Inserito il 19 Dicembre 2021 alle ore 09:55 da Plinio Borghi
L’attesa per noi volge al termine, ma la liturgia ci propone un fatto che la precede: la visita di Maria alla cugina Elisabetta. Sembrerebbe un fatto distonico e che forse avrebbe potuto trovare la sua più consona collocazione subito dopo l’Immacolata, quando l’evangelista descriveva l’annunciazione. Invece, e credo non sia fortuito, è in perfetta sintonia con le conclusioni che abbiamo tratto domenica scorsa: la gioia della prospettiva si coglie attraverso l’apertura agli altri con generosità e solidarietà. Sono proprio le ragioni per cui la giovane Donna incinta, che il moderno buon senso indurrebbe alla calma e al riposo per agevolare il procedimento della sua gravidanza, allora si mise in moto e percorse con mezzi di fortuna la bellezza di oltre 150 chilometri per andare ad accudire la parente ormai al sesto mese di gravidanza e non certo tanto giovane, come le aveva rivelato l’Angelo. Non si può definire una passeggiata, peraltro fra le montagne di Giuda. Fu comunque il preludio di un ruolo che la Madre del Salvatore avrebbe poi mantenuto per sempre: quello di esserci “aiuto” nelle difficoltà e non solo materiali. È altresì la dimostrazione concreta che l’occhio di riguardo nei confronti del prossimo non richiede grandi azioni di protagonismo o di eroismo, ma solo gesti semplici e pratici di estrema efficacia. Per noi, oggi, l’occasione è buona anche per consolidare la fede sulle circostanze dell’incarnazione: l’incontro fra le due cugine è prorotto in quel dialogo che è alla base delle due preghiere più belle che rivolgiamo alla Madonna: l’Ave Maria (che inizia col saluto stesso dell’Angelo) ed il Magnificat, un inno all’enorme e stravolgente potere che scaturisce dalla disponibilità. Ed è appunto su tale atteggiamento che fa leva l’evento cui stiamo per assistere: la disponibilità rende fecondi e di conseguenza ricettivi. In questa domenica, cantando l’Antifona d’ingresso, noi sollecitiamo i cieli ad aprirsi e a far piovere il Giusto (rorate caeli desuper et nubes pluant justum), però sappiamo benissimo che se la pioggia trovasse il terreno arido non avrebbe modo di penetrare e di provocare l’effetto naturale che le compete e cioè di far germogliare. Nessun fenomeno può realizzarsi se noi non ci apriamo al progetto di salvezza (aperiatur terra et germinet Salvatorem) e Maria è la dimostrazione di questo intervento di scambio. Se ne deduce che non c’è Natale se non con la concomitanza attiva di entrambi gli atteggiamenti. Predisponiamoci all’accoglienza.
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Inserito il 12 Dicembre 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Siamo ancora capaci di vera gioia? Sembra una domanda alla Marzullo. Qualcuno potrebbe dire che se ce n’è un valido motivo goderne è conseguente; qualche altro, più riflessivo, si chiederebbe: “Cos’è la vera gioia?”. A questo punto ognuno potrebbe sciorinare una serie di esempi e di tesi per sviluppare concetti a suffragio sia dell’uno che dell’altro aspetto della questione, che tuttavia, per il fatto stesso che si sia posta, rimane. Lo stravolgimento di tanti aspetti della nostra vita ordinaria ha alterato anche quelli che un tempo si potevano definire sentimenti spontanei, normali: l’esempio più banale di gioia che di norma si adduceva era quello di una madre in attesa del proprio bambino. Oggi si parla di stupore (se magari non era voluto), di disappunto (se il sesso è diverso da quello desiderato), di apprensione (per il dubbio di non essere in grado di farcela), di ansia (per un mondo che non piace), e così via, senza contare le reazioni di rifiuto. Allo stesso modo succede anche per gli altri fatti della vita meno importanti. Le gradite sorprese, poi, sono scemate del tutto perché si tende in linea di massima a programmare ogni cosa, per cui la gioia si trasforma al massimo in euforia temporanea se tutto va liscio o in soddisfazione se c’è una continuità. E qui è già insita una tesi sul secondo aspetto: salvo casi rari, non abbiamo più la capacità di provare la vera gioia, quella di accettare la vita per quella che è, di viverla giorno per giorno come un dono, affrontando le avversità come una sfida e di sorprenderci delle cose belle che ci riserva, a cominciare dalla più scontata come quella della salute. Oggi l’Avvento ci propone due “metodi” di gioia: quello di Maria Immacolata, che si affida totalmente al suo Signore che le stravolge l’esistenza (bene ha fatto il liturgista ad aprire la Messa con l’Antifona tratta da Isaia “Esulto e gioisco nel Signore, l’anima mia si allieta nel mio Dio..”), e quello di questa terza domenica, cosiddetta “Gaudete”, che ci invita a stare allegri nell’attesa, perché non c’è nulla di ansioso, in quanto la nostra speranza nella venuta del Messia è già certezza. Il messaggio arriva proprio da San Paolo nella seconda lettura, ma anche il vangelo non è da meno, quando suggerisce ai postulanti di Giovanni Battista una serie di atteggiamenti per sentirsi in pace con sé stessi e con Dio. In buona sostanza è aprendosi agli altri con generosità e solidarietà che ci creiamo quella tranquillità che sola può essere foriera di vera gioia.
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Inserito il 5 Dicembre 2021 alle ore 10:04 da Plinio Borghi
C’è conversione e conversione. Spesso si tende a semplificare per capirsi. Non può certo chiamarsi tale quella effettuata dall’anzianotto ottantunenne (peraltro quasi mio coetaneo) che l’altro giorno in autostrada, dopo essersi accorto di aver sbagliato uscita, ha bloccato l’automobile ed è tornato indietro contromano per una quindicina di chilometri prima che riuscissero a fermarlo (e magari correndo avrà pensato: “Ma guarda quanta gente che va contromano!”). Né è pertinente definire conversione (industriale) qualche modifica alla catena produttiva: ci vuol ben altro per rientrare nel novero delle vere e proprie trasformazioni. Gli esempi potrebbero continuare, ma è certo che non basta nemmeno venire a patti o convincersi di aver perseguito tesi sbagliate, tipo il no-vax che decide di vaccinarsi, per ragionare in termini corretti. La conversione, per sua natura, è il cambiamento radicale di vita, l’annullamento totale di noi stessi per essere uomini diversi, il tutto in funzione di obiettivi che nulla hanno a che fare con quelli che ci prefiggevamo in precedenza. Di norma ciò accade quando si è stimolati da un evento scatenante, che non dev’essere per forza di cose una folgorazione, anzi, il più delle volte è un processo che richiede un approfondimento e un approccio graduale fino all’assimilazione definitiva: in questo modo acquista quella stabilità che nessun “amore a prima vista” ti può consentire, fatte salve ovviamente le eccezioni, che, appunto, confermano la regola. Per noi è il Natale a rappresentare questo evento, perché siamo chiamati a viverlo ogni anno e di conseguenza ad attendere la venuta del Salvatore con l’ansia adeguata e con la predisposizione a prepararne adeguatamente l’arrivo. L’Avvento è sempre il periodo della revisione del nostro motore spirituale, fatto di punti di riferimento precisi e di obiettivi chiari, che però nel corso del tempo la nostra fragilità umana potrebbe aver reso più opachi e instabili. Altre distrazioni potrebbero essersi frapposte come colline nel panorama e le disattenzioni averci avviato per sentieri impervi. Occorre porvi rimedio. Come? Ascoltando intanto la voce di Giovanni che grida dal deserto: spianare gli ostacoli, riempire gli avvallamenti, raddrizzare i sentieri per poter intanto ripristinare lo sguardo sul vero scopo della nostra vita di fede. Ciò consentirà di rinverdire i passaggi, di rigenerare le convinzioni, di rimettere i valori al loro posto. È questa allora la “conversione” che darà un senso al Natale.
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Inserito il 28 Novembre 2021 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Quando comincia un viaggio? È chiaro che non c’è risposta più soggettiva. Per me inizia già da quando accarezzo l’idea di poterlo fare e vado a cercare tutte le informazioni utili, compresi tempi e costi. Assunta la decisione, parte il periodo preparatorio, che include tutti gli aspetti logistici e organizzativi, basilari per la perfetta riuscita dell’impresa. Non è secondaria in questa fase la preparazione dei bagagli, spesso soggetta a problematiche restrizioni sia di carattere normativo che operativo. Ovviamente è importante raggiungere la meta o le mete previste, non solo, ma anche concludere il programma prefissato e tornare a casa felici e soddisfatti. Fatto uno, fatti tutti? No! Semmai le esperienze vanno ad accumulo e costituiranno presupposti utili per le successive performance, ma ogni volta l’iter dovrà essere unico e irripetibile, anche nell’ipotesi di ripercorrere mete e itinerari già praticati: se la ricorrenza dovesse farci scivolare nell’abitudine, nella routine, sarebbe tempo (e denaro) speso inutilmente, con la conclusione di trovarci infine con un pugno di mosche e di catapultarci in una vecchiaia vuota. Ebbene, il percorso liturgico che oggi ci si appresta a intraprendere ricalca caratteristiche analoghe a quelle descritte: è un viaggio nuovo, che dovrà essere ricco di esperienze da vivere con intensità e interesse, nella consapevolezza che andrà a rimpinguare il bagaglio dei crediti che ci verranno richiesti per il passaggio alla nuova vita. Il progetto da realizzare, quindi, è quello della salvezza e la prima meta è il Natale da vivere come evento. Conosciamo anche il resto del percorso, tutto imperniato sulla Pasqua di Resurrezione, ma sarebbe da stolti liquidarlo come se fossero sempre le stesse cose che si ripetono: sta a noi viverle con l’originalità che rivestono, non fosse altro che per il fatto che ogni anno, come accade nella quotidianità ordinaria, è diverso da quello che l’ha preceduto e da quello che lo seguirà. Oggi, con l’Avvento, stiamo allora preparandoci per il nuovo viaggio, preordinando intanto, in funzione della prima tappa, tutto ciò che serve per viverla al meglio. Intanto carichiamoci ed eleviamo l’anima a Dio, come recita l’antifona d’ingresso della Messa odierna, perché ci segua e non ci perdiamo dietro a cose futili. Liberiamoci di orpelli che ci pesano e ci appannano la vista dell’obiettivo, in modo che il cammino sia spedito e libero da intoppi. In buona sostanza seguiamo le indicazioni che ci lancia Giovanni Battista, il precursore del Messia.
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Inserito il 25 Novembre 2021 alle ore 16:39 da Don Gianni Antoniazzi
I Padri della Chiesa parlano di tre venute di Cristo: nel Natale, nella vita quotidiana e alla fine dei tempi. Nessuna di queste ha un carattere spaventoso. Al rovescio: l’incontro col Signore ci guarisce dalle fragilità.
Da questa domenica inizia il cammino di Avvento in preparazione al Natale.
Nei primi giorni, la liturgia feriale offre un Vangelo in apparenza scollegato dalla nascita di Gesù. Si tratta di un episodio che si svolge a Cafarnao. Un centurione va incontro al Signore e gli dice: “Il mio servo è steso a letto, paralizzato e soffre terribilmente”. Gesù risponde: “Verrò e lo guarirò”. Il centurione prosegue: “Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”. Gesù esclama: “Non ho trovato in Israele nessuno con una fede così grande!”, e subito il servo è risanato. Il legame con l’Avvento sta nel verbo “venire” che ricorre 7 volte in questi versetti (Mt 8).
Pare che l’evangelista abbia riportato il fatto per spiegare in cosa consista la venuta di Dio. È una guarigione per i vicini, ma anche per i “lontani” che si rivolgono al Maestro. Il servo malato ci rappresenta tutti. È paralizzato e soffre terribilmente, così come avviene all’umanità in questo tempo: ciascuno è bloccato nel progetto del futuro, legato al letto delle proprie paure, affaticato per l’incubo di sviluppi imprevedibili.
A Natale Dio viene per salvare. Nulla di più consolante. Nulla di più sereno. Andiamo incontro a un bambino, non a un giudice.
don Gianni
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Inserito il 21 Novembre 2021 alle ore 09:55 da Plinio Borghi
Gesù monarchico ante litteram? Certo che no e Pilato l’aveva capito benissimo, come lo sapevano bene anche i suoi detrattori. Infatti, la scritta sulla croce l’ha apposta più per far dispetto a loro che non per un attimo di resipiscenza, tant’è vero che quel “dei” Giudei sarebbe restrittivo e andrebbe meglio ritenuto un avverbio di provenienza. Anche il flash di Giovanni oggi, tratto dall’Apocalisse, diventa sviante se limitato alla definizione “principe dei re della terra”, poiché il pensiero corre a quei personaggi che governano con la corona in testa. Allora Gesù che Re è? Usciamo un attimo dai luoghi comuni e dagli schemi e proviamo a pensare a quante volte nel linguaggio corrente noi attribuiamo la qualifica o l’epiteto di re a qualcuno: il re della canzone, la regina del focolare, il re della foresta, il re del ring, il re del cioccolato, il re degli imbecilli e potremmo proseguire all’infinito, come il principe del foro, il deus ex machina, il principe delle tenebre, ecc. Il titolo allora diventa allegorico e si rivolge non tanto al monarca quanto a chi primeggia, in positivo o in negativo. Quindi c’è da chiedersi: a che cosa anela l’uomo in assoluto? Alla Verità. Ha perso il Paradiso terrestre per tentare di carpirla a Dio e diventare come Lui e il Padre, misericordioso, ha pensato bene di riscattarne il peccato inviando nel Figlio la personificazione di quella Verità tanto bramata. Pure Pilato gli chiederà (si chiederà): “Che cos’è la verità?”. “Io sono la Via, la Verità e la Vita” aveva detto il Messia e sarà giocoforza che tutti i primati di questo mondo gli si dovranno inchinare: non ne esiste uno più grande. Cristo quindi è Re della Verità e solo tramite Lui e la sua Parola riconquisteremo quel Regno che abbiamo perso, vittime dell’inganno. Ma Gesù è anche primogenito dei morti, ci dice ancora Giovanni oggi, e come tale segna un altro primato assoluto. Il progetto di salvezza del Padre non si è “limitato” allo spargimento fino all’ultima goccia di sangue: ha voluto la vittoria sulla morte tramite la Resurrezione. Chi mai, chi altro avrebbe potuto o potrebbe? Di più, anche noi avremo il medesimo trattamento e finalmente saremo in Dio, l’Alfa, e come Dio, l’Omega, sul serio. La regalità di Cristo diventa pertanto suggello di tale ambìto obiettivo, che non è riservato a pochi eletti, bensì universale e va proclamata perché tutti riescano a beneficiarne. Bene ha fatto la Chiesa a darne rilievo spostandola alla fine dell’anno liturgico, come sigillo di un percorso di fede che si rinnova.
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Inserito il 14 Novembre 2021 alle ore 10:05 da Plinio Borghi
L’ansia per la fine dei tempi ha accompagnato l’uomo di ogni epoca e di qualsiasi etnia, fino a fargli rifiutare che la sua esistenza si possa esaurire con la morte. Anche il più deciso materialista salva almeno la sua “energia”, che continuerà a produrre effetti nell’equilibrio dell’universo. A seconda delle specifiche impostazioni, quindi, ognuno si dà delle regole di vita in funzione del dopo. Il discorso, ovviamente, non finisce qui, perché tutti vorrebbero avere un quadro più definito di quello che ci aspetta e vi si dedicano studi e ricerche anche interessanti e complicati. Ci ricordiamo le teorie dei Maya, che stabilivano l’esaurimento di quest’epoca umana nel 2012. Non è successo nulla, chiaro, ma tutti ne parlavano (oggi, per alimentare la suspance, si dice che sia stato un errore di battitura e che l’anno fosse in realtà il 2021). Pure noi abbiamo vissuto le nostre avventure in passaggi strani, come quello dal primo al secondo millennio, suggestionati sia dall’interpretazione del brano del vangelo di Marco in lettura oggi, laddove Gesù preconizza i fenomeni che accompagneranno la fine del mondo concludendo con una frase: “Non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute”, e da un equivoco “mille ma non più mille” tratto dall’Apocalisse, ma che pare abbia le sue radici in una frase attribuita sempre a Gesù nei vangeli apocrifi. Forse è proprio per scaramanzia che taluni bontemponi tendono a spostare la conclusione dei secoli dal 31 dicembre del ’99 a un anno dopo! Non parliamo poi di quante opere d’arte si sono ispirate alle teorie più disparate sulla fine del mondo. Ora, premesso che il nostro Maestro non intende certamente alimentare alcuna ansia in proposito, se non la giusta tensione per le cose ultime, è strano che di tutto ci preoccupiamo tranne che di vivere con coerenza la nostra impostazione di vita, in funzione della nostra fede e in aderenza al Vangelo. Spostiamo l’attenzione sulla frase che segue quella sopra citata: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” e tanto ci basti. Il resto lasciamolo a chi vuol complicarsi le cose, tanto solo il Padre sa quando sarà l’ora di chiudere e comunque noi avremo già ipotecato l’epilogo col nostro comportamento. Cadono a fagiolo le parole del card. Scola, intervistato da Gente Veneta nel compimento dei suoi 80 anni (intervista pubblicata la settimana scorsa e ripresa dal Gazzettino): la vita di oggi senza la fede diventa un peso.
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Inserito il 7 Novembre 2021 alle ore 10:02 da Plinio Borghi
Eh, beh, da poco a niente è facile; non è che la povera vedova, pur essendosi privata dell’essenziale, con quei due soldi avrebbe potuto darsi ai bagordi, anzi, probabilmente non si sarebbe tolta nemmeno il senso della fame che aveva. Certo, fosse stato Paperon de’ Paperoni non avrebbe dato nemmeno quelli, vista la gelosia con la quale conserva anche il primo centesimo (o il primo “decino” a seconda delle versioni) che ha guadagnato. Gesù la contrappone a quanti ostentano l’alienazione del superfluo, ma di fatto intende far eco alla questione del “giovane ricco” di cui si parlava qualche domenica fa. Sono due posizioni estreme, che danno il senso al motivo conduttore di questo mese: il percorso verso la santità. Che non si realizza con azioni plateali né sottovento, appiattiti e allineati, bensì vivendo in contro tendenza l’ordinario, fino a rendere eroico ogni gesto. E qual è il miglior riferimento, tanto per intenderci? Le beatitudini, alle quali era dedicato il vangelo di lunedì scorso, festa di tutti i Santi e richiamate anche oggi nel Salmo Responsoriale. Sono una sintesi mirabile di come noi, pur nel mondo, non dobbiamo appartenere al mondo e assimilare impostazioni di pura convenienza, bensì rispondere a criteri che la logica dei più non ammette. Non a caso il nostro Maestro ha posto la croce come segno di salvezza e di riscatto. Finire in croce non era e non è una cosa gratificante né un gesto eclatante di esaltazione; semmai la più grande delle umiliazioni, ma è per quella strada che dobbiamo passare se vogliamo salvarci. È vero che la Chiesa ci indica come Santi coloro che si sono distinti per essersi comportati sopra le righe, per aver compiuto atti che sollecitano di essere imitati, ma è chiaro che lo fa per rispondere ad una esigenza umana e cioè il bisogno di sentirsi stimolati da chi ha risposto in modo palese ed entusiasta alla lieta novella. Siamo al discorso dell’esempio, elemento che trascina più di mille parole. Anche Gesù con l’episodio della vedova ha fatto altrettanto. Mettiamolo di fronte a quello della conversione di Zaccheo, che promette di alienare la metà delle sue ricchezze e di restituire ai truffati quattro volte tanto, forse più logico per il nostro modo di pensare, ma chiediamoci: quale ci interpella di più? Domanda retorica. Neanche il giovane ricco in fin dei conti era malvagio, ma quanta grettezza! Non ci vengono chieste acrobazie, solo di scrollarci le incrostazioni e imboccare la strada giusta.
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Inserito il 31 Ottobre 2021 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Di che amore vogliamo parlare? Penso che non vi sia argomento più trattato al mondo sotto ogni aspetto, tanto che non è un’iperbole affermare che è l’amore che muove tutto. Non c’è pagina di letteratura, in prosa o in poesia, che non lo tiri in ballo; non c’è opera d’arte che non sia ispirata, direttamente o indirettamente, dall’amore; non c’è azione che non discenda comunque da esso, se buona per la sua presenza se cattiva per la sua negazione. La nostra stessa esistenza è frutto di un atto d’amore, quello divino che ci ha creato e quello di chi ci ha generato, entrambi della stessa natura e il secondo conseguenza di un preciso mandato ricevuto dallo stesso Creatore. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se Gesù ha sintetizzato tutta la Legge in un unico comandamento: ama Dio e ama il prossimo. Sembrano due atti distinti, tant’è vero che anche nel vangelo di oggi, interpellato in proposito, li definisce come primo e secondo. Di fatto è uno, perché non può esistere amore per Dio senza quello per il prossimo, solo attraverso il quale passa e il riconoscimento della Sua presenza e l’espressione più sublime della Sua creatività. A questo punto c’è da chiedersi se vi siano differenze di tipologia e quali siano, se anche il nostro Maestro fa i dovuti distinguo per l’amore cristiano. In effetti vi sono diverse espressioni sentimentali e affettive, ma non tutte possono essere assimilate all’amore pur discendendo la maggior parte dalla medesima radice, come lo sono senza dubbio il bene per il proprio partner e quello per i propri figli. Spesso, purtroppo, si travisa e si devia, per cui parecchie espressioni sono improprie e andrebbero reimpostate e incanalate nella giusta direzione. L’amore cristiano è un gradino più su e viene definito dallo stesso Gesù: “semplicemente” ascolto e messa in pratica della Parola, riassunta nel Vangelo. Anche qui c’è una gradualità, che parte dal riconoscere nel prossimo, specie se diseredato ed emarginato, la stessa figura di Cristo (ricordiamoci a tal proposito il cap. 25 di Matteo: ogni volta che l’avete o non l’avete fatto a uno di questi l’avete o non l’avete fatto a me) e arriva alla sequela totale col sacrificio di tutta la propria vita, cosa che il giovane ricco del vangelo qualche settimana fa non se l’è sentita di fare. Ma il punto di partenza sarebbe già una situazione accettabile dell’amore cristiano, per essere riconosciuti veri discepoli, per dare quell’esempio trainante che diventa testimonianza. Attenti, però, a non farne qualcosa di formale, che appaghi solo il nostro protagonismo, altrimenti diventa solo buonismo e non è più quell’Amore.
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Inserito il 24 Ottobre 2021 alle ore 10:04 da Plinio Borghi
Nascere ciechi o diventarlo: qual è lo stato peggiore? Ce lo saremo chiesti chissà quante volte vedendo qualcuno colpito da tale disgrazia. In entrambi i casi abbiamo un elemento che lenisce la situazione: i ciechi nati non possono sapere del tutto cosa non è stato concesso loro; chi lo è diventato dopo lo sa, ma almeno ha modo di avere un ricordo positivo, una conoscenza che rimarrà viva dentro di sé. È sufficiente per dare un appiglio alla sopportazione, piuttosto che niente? Non serve la risposta: è così e tanto basta a tenerne conto. Poi sarà compito di ciascuno, in base al carattere e agli interessi che si creerà nella vita, fruirne. Io, da “profano”, ho sempre pensato che a stare peggio sia la seconda categoria, specie se ci sono state delle circostanze causali favorite da un comportamento non corretto, per cui al danno si aggiunge anche la quota di rimorso per non aver potuto o saputo evitare il nefasto epilogo. Fin qui avremmo discorso di lana caprina, se non fosse che, sul piano religioso, quello della cecità diventa un preciso riferimento sulla questione della fede, il cui occhio pure ci apre a un mondo di verità e di prospettive altamente appagante. Anche qui esiste chi non ha mai avuto questo dono e quindi non può essere consapevole di ciò che gli è stato negato, anche se, purché vedesse quanto gli altri la tengono da conto e ne godono, avrebbe la percezione di qualcosa di molto prezioso. E c’è chi invece l’ha trascurata, non l’ha sufficientemente alimentata, l’ha fatta assopire fino a non riuscire più a vedere con quell’occhio speciale. Questi non solo ha danneggiato sé stesso, ma offre il brutto esempio anche ai primi, che soltanto attraverso lui avrebbero la possibilità di sentirne il profumo e di sognare. Ebbene, se costui avesse la possibilità di incontrare Gesù, come il Bartimeo del vangelo di oggi, cosa pensate che gli chiederebbe? “Maestro, fa che io veda di nuovo!” Nemmeno il figlio di Timeo (è raro che l’evangelista sia così anagraficamente dettagliato) era cieco dalla nascita e nell’impatto col Nazareno si rende conto di quanto aveva perso, per cui altro non gli poteva chiedere e, ottenuta la grazia, non c’è di che meravigliarsi se ha preso subito la decisione di seguirlo. Allora stiamo attenti: uno dei fattori che portano la cecità della fede è proprio l’indifferenza, la stessa che non ci consente di cogliere l’occasione del Signore che passa per farci rivivere l’entusiasmo di servirlo. E finire col morire da ciechi è proprio la peggior iattura!
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