Inserito il 27 Febbraio 2022 alle ore 10:03 da Plinio Borghi
Pandemia, social e falsi maestri: tre ingredienti che hanno reso ancor più attuale, se ce ne fosse bisogno, il vangelo di oggi. Fino a ieri, in linea di massima, se si rompeva la macchina ci si rivolgeva al meccanico o se si stava male si andava dal medico e, sempre in linea di massima, ci si fidava dei referenti seguendone indicazioni, consigli e prescrizioni. È vero che caratterialmente tendiamo a discutere su tutto e di tutto e che ci improvvisiamo esperti di qualsiasi cosa, ma se le cose diventano serie prevale il senso di responsabilità e di norma ci affidiamo alle competenze. È anche vero che è sempre esistito chi è ricorso a guru, guaritori e fattucchiere varie, ma l’ha fatto con tanto riserbo personale. L’avvento dei social ha alquanto scardinato tale logica, amplificando gli effetti di quelle manie di protagonismo che prima si limitavano al chiacchiericcio da osteria o da salotto ovvero che si esaurivano in gruppi ristretti. Peggio, si sono innescate in chi si fa irretire dal sistema una perdita totale del senso critico e un’aggressività nei confronti di chi prende le distanze e lo abbiamo constatato in particolare in questo lungo periodo di pandemia. Ci auguravamo di uscirne migliori, ma mi sa che, ben che vada, raccoglieremo tanti cocci. Gesù, nel brano in lettura, mette in campo un po’ di concetti che, nel tempo, sono quasi diventati dei mantra, tanto erano scontati e riscontrabili. Può un cieco guidare un altro cieco? È chiara la messa in guardia dai falsi maestri che, sapendo di mentire e spesso con palesi obiettivi di strumentalizzazione, pretendono di convincere “chi non capisce come stanno le cose”. Sulla medesima lunghezza d’onda ci arriva l’invito a non guardare la pagliuzza nell’occhio altrui, quando noi siamo obnubilati dalla trave che c’è nel nostro: questo dovrebbe bastare quanto meno a mettere da parte le tentazioni di aggressività che la nostra supponenza, magari infarcita di storture, genera. Come fare allora a regolarsi? A chi credere? La metafora più scontata ci viene dai frutti dell’albero: se la pianta è buona, il suo prodotto è conseguente. Sta a noi saper distinguerne la qualità. Qui ci sarebbe un lungo discorso da aprire su chi sa solo incitare a “non fare”, il negazionista per partito preso, senza proporti alternative valide. Dal nostro Maestro ci arriva un buon metodo: guardare al cuore delle persone, perché le parole che escono ne riflettono la bontà o la cattiveria che sovrabbondano. Invochiamo allora con la colletta il Signore perché sani i nostri cuori divisi.
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Inserito il 20 Febbraio 2022 alle ore 10:03 da Plinio Borghi
Andare contro corrente, assumere un atteggiamento anticonformista, è per parecchi un vezzo che stimola a prescindere dai sentimenti reali e questo è un guaio, perché si corre il rischio da un lato di limitarsi a quel che si vuol apparire, e sarebbe il meno, e dall’altro di svilire quel poco di buono che c’è nelle impostazioni che si adottano. In buona sostanza si cade nel diffuso equivoco di predicare bene e razzolare male, pratica che spicca in modo particolare negli ambienti politici. Qui non si tratta di ostacolare il flusso dell’andazzo generale: non si riuscirebbe a resistere a lungo; vanno invece invertite le logiche che lo reggono e il prezzo richiesto, sul piano personale e sociale, è sempre pesante. Si riesce a farvi fronte se le argomentazioni tengono, ma soprattutto se sono sostenute da una convinzione percepita, che non si squaglia come neve al sole alla prima opportunità più “comoda” che si presenta. Ancora una volta, ci è maestro sublime in tutto ciò proprio Gesù, che nel vangelo di oggi ci presenta una logica così immediata e stringente che difficilmente può prestarsi all’equivoco. E parte decisamente con un uppercut allo stomaco da far impallidire qualsiasi “radical chic” travestito di ogni tempo: “amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, pregate per coloro che vi maltrattano”. Decisamente troppo e posizione ineludibile. D’altra parte, tutto il messaggio di salvezza ha tale impostazione, a chi si pone alla sequela del Cristo si chiede di essere momento di contraddizione, un’inversione di marcia rispetto al pensiero comune e lo stesso Messia si perita di spiegare il perché nel brano in lettura: se amate solo chi vi ama che novità proponete?, e se fate del bene solo a chi ve ne fa, che merito pensate di guadagnare?, e se date solo nella speranza di essere ricambiati di quale generosità andate cianciando? Anche quelli che vorreste conquistare alla causa fanno così. Sembrano norme elementari e la logica è stringente, ma non è facile. Ma Gesù non si accontenta, anzi, insiste e qui forse un po’ esagera: a chi ti percuote porgi anche l’altra guancia, a chi ti ruba il mantello dà anche la tunica che indossi e così via, tutti detti che conosciamo bene, ma che siamo poco propensi ad accettare senza pensare di perdere la nostra personalità, le nostre prerogative, il carattere “forte” che teniamo ad esibire. Eppure… sarà proprio la nostra apparente debolezza a farci riscuotere tutta la nostra credibilità di cristiani.
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Inserito il 13 Febbraio 2022 alle ore 10:05 da Plinio Borghi
Il denaro non fa la felicità. È un luogo comune al quale il più scafato è pronto a rispondere: “Ma aiuta!”. Certo, però né la botta né la risposta colgono appieno il senso delle rispettive espressioni, perché ci si ferma all’oggetto come tale, ma non alla sua funzione. Ben pochi sono coloro ai quali i soldi in sè non interessano e d’altra parte oggi rappresentano nei fatti l’unico mezzo di scambio per ottenere tutto ciò che ci serve, compresa la felicità, se rimangono un mezzo. Ma siccome l’appetito vien mangiando, il pericolo è che si tramutino in un fine e allora si crea quello stato di tensione e di ansia che non corrisponde più a quella felicità che, per sua natura, è sinonimo di appagamento e di tranquillità. Il discorso ovviamente non vale solo per denaro, ma anche per tutte le cose effimere cui aneliamo e che perseguiamo perdendo di vista obiettivi di vita più alti e qualificanti. Oggi la liturgia, nel riproporre il tema delle Beatitudini, ce ne indica alcuni, anche se apparentemente in contro tendenza, ma ci mostra pure un Gesù che sembra ce l’abbia con i ricchi, in quanto tali. In effetti non è così e il riferimento alla ricchezza concerne tutte quelle cose che non vengono da Dio, ma ammaliano l’uomo che finisce per confidarvi fino a rimanerne invischiato. Ricchezza è anche l’eccessiva sazietà (guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame), alla goduria incontrollata e disordinata (guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete), e potremmo aggiungere il successo, la carriera, il potere, il prestigio e tutte quelle cose che finiscono per sostituire le vere virtù nel nostro cuore. La prima lettura, dal libro di Geremia, inquadra bene l’argomento: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che ripone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore”. Il paragone col tamerisco della steppa, contrapposto all’albero piantato lungo l’acqua, dalla quale riceve sostegno e vitalità è rafforzativo. Sfido chiunque a dimostrare, al di là delle apparenze o di fatti marginali, di aver conosciuto esempi di felicità completa in chi ha dedicato l’esistenza volando basso. Invece ho visto molti che, pur avendo ceduto umanamente alle cose di questo mondo, hanno saputo poi riscattarsi investendo attenzione nei confronti dei più deboli e dei più emarginati, nel recupero del creato, nel ricercare la soddisfazione non nel plauso falso della gente, bensì nella genuina bene-dizione. Per costoro la “ricchezza” ha aiutato a fare la felicità.
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Inserito il 6 Febbraio 2022 alle ore 10:03 da Plinio Borghi
Era una pescata tanto necessaria? Viene spontaneo chiedersi se Gesù, per farsi riconoscere dai suoi come Messia, doveva ricorrere a quella lunga messa in scena, per poi alla fine ingaggiarli come “pescatori di uomini”, facendo lasciar loro tutto il frutto di cotanta fatica, oltre alle attrezzature e al mestiere. Sembra quasi che in certe circostanze, nel far luogo ai miracoli, il nostro Maestro privilegi indugiare sugli effetti speciali che non sulla sostanza delle cose, come quella volta che, dormendo o fingendo di dormire, li ha lasciati un bel po’ in balìa della tempesta, prima di calmare il vento e il mare e trovar modo di redarguirli per la loro scarsa fede. Tuttavia, nel Vangelo nulla è messo lì per riempire le righe, ma ogni risvolto ha un significato ben preciso e qui mi par di cogliere un motivo conduttore che presiede le chiamate di Gesù e qualifica le relative risposte: la prontezza e la messa in gioco di quanto contava fino a quel momento, fossero la ricchezza o gli affetti. Balzano alla mente i fatti del giovane ricco e di Zaccheo, come esempi diametralmente opposti, ma anche l’affermazione “chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me” ovvero “chi perde la vita a causa mia la guadagnerà” e via dicendo. Nella fattispecie, quindi, se l’invito fosse giunto a questi primi discepoli a reti vuote, forse più che un’adesione sarebbe parsa rassegnazione, della serie “ma sì, tanto qui non si prende niente e si vive a stento”, e invece a reti stracolme traspare tutto lo spessore della scelta radicale effettuata. Questo non significa che se uno ha poco o nulla da perdere e si pone alla sequela di Cristo abbia scarso merito, ci mancherebbe: quante situazioni sono nate anche da scelte di ripiego e poi hanno virato in vite esemplari e totalizzanti! Conta piuttosto calare la buona novella nella nostra esistenza in modo stravolgente, conta puntare con forza e determinazione alla conquista del Regno annunciato, farsi missionari e non adagiarsi come uno scontato trantran. Mercoledì ci è stato offerto un bell’esempio di tensione. Il vecchio Simeone, preso in braccio il Bambino che gli veniva presentato al Tempio, esclama: “ Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza!”. Il suo vissuto si è riempito di quell’attesa, poi appagata. E Maria? Quale ineguagliabile assunto di totale abbandono al disegno divino! Spunti ne abbiamo a iosa: impostiamoci di conseguenza.
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Inserito il 30 Gennaio 2022 alle ore 10:06 da Plinio Borghi
La verità mi fa male, lo so: così cantava qualche decina d’anni fa la nostra Caterina Caselli, senza inventare peraltro nulla di nuovo, vista la reazione di sdegno che Gesù ha provocato in Sinagoga quando ha rinfacciato il trattamento che il suo popolo aveva riservato ai vari profeti. In quel momento, pur presi dall’ammirazione per le sue discettazioni, stavano rivolgendo anche a lui i medesimi riguardi, cercando di sminuire la portata delle sue parole e di esautorarlo perché sapevano bene da che famiglia veniva. E qui il Messia ha coniato il famoso ed imperituro proverbio “nemo propheta in patria”, così pungente da causargli l’immediata aggressione degli astanti, che lo volevano buttare dal ciglio del monte dove lo avevano nel frattempo sospinto. Qui, se la cosa non fosse seria, saremmo alla più classica delle comiche: il Maestro si sfila dall’ammucchiata e se ne va. Non è dato di sapere se qualcun altro ci ha rimesso le penne al suo posto o con quale palmo di naso gli attori siano rimasti, ma di certo non se la sono messa via e riusciranno alla fine ad ottenere “per vie legali” quello che oggi avrebbero voluto con giustizia sommaria. Sarà ancora la verità l’input che indurrà gli accusatori a stracciarsi le vesti e Ponzio Pilato a lavarsene le mani, ma la conclusione non sarà diversa: Gesù si “sfilerà” anche dalla morte e stavolta la resurrezione non lascerà più spazio a rivalse, non solo, ma sancirà anche da che parte sta la verità e come essa risieda solamente nel nuovo messaggio portato dal Salvatore. La liturgia di oggi, quindi, ci offre un’anteprima del grande epilogo, ma ci interpella soprattutto sul piano della nostra refrattarietà nell’accettare la provocazione della verità, la quale il più delle volte pone in evidenza le nostre contraddizioni, ci mette a nudo, ci fa sentire a disagio, fino al punto di reagire con delle terribili botte alla già scarsa solidità della nostra fede. A noi non è concesso di trattare Gesù come gli ebrei trattarono i loro profeti o come saremmo portati a rispondere ai nostri simili quando ci scoprono gli altarini. Per adeguarci dobbiamo scrollarci di dosso le incrostazioni fatte di pregiudizi e presunzione, dobbiamo aprirci alla voglia di capire. Il canto al Vangelo di oggi è un grazie al Padre perché ai piccoli ha rivelato i misteri del regno dei cieli. Per diventare piccoli, tanto per usare un linguaggio più moderno, occorre “resettarci” per lasciare che il Signore possa caricare in noi la sua storia.
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Inserito il 23 Gennaio 2022 alle ore 10:05 da Plinio Borghi
Rompere il ghiaccio è spesso riferito al superamento di una situazione di stallo, all’apertura di un dialogo in difficoltà o al primo intervento in un dibattito dopo la relazione, ecc. Di solito è sufficiente per rimuovere l’impasse ed evolvere, specie se è lo spunto che mancava a un progetto che aspettava il momento buono per prendere il via. Né più né meno di quel che è successo a Gesù dopo la “forzatura” sul primo miracolo, compiuto alle nozze di Cana e ricordato domenica scorsa. Ormai, fosse giunta o no la sua ora, il dado era tratto, si era rivelato ai pochi intimi per quello che era, tutti credettero in lui e quindi non era più il caso di procrastinare l’annuncio del Regno e l’avvio del percorso di salvezza universale che era venuto a compiere. Sennonché in questo esordio ha pensato bene di saggiare il terreno circostante, quello in cui era sempre vissuto e certo non per timore bensì per avere un riscontro immediato del lieto annuncio che stava per fare. Succede di solito anche a noi: prima di imbarcarci in qualcosa di grosso e d’impegnativo, buttiamo l’amo nelle vicinanze, magari sfruttando qualche conoscenza o, se si tratta di un’idea, esprimendola negli ambienti che normalmente frequentiamo. Se vediamo che funziona, ci sentiamo più tranquilli nel compiere il balzo successivo. Non so se anche il nostro Maestro ha agito parimenti o se, per la fama che già godeva, avrà voluto tentare un affondo pure dalle sue parti, fatto sta che non ha trovato di meglio che approfittare della sua abituale frequenza in sinagoga per proclamare che in lui si stavano realizzando le profezie di Isaia. Mal gliene colse e lo vedremo domenica prossima. Ciò che interessa oggi è comunque l’imprimatur che ha voluto apporre alle sue azioni, delle quali ormai tutti erano pressoché consapevoli, gesto che serviva a contestualizzarle e a sublimarle a progetto divino, proprio per la loro consequenzialità a quanto i vari profeti nel corso degli anni avevano anticipato e di cui i suoi erano ora testimoni. Per quel che ci riguarda, noi, che siamo a conoscenza dei fatti e dell’epilogo, dobbiamo solo prendere atto che in Gesù si è sul serio realizzato l’intervento di riscatto che il Padre aveva promesso ai nostri progenitori disobbedienti, che Egli è veramente il Figlio da Lui inviato per realizzarlo al massimo livello e che stiamo effettuando nel Vangelo il percorso necessario alla sua completa affermazione, nel cammino missionario che ci è stato impartito.
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Inserito il 16 Gennaio 2022 alle ore 09:55 da Plinio Borghi
Vivacchiare o vivere? Domanda retorica: chi mai vuol accontentarsi di sopravvivere o di vivacchiare senza almeno tentare di fare il possibile per realizzarsi al meglio? Ci pensano già le avversità a segarti le gambe e a far sfumare tanti sogni che non c’è bisogno di tarparsi da soli anche le ali della speranza. In più, il senso di responsabilità ci obbliga a fare il massimo per corrispondere al dono della vita. D’altronde è anche una questione di buon senso: a fare le cose male si fa la stessa fatica che a farle bene, ma nel primo caso sarà sempre una pena infinita mentre nel secondo si apre l’evenienza di vivere anche di rendita. La vita è come il motore di un’automobile: a usarlo bene e a tenerlo allegro rende il mezzo sempre più prestante; ad abusarne o a trascurarlo finisci per arrancare e restare in panne. Perché tutta questa premessa? Perché noi cristiani abbiamo in serbo un’altra domanda retorica che riguarda l’altra vita che ci attende: può il Signore che vuole quanto sopra da noi non pretendere analoga tensione per entrare alla grande anche nel suo Regno? Ancor meglio, può Egli accontentarsi di un epilogo mediocre, con tutto quello che ha fatto e fa per introdurci in un banchetto ricco e abbondante? Certo che no ed è questo il segnale che mi par di cogliere dalla liturgia di oggi, che verte sul miracolo di Gesù alle nozze di Cana. Esordire con la “mera” trasformazione dell’acqua in vino, come lo si ricorda comunemente, sarebbe da effetti speciali. In realtà in quelle nozze ci siamo noi, in veste di convitati, ma anche nell’allegoria delle giare, che il Maestro fa riempire di acqua fino all’orlo. L’acqua è simbolo di quella felicità della quale saremo colmi, però la loro grandezza dipende da noi e da come avremo investito nella nostra esistenza. Pure nell’immagine della sposa ci siamo noi, come sua Chiesa e Lui è ovviamente lo Sposo, che alla fine ci riserva il vino più buono: al Messia non vanno le mezze misure, vuole il massimo, sulla scia del suo esempio che, per salvarci, non si è lesinato né facendosi povero (carne) come noi né versando fino all’ultima goccia di sangue per salvarci. Non abbiamo alibi per elusioni tattiche. L’episodio si conclude, infatti, con “manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in lui”. A latere, anche Maria esordisce nel suo ruolo d’interceditrice e siamo sempre noi quei servi ai quali ordina: “Fate quello che vi dirà”. È la chiave di lettura della lieta novella: appoggiamoci a Lei per interpretarla a dovere.
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Inserito il 9 Gennaio 2022 alle ore 10:02 da Plinio Borghi
Ricominciamo da tre. No, tranquilli, non ho alcuna intenzione di riesumare il già troppo supercitato Massimo Troisi e il suo film del 1981. Solo che la botta mi è venuta per associazione d’idee quando, in questa fase di chiusura delle festività natalizie, sono andato a leggermi l’antifona al Magnificat del giorno dell’Epifania: Tribus miracolis. Essa si rifà ai tre miracoli che la liturgia accomuna nella manifestazione di Gesù, nel suo rivelarsi per quello che è. Pur essendo i fatti ben a distanza di tempo fra loro, costituiscono un tutt’uno nella loro funzione di sostanziare la presenza fra noi del Messia, la cui venuta abbiamo appena celebrato. Ne abbiamo parlato ancora, ma non è male ricordare il principio generale che “il venire a conoscenza dei fatti” riveste la stessa importanza dei fatti stessi: la loro ignoranza equivale a come se non fossero mai accaduti. Perciò l’Epifania va celebrata alla pari del Natale: i Magi rappresentano il mondo che cerca il Salvatore e lo trova grazie alla stella che li guida fino a Betlemme. E questo è il primo miracolo. Il secondo lo stiamo celebrando oggi: il Battesimo di Gesù nel Giordano. I cieli si aprono di nuovo e la voce del Padre, accompagnata dalla “corporea” discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba, lo proclama suo Figlio e se ne compiace. È una doppia rivelazione: la realtà della Trinità e il progetto di salvezza già in atto. Son passati trent’anni nel nascondimento, ne potevano passare benissimo altrettanti, ma ora i tempi erano maturi. Più tardi, alle nozze di Cana, ci pensa Maria a innescare “anzitempo” il terzo miracolo, avanzando al Maestro una richiesta che non poteva rifiutarle: la trasformazione dell’acqua in vino (e pure buono!). “Donna, non è ancora giunta la mia ora”, le aveva appena risposto il Figlio. Lei lo dribbla rivolgendosi direttamente ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Oltre al miracolo, siamo al varo di due strumenti di fede ineludibili e imperituri: saremo salvi solo mettendo in pratica quanto il Redentore è venuto a dirci e il ruolo d’interceditrice della Madonna. Perché Gesù ha ceduto se non era la sua ora? Non lasciamoci fuorviare dall’idea che fosse tutta una manfrina, quasi un gioco delle parti, ma non cerchiamo nemmeno di capire: è un mistero, che il Santo Rosario comprende fra quelli della Luce, nel quale si completa il processo della manifestazione. Dopo non sarà più come prima. A noi spetta il compito di prenderne atto e di viverlo.
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Inserito il 2 Gennaio 2022 alle ore 10:04 da Plinio Borghi
Circoncisione e nome di Gesù erano un tempo le dedicazioni di queste due feste, l’una ricadente l’ottavo giorno dopo la nascita, quando le leggi ebraiche prescrivevano appunto il rito della circoncisione, e l’altra la domenica a ridosso, perché subito dopo era prevista l’attribuzione del nome al neonato. Probabilmente la liturgia di allora ha inteso dividere i due momenti, anche perché, nella fattispecie, riferiti a fonti distinte: c’era una sorta di tradizione da rispettare nel decidere il nome del nuovo arrivato, che prevedeva di attingerlo dal clan di appartenenza, ma anche qui, come nel caso di Giovanni Battista, “dall’alto” si era deciso altrimenti. Al momento dell’annunciazione l’Angelo disse a Maria che al bimbo che lei avrebbe concepito avrebbe dato il nome di Gesù, sinonimo di “salvezza”, e così è stato. Nomen omen, sarebbe il caso di dire e mi dispiace che la nuova impostazione abbia messo un po’ in secondo piano questi riferimenti che oltre a essere pregni di significato captavano con più immediatezza l’attenzione del fedele, com’è ancora per la presentazione al tempio del 2 febbraio. La circoncisione, in definitiva, non è solo un fatto storico, ma già la premessa di quel che il Messia affermerà più tardi e cioè di non essere venuto per stravolgere o eliminare la legge, bensì per perfezionarla; cosa che ha sostanziato nell’osservarla fin nei minimi particolari. Festeggiare il nome di Gesù poi non è un doppione rispetto all’avvio del progetto di salvezza che è il Natale, semmai la sua conferma in collegamento con un percorso che nella mente del Padre prende avvio sin dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Con questo non intendo sottrarre peso o valenza alle nuove dedicazioni: la festa di Maria Santissima Madre di Dio, anzi, ben riassume e rilancia i fatti in premessa, tanto che nel vangelo del giorno sono richiamati entrambi, come ritengo quanto mai consona la proclamazione in concomitanza della Giornata mondiale per la pace, tema di una attualità ineludibile. Idem per la liturgia odierna, che ripropone tout court il Prologo di Giovanni, letto proprio il giorno di Natale. Tuttavia, un po’ per forma mentis e un po’ per stimoli ancestrali, avendo vissuto la mia formazione in altra epoca, non ritengo che rinverdire in questi giorni quelle che furono le originali tematiche di questo periodo sia fuori luogo, considerato anche il lungo tempo che hanno tenuto banco, ma soprattutto l’utile ruolo di base storico-religiosa che continuano a ricoprire.
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Inserito il 26 Dicembre 2021 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Una forte esplosione di vita si percepisce quest’anno col Natale, per le circostanze che concorrono a determinarla, oltre all’evento in sé che basta e avanza per trasmetterla. Ogni nascita fa luogo a questa sensazione, perché è garanzia di continuità, di ripresa, di evoluzione. Figurarsi quella del Salvatore che, non è mai eccessivo ripeterlo, non stiamo ricordando ma vivendo. A rinforzo di tale clima, ci troviamo a ridosso anche la festa della Santa Famiglia, che senz’altro rende più tangibile il contesto nel quale Dio ha voluto collocare il progetto di salvezza dell’umanità: quale miglior riferimento può avere la nascita del Figlio se non quello di una Madre che ha dimostrato tutta la sua disponibilità e di un padre affidabile come Giuseppe? Senza contare che l’immagine che se ne ricava, come abbiamo più volte considerato, non è quella di una super famiglia, bensì quella di un normalissimo nucleo riscontrabile in qualsiasi tempo, anche moderno. Basta vedere il vangelo di oggi, che riporta l’episodio del ritrovamento di Gesù al tempio, dove stava discettando con i dottori: ordinaria apprensione e conseguente rimprovero trovano ferma risposta rivendicativa da parte del giovane quasi adolescente, come sarebbe successo a tutti, però non in modo dirompente. Qui il figlio torna a casa con i genitori e riprende a vivere a loro sottomesso, mentre la madre, con la sensibilità che ogni madre possiede, serba queste cose nel suo cuore, come rileva e non per la prima volta l’evangelista. Sono messaggi che ogni volta queste feste lanciano per spronarci a non complicarci la vita, da un lato, e dall’altro a non lasciare nemmeno che le cose ci scivolino sulle spalle. Un altro contributo al fenomeno vitale stavolta ci è offerto anche dagli alti e bassi della pandemia: privi di ogni altra divagazione e scottati dalle restrizioni passate, abbiamo scoperto che passare l’evento rispolverando la sua vera e originale valenza diventa un bel dono che in passato o avevamo relegato in fondo alla graduatoria o affrontavamo con eccessiva ritualità. Oggi stiamo riscoprendo sia la bellezza di poter partecipare alla liturgia, sia quella di apprezzare lo stare in famiglia, ormai unica risorsa di “evasione” apprezzabile. Il Natale che diventa “bene rifugio” sotto ogni aspetto. Stona che in questa esplosione di vita il pubblico dibattito sia preso da problemi come il suicidio assistito, ma tant’è. Speriamo che porti il consiglio giusto UN BUON, SANTO E FELICE NATALE!
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