pochi diseredati, bensì a tutti. L’arrivo di Colui che non avrebbe più battezzato solo con acqua, ma anche con Spirito Santo e fuoco, è di interesse universale.
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Inserito il 9 Dicembre 2018 alle ore 08:35 da Plinio Borghi
Maria, una che sa attendere. Non c’è dubbio. E non perché abbia avuto una gravidanza particolare: aspettare un bimbo è l’attesa più bella, più costruttiva e meno dispersiva che ci possa essere, a proposito di quanto si diceva domenica scorsa, ma è una caratteristica che appartiene a tutte le donne e Maria non fa eccezione. Il fatto è che la sua gravidanza non ha avuto lo stesso percorso delle altre e lei non era strutturalmente una super donna: aveva “solo” una grande fede, che si è tramutata in una inimitabile disponibilità. Tutto ciò ha inciso non poco sulla sua attesa, riempita fin da subito con lo slancio di andare ad aiutare la cugina, molto più vecchia di lei e non certo a due passi da casa sua; in secondo luogo ha dovuto affrontare una situazione sociale non da poco, specie per quei tempi, tanto che l’Angelo è stato costretto ad intervenire anche su Giuseppe, altrimenti col fischio che sarebbe passata liscia. Non ultima, c’è stata la metabolizzazione dell’evento per eccellenza, non acquisibile ovviamente a livello razionale, processo che l’ha vista impegnata non solo in quei nove mesi, ma anche ben oltre: la fuga in Egitto, gli anni trascorsi colà aspettando la morte di Erode, l’infanzia di Gesù con l’episodio del ritrovamento al tempio, la giovinezza del Figlio, convissuto fino ai trent’anni, con l’ansia di conoscerne l’epilogo, la predicazione e lo strazio della sua morte. Ne ha riempito di burroni Maria in tutto questo tempo, ne ha abbassato di monti e colli, ne ha raddrizzate di vie tortuose e spianate di impervie per prepararsi prima alla nascita e poi alla comprensione. Oserei dire che il momento topico della sua attesa è stato proprio la Pentecoste, quando si è ritrovata nel cenacolo con tutti gli altri. Altrimenti che senso avrebbe avuto per lei ricevere ancora lo Spirito Santo? Ecco perché, in occasione della sua festa come scrigno “pieno di grazia”, che cade proprio a ridosso della seconda domenica d’Avvento, fra i tanti messaggi ci lancia anche quello di come imparare ad attendere in modo costruttivo e con tanta, infinita pazienza, perché grande è il premio che ci aspetta: la conoscenza del Salvatore, nostro e di tutti. In un’epoca in cui il consumismo è all’esasperazione, l’usa e getta è diventato la prassi più comune e la distrazione vuota e generica svilisce qualsiasi tensione culturale, complici gli strumenti mass mediatici, un invito alla calma, a bandire l’insofferenza, a guardare senza fretta al Cristo che viene, è balsamo salutare.
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Inserito il 2 Dicembre 2018 alle ore 09:03 da Plinio Borghi
Un Avvento proprio a fagiolo che riflette l’attesa che c’è anche nella situazione politica del Paese. Come andrà a finire? Penso che nemmeno la fattucchiera con la sfera di cristallo sia in grado di azzardare presagi, tali sono gli elementi di novità innescati da marzo in qua. C’è nell’aria una certa apprensione, vieppiù accentuata da tutte le contraddizioni che si sono verificate finora (la controversa vicenda del ponte di Genova non è che uno dei tanti esempi). Questo dà modo di constatare cosa significhi in concreto vivere un’attesa in ogni caso foriera di novità. Se poi allargassimo un po’ l’ottica alla nostra vita in generale, ci accorgeremmo che parecchio del nostro tempo è dedicato all’attesa, di qualcuno o di qualcosa, atteggiamento a volte produttivo, quando il tutto è programmato e quindi si occupa il tempo con altre incombenze, ma tante altre volte inerte e inutile: i lunghi soggiorni nelle sale d’aspetto, le code eccessive in strada o alle casse del supermercato, alle fermate dell’autobus che non arriva o in casa per il rientro a cena del solito ritardatario e così via. Quel che snerva è quando il fenomeno è attribuibile a lentezze burocratiche o, peggio, ad una colpevole e cattiva organizzazione; non parliamo poi delle pretese velleitarie che inducono a tentativi inutili destinati a fallire e a dover rifare tutto daccapo. Nulla di tutto ciò ha a che fare, per fortuna, con l’Avvento liturgico che ci apprestiamo a vivere, tranne una sana e attiva apprensione. Dice: “Ma se sappiamo già Chi attendiamo, come arriverà e con quale scopo, cosa serve ogni volta riproporre l’attesa? Non siamo in presenza di un mero fatto rituale?”. Banalmente sarebbe da rispondere che anche far da mangiare tutti i giorni non dovrebbe destare aspettative particolari, eppure ci si sforza per far sempre meglio e si pregusta quello che sarà il frutto del nostro impegno. Ogni anno che passa anche noi siamo diversi, migliori (si spera) o peggiori e comunque cresciuti; il messaggio che da duemila anni ci arriva è sempre lo stesso, ma trova terreno nuovo su cui agire. Non è un caso che nel Vangelo, pur passando dal percorso con Marco a quello con Luca, l’ultimo brano e il primo dei due anni liturgici che si susseguono abbiano gli stessi argomenti e il medesimo taglio apocalittico: l’uno rivolto alla venuta e l’altro al ritorno di Gesù. Dovrà essere quindi anche stavolta un Natale ex novo e tutto da impostare, proprio tramite un’attesa attiva e apprensiva e, possibilmente, con poche distrazioni.
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Inserito il 25 Novembre 2018 alle ore 08:51 da Plinio Borghi
Mai ossimoro fu più sublime! E mai così reale da perdere la sua antitesi. Un re venuto per servire! Fino all’ultimo Gesù ci sorprende con lezioni di vita: per regnare bisogna prima imparare a servire; l’autorità ti deriva dal metterti a servizio degli altri; per poter comandare bene occorre esercitarsi all’obbedienza. E in effetti sono indirizzi che i più accorti si peritano di mettere in pratica, innanzitutto perché è vero e poi anche in termini strumentali: quanto più credibilità acquista chi si appresta ad assumersi responsabilità dopo aver fatto la sua bella gavetta! A noi cristiani, tuttavia, non è dato di strumentalizzare alcunché, perché il nostro Maestro ce lo dice da sempre: siamo chiamati ad essere in questo mondo elementi di contraddizione e la sua predicazione, a partire dalle cosiddette “beatitudini”, riflette questa impostazione. D’altronde, se il Messia fosse venuto per allinearsi all’andazzo corrente, che senso avrebbe avuto? Certo, tutti pensavano ad un conquistatore, ad uno che riscattasse il suo popolo dal giogo, che si facesse re nel senso materiale del termine, tant’è che su questa accusa hanno giocato anche coloro che lo volevano morto e il vangelo di oggi riprende proprio il dialogo con Ponzio Pilato sull’argomento. Gesù però s’è rivelato di tutt’altra pasta e con prospettive ben diverse, puntando ad un trono tutto particolare, come la croce. L’ha fatto per liberarci dal vero giogo, quello del peccato, e per farci conquistare il vero Regno, quello dei cieli; però non è stato un gesto puramente gratuito: in cambio dobbiamo ricondurgli tutti i regni terreni, tutti devono riconoscere in lui il vero Re dell’universo. Nel tempo più di qualcuno, anche di quelli che credevano di aver capito tutto, ha pensato di doverlo fare a fil di spada, travisando lo spirito della missione, che è diffondere la lieta novella fino ai confini del mondo. Come? Amando (la famosa sintesi di tutti i precetti) e servendo (da questo capiranno che siete miei discepoli). Guardiamo ai genitori in famiglia: amano e servono, perciò hanno anche l’autorità (o almeno dovrebbero averla). Altrimenti non saremo segno di contraddizione, ma contraddittori con noi stessi, e la conquista del regno, almeno per noi, si farebbe sempre più lontana. Concludiamo l’anno liturgico con quella bella frase della colletta alternativa di oggi: “O Dio, … illumina il nostro spirito, perché comprendiamo che servire è regnare, e con la vita donata ai fratelli confessiamo la nostra fedeltà a Cristo, primogenito dei morti e dominatore di tutti i potenti della terra”.
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Inserito il 18 Novembre 2018 alle ore 10:53 da Plinio Borghi
Gesù come il cameriere: l’ha detto lui stesso che è venuto per servire. E alla fine torna per presentare il conto. Se abbiamo accettato i suoi suggerimenti e ordinato il menù della casa controllato e garantito, è facile che ne usciamo soddisfatti e che l’onere sia proporzionato. Se invece abbiamo voluto fare di testa nostra e ordinato “alla carta”, spaziando con sicumera dalla pietanza sofisticata al vino più pregiato, certamente il prezzo sarà salato e non ci sarà spazio di contrattazione. Hai voglia di cominciare con le lagnanze o col “io non sapevo” ovvero “nessuno me l’aveva detto”!! Tanto più che abbiamo sicuramente a che fare con un “trattore” onesto e corretto, ma soprattutto credibile, al contrario di certi marpioni cattura turisti di cui sentiamo troppo spesso parlare in giro. “La fiducia è una cosa seria e si dà alle persone serie”, tuonava molto tempo fa uno slogan pubblicitario, e nessuno più del nostro Salvatore Gesù Cristo può vantare garanzie maggiori. Siamo alle battute finali del discorso escatologico di Marco e alla conclusione del nostro percorso con questo evangelista; ma non è il quadro dei fenomeni preconizzati dal Maestro per la fine del mondo che ci deve preoccupare: con ogni probabilità non saremo noi ad assistervi e anche se fosse, visto che non è dato a nessuno di sapere quando, a quel punto non ci possiamo fare granché. Conta piuttosto acquisire che la garanzia della seconda venuta del Figlio dell’Uomo sancirà “l’assetto” definitivo del Regno dei cieli. Al di là della ritualità descritta da Matteo, non ci sarà alcun processo né margine alcuno di recupero: quel che è stato è stato, ogni regno di questo mondo sarà ricondotto al Padre e, ormai fuori dal concetto del tempo come ora lo conosciamo, assisteremo all’epilogo della grande Missione di salvezza, assumendo anche il nostro corpo in forma gloriosa (la cosiddetta resurrezione dei morti). Lo professiamo sempre recitando il Credo ed è questa la certezza che ci è data e sulla quale riponiamo appunto tutta la nostra fiducia. Che fare allora? Adagiarsi aspettando che il destino si compia e che i tempi facciano il loro corso? Giammai, ci dice il Messia, piuttosto state pronti e all’erta, perché c’è un momento ben preciso in cui saremo vagliati, ma nessuno, tranne il Padre, è a conoscenza del giorno e dell’ora; cavoli nostri se saremo colti impreparati. Quindi altro che adagiati: vigili è la parola giusta!
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Inserito il 11 Novembre 2018 alle ore 09:37 da Plinio Borghi
Il pericolo dell’ostentazione s’insinua sempre in modo subdolo, soprattutto in chi presume di comportarsi correttamente, di essere a posto con la sua coscienza, di osservare pedissequamente le regole e in ispecie se per queste ragioni è oggetto di apprezzamento e di lode. Il rischio non risparmia alcuna categoria di persone, ed è sotto gli occhi di tutti come, nell’eventualità di una caduta, si inneschi un lento e inarrestabile processo di trasformazione nel modo di fare, di vestire, di parlare, di atteggiarsi e perfino di intervenire platealmente nelle opere di bene e di carità. Addurre esempi è superfluo: sono cose sono sotto gli occhi di tutti e ognuno ne potrebbe presentare a iosa. Piuttosto, poniamoci un quesito: approfitteranno simili persone del consenso e dell’ammirazione che riscuotono per camuffare le loro scorribande peccaminose? Ancora: useranno dell’ostentazione per fregare il prossimo debole e indifeso? Domande ovviamente retoriche, alle quali Gesù, proprio nel vangelo di oggi, ha già dato risposta con una calda raccomandazione: guardatevi da costoro! E che c’azzecca tutto ciò con il percorso escatologico che stiamo facendo in questo scorcio di fine anno liturgico? Ce lo spiega il nostro Maestro subito dopo, quando, fermatosi nel tempio davanti ai fedeli che gettavano monete nel tesoro quasi gareggiando a chi le faceva tintinnare di più, indicò ai suoi discepoli decisamente una povera vedova che, alienati pochi spiccioli senza tanto rumore, si era privata di tutto ciò che aveva. Non è con la quantità che possiamo sperare di guadagnare un posto al banchetto celeste, bensì con la qualità del sacrificio compiuto, che sarà il metro di misura del nostro livello di amore profuso. Far luogo alle opere di misericordia con fare paternalistico e spremendosi quel tanto che basta, quindi, non serve a guadagnare punti: occorre metterci il cuore. È vero che, in punta di battuta, se il buon Samaritano non avesse avuto i soldi non avrebbe potuto soccorrere il poveraccio, ma è il come l’ha fatto che l’ha messo in luce. È chiaro che Dio odia l’ostentazione e nel vangelo del mercoledì delle ceneri, quando richiama alla penitenza, lo dice chiaramente: non atteggiatevi a smunti per far vedere che digiunate e quando pregate fatelo nell’intimo del vostro cuore, perché è là che Egli vi sentirà. Sembra facile, tutto sommato, schivi come siamo nel manifestare la nostra religiosità, ma non è così: è come avere un bel vestito nuovo da sfoggiare e ci venga richiesto di tenerlo nell’armadio. È dura, ma la strada è questa.
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Inserito il 4 Novembre 2018 alle ore 10:02 da Plinio Borghi
Un grido di speranza (II parte). Come farà il nostro grido ad essere forte e realmente pregno di speranza? Il percorso liturgico dei primi due giorni di questo mese l’ha raccontato in tutte le salse, perché è andato a ripescare tutte le letture che si rifanno ai capisaldi della nostra salvezza, Apocalisse compresa. In teoria il punto di arrivo, la vera sintesi di quali siano i binari che fanno correre la nostra vita nella giusta direzione è oggi, quando nel vangelo ci viene riproposto il dialogo di Gesù con lo scriba. Non è un fatto puramente strutturale che le tre virtù teologali siano la fede, la speranza e la carità. È una questione vitale: nessuna di esse può prescindere dalle altre due. Non c’è speranza se la fede non è vera, magari meno di un granello di senapa, ma vera; non esiste fede che non sia sostanziata dalla carità, come ci continua a ricordare San Paolo: se anche avessimo la fede, senza carità saremmo come bronzi che suonano a vuoto. E la carità ci consente di sperare, appunto perché su quella saremo pesati, come vedremo ancora nelle prossime domeniche di questo percorso escatologico. Ecco che di tutte le norme comportamentali, gonfiatesi nel tempo, Gesù fa un concentrato unico: ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e tutta la tua forza; amerai il prossimo tuo come te stesso. Sfido chiunque a trovare un sano principio che non rientri in questo alveo o un comportamento men che lecito che non strida con queste semplici ma complete direttive. Lo stesso scriba riconosce al Maestro che ciò vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici. Purtroppo è nella nostra natura saper deragliare anche dai binari più sicuri e andare allo sbaraglio come ciechi, ma se ci ravvediamo nessuno ci prende a calci: l’infinita misericordia di Dio è reale e il suo altrettanto infinito amore non vuole che nessuno si perda. Tuttavia, Egli deve udire il nostro grido di speranza, come ha fatto Gesù con Bartimeo, il cieco di domenica scorsa, grido che non può prescindere dal rimetterci in carreggiata ovvero sui binari suddetti. Guai se al momento topico dovessimo essere colti fuori dal tracciato! La sequela di Cristo, che consiste nel mettere in pratica il Vangelo, sarà la giusta garanzia per mantenerci saldi onde evitare di continuare a deragliare con facilità. Se così sarà, anche noi, come lo scriba, riceveremo il riconoscimento di saggezza e il conforto della sua valutazione: “Non sei lontano dal regno di Dio”.
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Inserito il 28 Ottobre 2018 alle ore 15:49 da Plinio Borghi
Un grido di speranza (I parte). Da oggi alla fine dell’anno liturgico saremo sostanzialmente proiettati nella sfera escatologica, che include i cosiddetti “Novissimi”: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. A contribuire alla riflessione sull’epilogo della nostra fede contribuiscono il giorno di tutti i Santi e quello della commemorazione dei defunti, divisi in due momenti più per nostre questioni pratiche (abbiamo bisogno di invocare da una parte l’intercessione dei santi e dall’altra di dedicarci alla preghiera per i nostri cari) che per motivi reali: le anime in Paradiso e quelle in Purgatorio sono parimenti sante e parimenti intercedono per noi, anche se quest’ultime hanno ancora bisogno del suffragio per raggiungere la gioia piena dell’incontro col Padre. Orbene, da quale condizione ci libera la morte? Prima di tutto da quella umana, legata alla natura del nostro corpo e alla debolezza che ci induce al peccato; il quale a sua volta ci rende ciechi, come il povero Bartimeo, il protagonista del vangelo di oggi. Siamo all’ultimo miracolo raccontato da Marco e penso non sia un caso che la liturgia ce l’abbia collocato proprio in questo arco di tempo. Il malcapitato grida appena sente arrivare il Nazareno, invoca insistentemente la sua pietà, nonostante i seguaci tentino di zittirlo. Il suo è un grido di speranza, presume di avere una carta importante da giocare: se gli sfugge quest’occasione, non gliene capita un’altra simile. Egli ci insegna che solo la fede può riscattarlo dalla sua condizione di cecità, che lo costringe a brancolare nel buio. Gesù avverte questa tensione e lo fa chiamare. Il fatto ci offre motivo di consolazione a conferma della rassicurazione che il nostro Salvatore ci ha più volte data: se insistiamo nel chiedere, il Padre non rimane insensibile. Certo, farlo da disperati non ha effetto. Solo una speranza, quella che dà certezza, è tale da garantirci. Un’ultima notazione dell’evangelista: Bartimeo, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Il mantello era tutto ciò che possedeva. Non sa ancora cosa succederà, ma la certezza è tale che d’un balzo lascia tutto. Quale abisso con l’atteggiamento del giovane ricco di due settimane fa! “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Ma l’ex cieco non va e, senza girarsi indietro, prende a seguire il Messia. Otterremo anche noi lo stesso lasciapassare al momento del giudizio particolare? Dipende da quanto forte e reale sarà stato il nostro grido di speranza.
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