Inserito il 22 Dicembre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Il programma ha funzionato! La fase di avvio è conclusa. Abbiamo pregato che le nubi stillassero dall’alto la loro rugiada e la terra si aprisse per germogliare il Salvatore. Così sta avvenendo. Il cielo si è squarciato e la terra fecondata si è aperta al grande fenomeno: ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, tutto secondo le scritture. L’angelo che appare a Giuseppe, racconta l’evangelista, le riprende per tranquillizzarlo, ma a noi non serve fare tanto i sofisti: il pacchetto che abbiamo acquistato (la fede) includeva tutto e lo Spirito Santo ci è già stato garante della sua comprensione. Ora, novelli Giuseppe, ci spetta il compito di “tutelare” i fatti e di consegnare al mondo questo evento che si rinnova e al quale, come credenti e cristiani, assistiamo in prima persona. Gesù, assumendo a tutti gli effetti la nostra natura umana, ne ha accettato anche le regole e le conseguenze, non potendosi pertanto sottrarre ai problemi contingenti che ciò ha comportato e comporta. Allora ci furono le peripezie, a cominciare dal posto in cui poter nascere e fino alla fuga in Egitto per Erode che lo voleva a tutti i costi eliminare, presumendo una concorrenza che non c’era. Oggi è ancora alle prese con l’incredulità, la diffidenza, la derisione, la persecuzione dei suoi seguaci e con i detrattori che lo vorrebbero “detronizzato”, perché dà fastidio la sua regalità e il trono su cui si è assiso: la croce. In trent’anni di vita nel nascondimento ha percorso tutta la strada della sua formazione in famiglia e fuori, come ciascuno di noi. Ha avuto anche le sue tentazioni e i suoi momenti di debolezza, come nell’orto del Getsemani, quando chiese al Padre di allontanare il calice amaro che aveva progettato per lui. Poi, tuttavia, ossequente al mandato, l’ha bevuto fino in fondo. Oggi la sua nascita dà la stura a tutto questo e “l’App natalizia” che abbiamo scaricato durante dell’Avvento ci aiuterà a seguirlo in questo percorso e a proiettare noi e gli altri nella sua evoluzione. Se l’applicazione è stata preparata e impostata correttamente, da questo momento entrerà a regime e produrrà frutto. Sennò il Natale ci passerà sopra la testa e ci ritroveremo frastornati dal carnevale e con la Quaresima alle porte senza uno strumento efficace e una base per affrontare il grande mistero della redenzione, che passa attraverso la morte e resurrezione del Salvatore. Ne abbiamo ben donde per augurarci con serietà e convinzione un BUON NATALE.
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Inserito il 15 Dicembre 2019 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Il ragionevole dubbio che interviene in qualsiasi fase operativa è cosa buona e giusta, perché induce a una continua verifica di quanto si sta facendo. L’eccessiva sicurezza è foriera di errore, perché l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Inoltre, il dubbio ci costringe ad essere guardinghi, specie se c’è chi si diverte a perpetrare l’inganno. Nel campo dell’informatica ne abbiamo ben donde di filibustering fra hacker, fake news e leoni da tastiera. Anche sul piano intellettuale incontriamo imbonitori di ogni sorta; non parliamo poi di quello spirituale, se perfino Gesù, poche settimane fa, ci metteva in guardia dai falsi profeti, inclusi coloro che si sarebbero presentati spacciandosi per lui. Meglio allora qualche dubbio in più che restare buggerati. Anche Maria, dicevamo domenica scorsa, ha dubitato all’annuncio dell’Angelo Gabriele. Oggi, poi, abbiamo un esempio che suona quasi a contraddizione: Giovanni Battista, che pur conosceva bene Gesù, che ha sussultato nel ventre di sua madre quando ha ricevuto la visita di Maria, che l’ha indicato agli astanti quando Colui al quale non era degno di legare i calzari, si è presentato al battesimo sul Giordano, manda i suoi emissari a verificare se è proprio lui quello che deve venire o se dovevano aspettare qualcun altro. Il suo pare un eccesso di dubbio che rasenta un’incertezza negativa. Eppure ci insegna che analizzare e avere riscontro della verità, purché serva a fare un passo avanti nel percorso, non è mai eccessivo. Probabilmente è stato stimolato dal notare ancora qualche titubanza nei suoi seguaci, forse gli erano state riportate notizie distorte, tant’è che il Messia non risponde agli interlocutori dicendogli semplicisticamente: “Ditegli che sono io”, bensì mette in risalto i fatti, per dimostrare la loro corrispondenza alle scritture e alle profezie, e invita gli ambasciatori a riportarglieli. In termini teatrali si potrebbe dire che il Maestro ha retto la battuta, gli ha fatto da spalla. D’altronde conosceva bene Giovanni, tanto da tesserne subito dopo lodi sperticate. Attenti, però, noi che stiamo “smanettando” sull’App del Natale, alla sottolineatura finale: “Fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Una qualifica che spetta a ciascuno di noi se sapremo cogliere la prospettiva insita nella comprensione totale di questa nascita che si rinnova, ci rinnova e ci garantisce. Fra poco ci siamo, ma se sapremo “lavorare” bene sarà solo l’inizio di una bella avventura.
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Inserito il 8 Dicembre 2019 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Scaricare l’applicazione e usarla non sempre e non per tutti si rivela un’operazione semplice: dipende da quanto sia articolata, dalla datazione e dall’efficienza del pc di cui si dispone, nonché dalla preparazione acquisita da chi opera. Talora è opportuno alleggerire un po’ l’hard disk di una serie di appesantimenti vari che un uso poco accorto può aver indotto, ma anche qui va posta attenzione a non intaccare elementi che incidono sul corretto funzionamento dei programmi. La via più tranquilla può essere il ricorso a un tutorial. L’App del Natale, di cui si parlava domenica scorsa, non presenta particolari difficoltà e ha come supporto un “tutorial” di tutto rispetto che è il Vangelo stesso, il quale, oltretutto, non si limita a svolgere solo la funzione di manuale di istruzioni, ma si avvale pure di “video”, cioè di riferimenti esplicativi inequivocabili sul piano interpretativo. Uno è il Giovanni Battista, che ci guida nel disporre la nostra anima (il nostro “hard disk”) ad accogliere in modo proficuo l’arrivo di Gesù. Quanti orpelli e storture accumulati ci opprimono e ci impediscono una visione corretta! Sono le colline da abbassare e i sentieri da raddrizzare, per ottenere una visione chiara su un percorso più scorrevole e meno defatigante. Giovanni non si è messo a predicare in città e sontuosamente vestito, bensì nel deserto, coperto dal minimo e nutrito con l’essenziale, come ce lo descrive Matteo, l’evangelista che ci accompagnerà nel percorso di quest’anno da poco iniziato. Fare deserto per vederci chiaro diventa un passaggio indispensabile. L’altra figura che interviene a guidarci ad applicazione scaricata è Maria, che proprio oggi festeggiamo come Immacolata Concezione e che ci accompagnerà fino all’evento. Dio l’ha prescelta, ma nemmeno Lei conosceva il suo stato particolare; eppure ci offre una password eccezionale: disponibilità. Senza di questa, che comporta apertura d’animo, coraggio, generosità di cuore, non accederemo mai ad un Natale completo, che è preludio di redenzione. Certo, il dubbio non va escluso, anzi, serve a tenerci in guardia e alla ricerca (lo vedremo domenica prossima). Anche Maria l’ha espresso, sulla base delle sue esperienze, ma l’Angelo Le ha fugato ogni incertezza, perché a Dio nulla è impossibile: la gravidanza di Elisabetta lo sta a dimostrare. Stiamo dunque navigando spediti e in completa sicurezza, ma attenzione a non scordare la parola chiave: disponibilità.
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Inserito il 1 Dicembre 2019 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Wait, please… Quante volte appare questa scritta sui congegni elettronici in uso! Spesso accompagnata da una rotellina che continua a girare o da una barretta che s’illumina progressivamente a mano a mano che la ricerca continua o l’applicazione si sta scaricando. Se poi lo strumento è vecchiotto o poco potente e l’App è complessa o “pesante”, l’attesa si prolunga per un tempo indefinito. Inutile forzare la mano: si rischia di bloccare il processo col risultato opposto, se non peggio. Anche in questo campo vige il detto che la fretta è nemica del bene. Forse è proprio la smania di far tutto e presto che accelera in modo esponenziale la corsa alle nuove tecnologie e l’accantonamento come obsoleti di meccanismi che, tutto sommato, rispondevano ancora alle esigenze minimali per cui li abbiamo comprati. Non c’è in questo alcun margine di educazione, anzi, si tende ad un comportamento irrazionale, fino al punto d’entrare in gara per arraffare per primi l’inutile oggetto del desiderio, magari con code fuori dal negozio in ore antelucane. Un tempo il saper attendere era parte integrante della nostra formazione in tutti i campi, ivi compreso quello sessuale, dal quale concetto scaturiva il senso del rispetto: della natura e dei suoi tempi, degli altri e delle loro esigenze, e così via, almeno intenzionalmente. Oggi si vuol bruciare tutto sul nascere: si violenta la natura con coltivazioni intensive e OGM, si rinuncia a priori alla trepidazione dell’attesa e poi, in assenza di una soddisfazione ormai consumata, i rapporti diventano usa e getta come i congegni elettronici. Natale è da mo’ che sta facendo la stessa fine, sicuramente nell’ambito profano: per il commercio e la pubblicità già lo stiamo vivendo in anteprima con panettoni, pandori e offerte varie; le luminarie si stanno accendendo un po’ ovunque (qualcuno addirittura non le ha nemmeno tolte per non rifare la fatica di rimetterle). Non c’è tempo per attendere, la tredicesima è quasi in pagamento e la corsa ai regali va sollecitata. Il guaio è che quest’ansia tende ad influenzare anche il campo religioso, dove invece, da tutte le letture, s’invita a passare l’attesa con gioia, in prospettiva di vivere e godere infine in modo pieno dell’evento per antonomasia. È così pure nel parto e a nessuno passa per la testa di accorciare l’attesa né un parto prematuro è accolto a cuor leggero. Per noi cristiani il Natale è l’App per eccellenza. E allora, scarica l’App! E attendi il tempo giusto.
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Inserito il 24 Novembre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Governare non è facile. Già comandare è difficoltoso, perché richiede una certa attitudine. Figurarsi il regnare! Che di norma parte da uno dei due presupposti: o per lignaggio o per usurpazione (dittatura), comunque senza il consenso del popolo. Infatti, il re è detto anche “sovrano”, proprio perché sta sopra di tutti come figura incombente. Eppure fra tutte le qualifiche che Gesù avrebbe potuto attribuirsi ha scelto per sé quella di Re. E, a scanso di equivoci, ha sempre parlato di Regno dei cieli, di annuncio del Regno, di Re che tornerà nella sua gloria quando tutte le dominazioni gli saranno state sottoposte; perfino Paolo parla di “principati” e “potestà”. Ci tiene il nostro Salvatore a questo titolo, tant’è vero che da Pilato fa scena muta, salvo irrompere con veemenza proprio per affermare questa sua regalità: “Tu l’hai detto, io sono Re!”. Al punto che lo stesso governatore, travisando, imporrà sulla croce una scritta limitativa, ma in ogni caso significativa: “Gesù Nazareno Re dei Giudei”. Qualche pignolo potrebbe obiettare che quelli erano tempi diversi, quando prevalevano troni e titoli nobiliari, che la democrazia era tutta da inventare, ecc. Vero, a parte che la cultura greca aveva ben introdotto i concetti delle varie forme di governo, ma come mai anche al giorno d’oggi, nel nostro piccolo, ci ritroviamo ad usare le stesse terminologie quando vogliamo sublimare persone, ruoli e ambienti? Uno si “veste come un principe”, quando sta bene a casa si sente “nel suo regno”, la donna di casa è ancora “la regina del focolare”, chi ti conquista con l’amore diventa “re (o regina) del mio cuore” e così via. Ci sono ancora un paio di “effetti speciali” nella proposta del nostro divin Maestro: il “trono” è rappresentato dalla croce sulla quale viene elevato e i “sudditi” in sua presenza non devono chinare la testa, bensì alzarla e guardarlo fisso come segno di speranza. Non è per niente un’improvvisazione, ma un progetto stabilito dal Padre; infatti, l’aveva detto molto prima che, allorché fosse stato innalzato, tutti avrebbero guardato a lui, unica porta per la nostra eterna salvezza. E in quel “tutti” c’è l’obiettivo che ci guida da qui fino alla fine dei secoli: la riconsegna dell’umanità intera, redenta e finalmente salvata, a Chi ha affidato al Figlio dell’Uomo lo “scettro” come segno della sua mission. Noi siamo al suo fianco? Nemmeno un re può essere tale senza un seguito. E sulla nostra adesione si basa il successo di tutta l’operazione. È una bella responsabilità.
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Inserito il 17 Novembre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Un carattere distintivo del nostro essere cristiani è o dovrebbe essere proprio il modo con il quale affrontiamo la vita, nel bene e nel male, in ogni sua fase, compresa la morte, che ne fa parte integrante ed essenziale. Noi dovremmo muoverci sempre con un occhio rivolto al fine ultimo, che è il “dopo”, e da quello assumere tutti gli atteggiamenti e le direzioni conseguenti. Un po’ come fa l’artigliere che, per sparare verso un obiettivo, deve crearsi il cosiddetto “falso scopo” sul quale costruire le coordinate. La settimana scorsa abbiamo ragionato sull’essere testimoni di speranza, ma ciò non può limitarsi a una dichiarazione di principio, pronti a cadere nella disperazione più plateale non appena sentiamo puzza di bruciato. Dobbiamo muoverci di conseguenza, dimostrando nei fatti che la nostra speranza è vera, convinta e solida. Se tutto va bene non è molto difficile, ma se le cose si mettono male, se incontriamo difficoltà nella gestione del quotidiano, nel lavoro, nella salute, nella presenza di grave pericolo, fosse anche quello di morire, scatta la prova del nove. Il che non significa non avere paura né di non manifestarla, fa parte della nostra debolezza umana ed è una buona arma di salvaguardia, ma occorre essere pronti a correggere il tiro e ad aggrapparci all’ancora della nostra fede, affrontando le cose nella consapevolezza che in ogni caso siamo diretti altrove e quindi con calma e determinazione. D’altra parte, il quadretto “edificante” che ci fa Gesù sul vangelo di oggi circa le disgrazie che investiranno l’umanità non lascia spazio a nulla di peggio. Di più, ci mette anche in guardia dai falsi profeti che si spacceranno per Lui, che in ogni circostanza vorranno indicarci altre strade da percorrere per uscirne indenni. E se li snobbiamo, ci combatteranno e ci provocheranno per metterci alla prova e allora la nostra forza trarrà linfa da quella fede che ci ha forgiato e da quella speranza proclamata come certezza. Eh, si dirà, lo spirito sarà anche forte, ma è la carne che continua ad essere debole! Come saremo in grado di reggere alle controversie? Ancora una volta il nostro Maestro (e futuro Giudice) ci rassicura: “Io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere”. E conclude: “Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Qui purtroppo c’è da superare la mina vagante della pigrizia. Sappiamoci regolare.
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Inserito il 10 Novembre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Essere testimoni di speranza. In queste domeniche che vanno dalla festa dei Santi e commemorazione dei defunti alla chiusura dell’anno liturgico si vive più del solito il clima escatologico, permeato da un argomento preminente: la speranza. Nessuno sa cosa ci aspetti dopo la morte e in tutti i tempi non è mai mancato chi vi abbia filosofato per dritto e per storto. La nostra fede ci fornisce alcune risposte, ma nemmeno Gesù ha voluto essere esaustivo in merito, giustificando che non saremmo in grado di capire: basti sapere che godremo della completa felicità in Dio, un Dio che ci vuole tutti salvi, che ci aspetta anche quando lo rifiutiamo e siamo lontani da Lui, perché, come riporta l’ultima frase del vangelo di oggi, “Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”. I Sadducei descritti all’inizio del brano, rimestando motivazioni speciose e situazioni surreali (per nulla diversi dai detrattori di sempre), fanno sbilanciare un po’ il Maestro con l’affermazione che, in quanto risorti e figli di Dio, “saremo uguali agli angeli”, ma, siccome non sappiamo nemmeno come siano gli angeli, non rosicchiamo nulla di più. Ci resta la speranza, quella stessa che ha animato e incoraggiato anche i sette fratelli e la madre, descritti nella prima lettura, dal libro dei Maccabei, fino al punto di scegliere la morte piuttosto che rinunciare alla propria fede, nella certezza della resurrezione alla vita eterna. Una speranza, quindi, che è certezza. È un motivo conduttore che ritroviamo, oltre che in questo periodo, anche in ogni occasione della liturgia del commiato. Qualcuno può insinuare che si tratta di una panacea, la solita fiaba per far stare tranquilli i bambini agitati. Costui trascura che la speranza è uno dei sentimenti più “laici” che ci caratterizza nelle nostre performance della vita, sempre che vogliamo in qualche modo viverla alla grande. A partire dalle attività sportive, dove ognuno si cimenta per ottenere il meglio, e proseguendo per quelle di studio, lavorative e politiche, fino alla ricerca e alla cultura, la spinta è sempre una speranza che vuol essere certezza, altrimenti non si arriva da alcuna parte. A sostenerla, poi, ci sono allenatori, promotori, trainer, testimonial, talvolta anche imbonitori, ma lo scopo è sempre quello di stimolo. Nella fede non è diverso. Nei Santi e nei martiri li abbiamo avuti tutti, ma c’è un riferimento eccellente e rassicurante: Gesù Cristo stesso. A noi spetta il compito di essere testimoni della vera speranza.
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Inserito il 3 Novembre 2019 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
“Botta e risposta” è una locuzione per significare un confronto acceso, che non concede spazio al benché minimo intervallo. È classica dei battibecchi, ma anche a teatro la si rileva positivamente in chi ha la battuta pronta e, incalzando, non lascia cadere la tensione dello spettatore. Le sacre scritture stesse ci offrono più esempi in tal senso: Samuele, per dirne uno, quando sente la voce che lo chiama e risponde prontamente “Eccomi!”; gli apostoli, quando Gesù li chiama a diventare pescatori di uomini e non frappongono indugio ad abbandonare le reti e a seguirlo. Oggi, poi, il vangelo ci offre una scena speciale: il Maestro si rivolge a Zaccheo, che s’era annidato sul sicomoro per vederlo passare, e si autoinvita a casa sua. Scatto immediato di questo pubblicano incallito e altrettanto immediata conversione. C’è un minimo comun denominatore in queste reazioni: la predisposizione. Non ci può essere prontezza se in qualche modo non si è preparati. Così è per un confronto, per una recita, per uno stato d’animo, per una mente aperta, per una disponibilità acquisita in un rapporto maturo, per la curiosità stessa. Zaccheo era lontanissimo dall’epilogo che lo avrebbe reso protagonista quel giorno, ma la voglia di sapere, di conoscere era tanta da arrampicarsi su una postazione strategica per poter vedere questo Messia che avanzava, come fosse un agguato. A questo punto Colui che è “venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”, come dirà a chi lo contestava per le sue frequentazioni, sorprenderà il curioso con quell’invito perentorio. Questi, però, non fugge, anzi, sorpreso ma felice si mette subito a disposizione. Botta e risposta. Altre chiamate hanno al contrario richiesto più tempo, come quella di Paolo sulla via di Damasco o dello stesso Anania, inviato dal Signore a guarirlo dalla cecità. Non c’era alcuna predisposizione agli eventi e la risposta non poteva essere pronta. Il fatto che il risultato sia stato comunque grandioso non deve però trarci in inganno e favorire un’eventuale posizione attendista: sarebbe un atto di presunzione, anche perché non siamo tutti San Paolo e men che meno sulla via di Damasco. Se da un lato è vero che a cercarci è Gesù, dall’altro ci corre l’obbligo di essere preparati e predisposti, per non perdere l’immediatezza in un’occasione che potrebbe rivelarsi irripetibile. Il nostro rapporto col Salvatore dev’essere sempre di botta e risposta. L’incertezza potrebbe torcersi contro.
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Inserito il 27 Ottobre 2019 alle ore 10:04 da Plinio Borghi
La considerazione di sé stessi è un atteggiamento umano, che sottende anche un po’ di autostima, il che non sarebbe male, se non fosse troppo sovente accompagnata da sopravvalutazione o addirittura da quel tipico tocco di autoreferenzialità che infastidisce gli interlocutori. Quest’ultime, alla fine, finiscono per render vane anche le prime giacché ne offuscano la positività e ne alterano la consistenza. Siamo al solito refrain: i requisiti vincenti rimangono quelli di mostrarsi per quello che si è e di rifuggire da un lato il compiacimento e dall’altro la falsa modestia, che serve solo per piaggeria. Nei rapporti umani, in ogni caso, è bene evitare di dare tutto per scontato, lo sappiamo e pertanto vanno messe in conto sottovalutazioni e ingiustizie, avverso le quali bisogna combattere, con determinazione, ma sempre con tanta umiltà. La vera umiltà, che è quella della quale il nostro divino Maestro ci ha dato ampio esempio; quella perorata da S. Agostino come unica e assoluta chiave per liberarsi dalla schiavitù del peccato. Il guaio è che sul concetto saremmo d’accordo, se non fosse che per pesare la nostra esaltazione necessiterebbe una bilancia industriale mentre per misurare la nostra mitezza ci servirebbe un bilancino da orefice. Non occorre dilungarsi in esempi, dato che ciascuno per proprio conto ne sciorinerebbe a iosa. Ora, se questa è la tendenza fra “umani”, sembra difficile che nel rapporto con Dio si riesca a compiere un bel salto di qualità. Il fariseo descritto dal vangelo di oggi, impettito davanti al Signore e sprezzante del pubblicano che, prostrato, si batteva il petto, con tutta franchezza ci dà un fastidio da matti, ma quello siamo noi! Tutti perfettini (?) nell’osservare i comandamenti, i precetti, magari anche le opere di misericordia corporali e spirituali, nel credere di fare la carità se alieniamo il superfluo, ma pronti anche a giudicare chi non lo fa o fa meno. Questo atteggiamento ci induce a ritenere che otterremo il giusto riconoscimento al momento del giudizio. Altro atto di presunzione. Certo, lo fa anche Paolo nella sua lettera a Timoteo che la liturgia ci propone oggi, ma in una chiave ben diversa che si chiama “speranza”, la vera certezza del cristiano per aver “terminato la corsa e conservato la fede”. Quindi? È ovvio che si debba partire dall’atteggiamento del pubblicano, non per un autolesionismo gratuito: è la nostra debolezza umana a esigerlo. Gesù non fa una boutade nel concludere “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
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Inserito il 20 Ottobre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Metterci l’anima. Quante volte abbiamo usato questa espressione per significare che uno ce la mette tutta in quello che fa! E non vuol dire che gli piaccia o ci riesca: vengono soppesati la buona volontà e l’impegno profuso. È comune pure in dialetto e spesso è indirizzato proprio a chi, nonostante tutto, non ottiene ciò che si era prefisso, magari a fronte di altri che, senza tanto sforzo e a volte per pura fortuna, ottengono risultati migliori: “Poareto, e pensar ch’el ghe ga messo l’anema!”. Fan da contraltare atteggiamenti opposti, come la svogliatezza e l’inettitudine, i quali lasciano poco spazio a risultati concreti, ma, se presenti in posizioni di un certo rilievo, riescono a scombinare parecchio anche la vita altrui, oltre alla propria. Qui l’elenco dei casi emergenti, purtroppo, si farebbe molto più lungo dell’altro, forse perché i brutti esempi colpiscono di più dei buoni. E non risparmiano alcun settore o sistema. Non mi riferisco tanto alla corruzione, pur diffusa: a volte anche per delinquere qualcuno ci mette l’anima. No, il fastidio è per l’indolenza perniciosa e, chissà perché, i primi casi che mi sovvengono sono quelli dei giudici che, per non aver provveduto a stendere in tempo le motivazioni di una sentenza, hanno fatto decadere i termini di carcerazione nei confronti di criminali incalliti. Forse l’associazione di idee non è fortuita: il vangelo di oggi parla proprio di uno di questi (il vizio è atavico!) e di una vedova che gli chiedeva invano giustizia. Gesù contrappone a questo inetto Dio stesso, che invece non rimane insensibile al grido che giunge dai suoi eletti. C’è una sorta di “compensazione” in questo brano di Luca, che sembra rispondere a un anelito diffuso: il bisogno di certezza che ci sarà una Giustizia divina, specie per gli oppressi in questa vita. Ci va bene l’infinita misericordia del Padre, ma ci tranquillizza sapere che anche la giustizia farà il suo corso. Attenzione, però. Sul desiderio di rivalsa deve prevalere la fede, sennò rischiamo di cadere vittime anche noi. “Rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente” dice oggi S. Paolo a Timoteo. Appunto. Domani verremo tutti giudicati non tanto su quello che avremo o meno realizzato. Anche, ma soprattutto se “ci abbiamo messo l’anima” in quello in cui eravamo impegnati, a prescindere dai risultati. Infatti, il Salvatore finisce di rassicurare i discepoli con una frase angosciante: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.
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