Il blog di Carpenedo

Il blog di Carpenedo
La vita della Comunità parrocchiale dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo

Fatalismo, scaramanzia o… fede?

Inserito il 21 Ottobre 2018 alle ore 09:45 da Plinio Borghi

Fatalismo, scaramanzia o… fede? Quando capita che la vita ti riservi qualche dura prova che la potrebbe mettere in discussione o comprometterne seriamente la qualità, non è più il momento di prendere le cose sotto gamba o di fingere finti ottimismi, bensì di essere realisti. Tuttavia, abbiamo mille modi per esserlo. C’è chi si abbandona al fatalismo: succeda quel che deve succedere. Il più fantasioso assume atteggiamenti scaramantici: ci sono passati in tanti, proprio io devo soccombere?; oppure: di qualche cosa bisogna pur morire prima o poi. L’uomo di fede li assume entrambi, sublimandoli: si abbandona alla volontà del Padre, che tiene il grande libro dove sta scritto il tuo nome e la tua ora; si prepara all’eventualità del grande passaggio o, nella migliore delle ipotesi, è già pronto, all’insegna di quell’”estote parati!” raccomandato da Gesù. Comunque vale l’ottimismo vero: è un incidente di percorso e tutto continua; ottimismo che servirà molto anche in fase di guarigione. Chi mi legge avrà ben capito che io appartengo a quest’ultima categoria: fede e ottimismo. E non lo dico teoricamente: ho un’età nella quale ho iniziato da un bel po’ con le malattie croniche e con vari interventi di “restauro”, non estetico ovviamente. Il problema più grosso è stato quello di alleggerire l’apprensione di chi mi sta a fianco, per il resto puntualità nell’assumere i farmaci, fiducia piena nei medici, partenza per l’ospedale con il mio pc portatile in borsa e cavetti vari di collegamento. Alla consueta domanda: “Ma cossa te serve portarte drio tuta quea roba!?”, solita risposta: “Finìo l’intervento gavarò pur d’andar vanti co e me robe!”. E così è sempre stato,con buona pace dei miei referenti, che non si sono quasi accorti della mia assenza, spesso prolungata. Non tutti però sono così netti nella loro collocazione. Gli Apostoli che il vangelo di oggi ci descrive, ad esempio, non hanno ben capito la portata dell’epilogo della missione del Maestro, né che nel prosieguo la stessa sorte sarebbe toccata anche a loro, ma con un po’ di fatalismo l’hanno data per scontata e con un pizzico di scaramanzia si sono messi a disquisire su come fare dopo per sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra del Salvatore. Che la fede li abbia portati a credere senza capire non ci piove, ma Gesù dà loro la classica “stuada”, come si direbbe in veneto: chi vuol essere il primo tra voi sarà servo di tutti, come me, che sono venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti. Classico e vale anche per noi.

Affrontare una svolta nella vita…

Inserito il 14 Ottobre 2018 alle ore 10:49 da Plinio Borghi

Affrontare una svolta nella vita è successo a tutti e in più di qualche circostanza, talora per cause di forza maggiore, come dover scegliere quale branca di studi intraprendere o, peggio, se interrompere e andare a lavorare; talaltra per migliorare o cambiare la propria posizione lavorativa ovvero per formare una nuova famiglia, mettere al mondo dei figli e così via. Spesso alcune scelte si presentano come determinanti o irreversibili, altre volte richiedono grossi sacrifici e rinunce e qui scattano le difficoltà, specie in presenza di legami o interessi che rischierebbero di venire compromessi. Da ciò deriva l’assioma che più uno ha e più difficoltà trova nel mettere in discussione qualcosa. Ne ho conosciute di anime belle che non avevano remore nel compiere salti al buio oppure allontanamenti prolungati con una leggerezza per me impensabile e, gratta gratta, scoprire che non avevano alcun legame né affettivo né sociale che mitigasse certe impennate. E non parlo di sfaccendati o apatici. Il problema è un altro: quanto i laccioli di cui si parla, in primis il benessere e la ricchezza, possano costituire una palla al piede che ci impedisca di librarsi, ci facciano venir meno il coraggio anche per un impegno di carattere spirituale o solidale. Oggi il vangelo mette a fuoco il famoso episodio del giovane ricco, una persona a posto e osservante, che però sente il bisogno di impegnarsi di più, non gli basta quel che possiede per sentirsi realizzato. Quante volte ci è capitato di assistere alla disperazione di chi gli crolla il mondo addosso e ai nostri occhi sembrava avesse il massimo della felicità! e quanto più disadattamento e squilibrio notiamo in chi ha tanto, rispetto a chi ha poco o niente! Gesù suggerisce al giovane volonteroso una cosa all’apparenza semplice: “Va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri … poi vieni e seguimi”. Che equivale a “liberati!”. Qui l’evangelista è magistrale nella sua laconicità: “Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni”. Ecco la sintesi di quel che si diceva prima, ecco perché il denaro, lungi dal fare la felicità o almeno dall’aiutarti, t’impedisce di realizzarti. Staccarsene non vuol dire tanto disfarsene, quanto saperlo impiegare nel verso giusto qui, per crearti beni più duraturi di là. Ai più zelanti Gesù garantisce addirittura il centuplo già in questa vita. Altrimenti il solito cammello continuerà, suo malgrado, a passare per la cruna dell’ago mentre il ricco non ce la farà ad entrare nel regno di Dio.

L’uomo ha osato. Oh se ha osato!

Inserito il 7 Ottobre 2018 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

L’uomo ha osato. Oh se ha osato! Fin dall’inizio dei tempi con Adamo ed Eva, ha sfidato il suo Creatore cogliendo il frutto proibito. Ne stiamo pagando ancora le conseguenze, ma andiamo avanti imperterriti per la nostra strada, salvo poi versare lacrime di coccodrillo. Oggi il nostro divin Maestro, interpellato dai soliti farisei circa la liceità di ripudiare la propria moglie, come la legge di Mosè consentiva, si richiama invece alla genesi: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma, ma … Dio li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola”. E conclude perentorio: “Dunque l’uomo non osi dividere ciò che Dio ha congiunto”. Ora, se dovessimo soffermarci un attimo a comparare lo stato della nostra società, chi non è convinto che siamo ben lontani da tale indirizzo? Se non nei fatti, almeno concettualmente? Anzi, stiamo ben attenti a non propugnarlo troppo: potremmo essere come minimo tacciati di omofobia. Proprio l’altro giorno ho ricevuto via whatsapp un video, ormai divenuto virale, del discorso del re di Norvegia Harald V che, dopo aver sottolineato come il suo Paese sia composto da gente immigrata da ogni parte del mondo, diceva: “I norvegesi sono vecchi e giovani, alti e bassi, abili e sulla sedia a rotelle; tanti superano i cento anni. I norvegesi sono ricchi e poveri; i norvegesi sono single e divorziati, hanno figli o sono coppie sposate tardi. I norvegesi sono ragazze che amano ragazze, ragazzi che amano ragazzi e ragazze e ragazzi che si amano..”. Ecco, nella scala dei valori tradizionali, il primo, garanzia della nostra continuità e della sopravvivenza della specie, è passato all’ultimo posto. Orbene, di quale “una caro” (una sola carne) stiamo cianciando? C’è chi vorrebbe che anche la Chiesa prendesse atto di ciò, ma il Papa può arrivare a dire che non siamo tenuti a giudicare, che dobbiamo essere aperti, solidali e accoglienti pure con i trasgressori, ma non possiamo pretendere che arrivi a smentire il suo Capo. Noi, piuttosto, domandiamoci se abbiamo margine di recupero. Ancora una volta è Gesù che ci indica una strada: tornare come i bambini, ritrovare quella genuinità e quell’ingenuità che ci consenta di ridare alle cose la giusta dimensione. I bambini sono il frutto di quell’”una caro”, pretendono che tale resti e soffrono se così non è. Diversamente, il Regno dei cieli ce lo possiamo sognare.

Scandalizzare i piccoli…

Inserito il 30 Settembre 2018 alle ore 10:16 da Plinio Borghi

Scandalizzare i piccoli sembra faccia parte del nostro DNA. Naturalmente il riferimento non è tanto ai bambini (anche se ci sarebbe da aprire un capitolo a parte su di essi tali sono le vessazioni e gli abusi che si perpetrano nei loro confronti) quanto in generale ai più deboli, agli indifesi, ai diseredati, agli emarginati, ai diversamente abili, ecc. ecc. La sopraffazione, perfino in parecchi ambiti istituzionali, è il nostro piatto forte, con contorno di soprusi e inganni. Oggi poi siamo in un vero turbinio e non sai più da che parte difenderti: prolificano i distributori di servizi che, nell’ambito di una concorrenza senza freni, sono impegnati ad irretire più sprovveduti possibile pur di lucrare un contratto. Questo è scandaloso! Figurarsi se i manigoldi di professione, di qualsiasi estrazione siano, non si sentono autorizzati a fare altrettanto, intervenendo in modo più o meno pesante, stupri compresi, proprio sulle categorie a rischio. Per comprimere il fenomeno sarebbe un grosso contributo se questi reati “minori” venissero puniti in modo esemplare e reale. Macché. Anche se li smascherano o li prendono, dopo due minuti sono liberi di continuare ad agire come se niente fosse. Pure questo significa creare scandalo. Il resto ce lo dice san Giacomo apostolo nella seconda lettura di oggi: “Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori … grida … alle orecchie del Signore. … Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piacere, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”. E pensare che nel vangelo Gesù ammonisce chi scandalizza: sarebbe meglio per lui mettersi una macina al collo e annegarsi! L’insensibilità ad ogni richiamo, però, sembra prassi e alle vittime non rimane che sperare almeno nella Giustizia divina: sia tale da riequilibrare le sorti. Il nostro Salvatore ce l’ha promesso e questo ci infonde un pizzico di forza per sopportare le angherie, anche se a causa di questi scandali, nei fatti, la nostra vita sociale è radicalmente cambiata. Il vangelo di oggi continua sferzante: se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti danno scandalo, tagliali, meglio entrare nel regno di Dio con uno solo di essi, piuttosto che nel fuoco eterno con entrambi. Di norma sono molto ottimista, ma ho la vaga impressione che se applicassimo alla lettera queste direttive ci ritroveremmo un Paradiso pieno di storpi.

Le lezioni di umiltà

Inserito il 23 Settembre 2018 alle ore 10:22 da Plinio Borghi

Le lezioni di umiltà che ci vengono dal Vangelo sono innumerevoli e cadono sempre a fagiolo in una società che ha fatto dell’egocentrismo, del primeggiare, del sopraffare gli altri, dell’autoreferenzialità i propri binari comportamentali. E non parlo solo di questa società, ovviamente. Il brano di oggi è chiaramente emblematico: da una parte il Maestro che parla con tragicità della sua morte e del grande trionfo della resurrezione e dall’altra un manipolo di discepoli che, lungi dal capirne la portata, discutono fra loro su chi sia il primo e su chi siederà domani alla destra del Messia. Tipico. Un giorno scrissi come debba sentirsi un celebrante mentre, predicando dall’altare, si rende conto che i fedeli non lo seguono (per incapacità o per distrazione) e la loro mente va dove i loro ordinari pensieri la portano. Anche questo fa parte della scarsa umiltà, carenza che induce alla gelosia, allo spirito di contesa, al disordine e a ogni sorta di cattiva azione, come dice San Giacomo nella sua lettera, proposta dalla seconda lettura. Non parliamo poi dell’invidia verso chi, invece, naturalmente umile e misericordioso con tutti, ottiene molta più attenzione e risposta alle sue aspettative di chi arranca disperatamente, disposto anche a vendere moglie e figli ai beduini pur di emergere. Brutta bestia l’invidia, che ti porta alla provocazione e a farti beffe del giusto, pur di sfidarne l’irreprensibilità e di farlo scendere al tuo livello! Ne abbiamo un esempio nella prima lettura, dal libro della Sapienza, dove gli empi, sfidando l’asserito aiuto da parte del Signore, lo vogliono eliminare perché crea loro imbarazzo. Troppo comodo negare Dio o disattenderlo platealmente, sfoggiando in modo sfrontato una presunzione di superiorità e poi, a fronte dell’effettiva potenza che da Lui deriva al credente, nascondersi dietro alla propria ignavia sopprimendo l’uomo di fede, per non saper reggere il confronto! E qui subentra, per l’umile doc, la vera prova del nove: saper resistere alla tentazione di reagire o di defilarsi e dimostrare invece da dove viene la forza che esprimiamo; solo in questo modo avremo vinto una doppia battaglia: rimanere noi stessi e spiazzare gli altri, che si ritroveranno alla fine con le armi spuntate. Se no, il sangue di Cristo e di tutti i martiri sarebbe stato versato invano. Ci soccorre come guida e stimolo il salmo responsoriale di oggi, che consiglio di portarsi a casa da Messa: “Sei tu, Signore, il mio sostegno”.

Perché occorre tanto soffrire?

Inserito il 16 Settembre 2018 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

Perché occorre tanto soffrire? La domanda sembra un po’ retorica, dati i motivi che stanno a monte dell’avventura terrena dell’uomo. Non lo è però più di tanto, se si guarda a quanta sofferenza ci attanaglia. Non bastassero malattie, guerre e conflittualità varie, che spingono milioni di persone ad abbandonare terre natie e affetti, si aggiunge anche il disagio sociale, frutto di squilibrio personale, di incapacità di affrontare le avversità, di naufragio anche delle minime aspettative, di insufficienti rapporti con gli altri. Fatto un rapido conto, sembra che di persone soddisfatte e felici ne rimangano ben poche. Una volta si abbinava questo status alla ricchezza (i soldi non fanno la felicità, si diceva ironicamente, ma aiutano) e al benessere (basta la salute..), ma oggi si constata che proprio in quelle condizioni e nei popoli più evoluti i suicidi prevalgono: probabilmente ai valori più veri e concreti si sovrappongono riferimenti fasulli ed effimeri, che i meno abbienti non si possono permettere. A leggere i passi che la liturgia ci propone oggi, poi, non è che ci sia tanto da stare allegri: soffrire sembra la normalità. Nella prima lettura Isaia ne subisce di tutti i colori e nel vangelo Gesù è perentorio: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” e non prima di aver affermato che “il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso..”. Non male come prospettiva, se si considera che è venuto per prendere su di sé, lui giusto, tutte le nefandezze degli uomini. Qui allora è opportuna una riflessione: non è vero che Dio ci vuole sofferenti e continuamente alla deriva, altrimenti poteva anche risparmiarsi tutto il progetto di salvezza e il sacrificio di suo figlio. La sofferenza fisica è nella natura delle cose e l’altra dipende dalla nostra debolezza umana. Egli ha voluto riscattarle entrambe offrendo il suo appoggio, col quale tutto si supera o si sublima. Isaia non si è sottratto ai suoi persecutori, anzi, si è offerto loro e li ha sfidati: “Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”. Anche la croce di Gesù si riferisce alla vita ordinaria del cristiano, ma non fine a sé stessa: “Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”. Far acquistare alla sofferenza una prospettiva diversa la attenua, la alleggerisce, la trasforma in gioia.

Il medico è bravo se guarisce…

Inserito il 9 Settembre 2018 alle ore 10:04 da Plinio Borghi

Il medico è bravo se guarisce. Sì, va bene che non ci piace essere dei numeri, vogliamo essere trattati da persone prima che da pazienti, ci va di essere ascoltati, vorremmo più empatia con chi ha cura di noi, ma se il medico con tutti questi requisiti alla fine non capisce qual è il tuo male e non riesce a guarirti non è un bravo medico. Nulla di cui meravigliarsi, comunque, siamo umani e l’imprinting scatta con chi ci nutre e ci fa star bene. Gesù lo sapeva bene, tanto che dopo aver sfamato più di cinquemila persone si rivolge ai suoi “inseguitori” redarguendoli che lo stavano cercando per quello, non tanto per ascoltare la sua parola. Infatti, un paio di domeniche fa abbiamo visto che parecchi discepoli si sono disciolti come neve al sole a causa di discorsi troppo impegnativi. Oggi torna alle guarigioni “ad effetto”, memore anche di quanto il profeta Isaia diceva di Dio, rivolto ai smarriti di cuore e che la prima lettura ci riporta, e di come si sarebbe manifestata la Sua salvezza: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto…”. Nel vangelo di Marco sono i guariti ad esaltarlo come Messia, portatore della salvezza promessa da Dio. In altre circostanze è Gesù stesso che adduce questi “fenomeni” a dimostrazione della sua figliolanza col Padre, come rispose agli emissari di Giovanni Battista, quando gli mandò a dire: “Sei tu quello che stavamo aspettando o ne dobbiamo attendere un altro?”. In questa logica delle cose dovrebbero muoversi anche tutti i pastori di anime e i missionari: non si può pretendere che passino le parole di salvezza per l’anima, prigioniera del corpo, se prima non ci si prende cura di quest’ultimo e delle sue esigenze di vita. I motivi sono sostanzialmente due: è il veicolo attraverso il quale passano tutte le nostre espressioni, incluse quelle mentali, morali e spirituali, per cui non si può prescinderne; è il percettore che il regno annunciato è già qui, anche se non ancora conseguito con completezza, e se il percettore non funziona a dovere, fatica a compiere la sua funzione. San Giacomo apostolo, nella seconda lettura, porta esempi semplici del nostro comportamento distorto, riferendosi ai favoritismi, tendenze che possiamo rimuovere se la mente è sgombra e pronta: “Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono i ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?”.

Il “cerchiobottismo”

Inserito il 29 Agosto 2018 alle ore 17:12 da Plinio Borghi

Il “cerchiobottismo”, neologismo tanto caro all’ex pm Di Pietro, che l’ha coniato, sintetizza non certo bene, ma in modo efficace il noto barcamenarsi pur di “rimanere nel giro” senza compromessi : non farsi coinvolgere più di tanto, esprimersi nel merito evitando però di urtare la suscettibilità altrui, ecc. Si sa che il termine trae origine dal famoso “un colpo alla botte e uno al cerchio”, essi invece sì necessari per unire bene le doghe al fine della tenuta poi del vino. Raramente l’atteggiamento, tradotto per metafora nella vita, ha assunto valenze positive, salvo quando lo si accosta a qualche delicata azione diplomatica, per non scivolare in posizioni conflittuali. Perché? Ci sono svariati motivi, come quello di non voler dare mai la sensazione di una collocazione ben definita, di trasmettere la percezione che ci sia sempre qualcosa di sfuggente e così via fino a far avvertire quella sensazione di falsità in quel che si fa. Qui non siamo tanto alla solita questione delle maschere che s’indossano abitualmente per vendere l’immagine di quello che magari vorremmo essere: in tal caso ci si avvicinerebbe, cosa non meno diffusa, al classico “doppiogiochismo”, altro neologismo più datato, che però il mio vecchio Devoto-Oli non riporta. No, nel caso in questione il motivo saliente è che nel dire e nel fare viene a mancare l’elemento più importante: il cuore. Non c’è stimolo, non c’è amore, non c’è quell’entusiasmo che ti spinge a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”. Ci si barcamena, appunto, ed è una posizione tanto diffusa quanto fastidiosa. Figuriamoci se, adottandola anche nel nostro rapporto con Dio, Egli non l’afferra immediatamente! Gesù, confutando le accuse formali che scribi e farisei rivolgono ai suoi discepoli, cita oggi il profeta Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”, parole riferite a tutte quelle regole poste alla base del comportamento in funzione degli uomini, ma che non rispondono alla preoccupazione per il Signore. Poi il nostro Maestro va giù forte sui “cerchiobottisti”: quello che contamina l’uomo non è quello che entra in lui, ma quello che ne esce e giù con l’elenco di tutte le nefandezze di cui siamo capaci. A questo punto vale la pena di rileggere con calma il salmo responsoriale per scoprire come “i puri di cuore abiteranno nella casa del Signore” e forse allora ci darà più soddisfazione un bel sentiero in salita che non quello che si limita ad un modesto saliscendi in quota.

La capacità di persuasione

Inserito il 26 Agosto 2018 alle ore 11:02 da Plinio Borghi

La capacità di persuasione è una dote indubbiamente molto rara, poiché deve tener botta a parecchi ostacoli che vanno dai limiti personali alla diffidenza altrui; questa a sua volta generata o da antipatie o da pregiudizi per ragioni di appartenenza a differenti gruppi o schieramenti, sia di ordine sociale che religioso. Nella mia prolungata frequentazione di ambienti politici, sindacali, ecclesiastici e del volontariato raramente posso dire d’aver incontrato persone che mi abbiano persuaso. Infatti, non basta essere dei bravi oratori o degli eccellenti predicatori per riuscire a trasmettere credibilità in quello che si sta propugnando, ma serve una marcia in più: far percepire l’onestà intellettuale, dare prova di consequenzialità nelle scelte e nel comportamento, far sentire che il rispetto per gli interlocutori, pur di opinioni diverse, è reale. Purtroppo, invece, la maggior parte dei personaggi che si rivolgono al pubblico si preoccupano di affinare il linguaggio, di costruire discorsi ad effetto, di far presa con progetti anche interessanti, ma afferri che sono molto attenti a far passare una posizione di parte e preconcetta che alla fine non ti convince o almeno non fino in fondo. Mi verrebbe da citare qualche esempio di stelle rare che han brillato in quest’ultimo secolo, ma rischio di trascurarne alcune e soprattutto di mettere in cattiva luce degli ottimi maestri, che hanno dato e formato molto, pur privi della dote di persuasione, che poi è un fatto del tutto soggettivo: quel che non ha persuaso me può benissimo aver convinto altri. Ognuno filtri le proprie esperienze con quest’ottica e ne tragga le relative valutazioni. Quello che oggettivamente possedeva la dote della persuasione era senz’altro Gesù Cristo, che predicava e agiva spassionatamente: in lui non si avverte barlume di tornaconto personale, ha un progetto di salvezza che ti stimola, un messaggio che ti coinvolge, parole che ti penetrano. Certo, tutto ciò ti interpella pure, in quanto, pur lasciandoti ampia discrezionalità di seguirlo o meno, è esigente e non si accontenta di mezze misure. Ne abbiamo palese riscontro nel vangelo di oggi, quando avverte serpeggiare nei suoi interlocutori profonde reticenze. Li lascia andare senza remore per la loro strada e anzi provoca in tal senso anche gli apostoli: “Forse anche voi volete andarvene?”. E qui, dalle parole di Pietro, scatta la prova di una ineguagliabile capacità di persuasione: “Da chi andremo? Solo tu hai parole di vita eterna..”. Usiamo questo metodo, prima di inseguire da imbambolati tanti falsi maestri!

La troppa insistenza…

Inserito il 19 Agosto 2018 alle ore 10:11 da Plinio Borghi

La troppa insistenza che da qualche domenica a questa parte la liturgia pone sullo stesso argomento mi fa capire che esso dev’essere per il cristiano un pensiero fisso, dal quale non va assolutamente distolta l’attenzione. Non potrebbe essere altrimenti, trattandosi dell’Eucaristia, che rappresenta Chi ti da la vita, te la nutre, te la sostiene e ti fornisce tutte le risposte di cui hai bisogno. Per una sorta di associazione d’idee, m’è passata davanti la figura della mamma, che per tutti noi ha ricoperto esattamente gli stessi ruoli. Non abbiamo potuto vivere senza che lei fosse un punto di riferimento costante e, che sia ancora fra noi o sia passata a miglior vita, non passa giorno senza che il nostro pensiero non si volga a lei: un chiodo fisso, appunto. E lei quali preoccupazioni aveva? Nutrirti, prima di tutto e quindi allevarti nel migliore dei modi. Mi ricordo che al mattino, mentre ci preparava per la scuola, la prima domanda che rivolgeva a mio padre era: “Cosa facciamo da mangiare oggi?”. Non era poi facile metter su la pentola con nove bocche da sfamare (nonna compresa) e le ristrettezze economiche incombenti, senza contare lo sforzo di fantasia, che noi avvertivamo solo quando non ne poteva più è sbottava: “No ghe ne posso più, no so più cossa far da magnar!”. Chissà quante volte avremo sentito questa frase pronunciata anche dalle nostre donne! Beh, per l’anima le esigenze non sono affatto diverse: sono tante e impellenti le risposte che ci attendiamo e pretendiamo dalla vita, che la fame diventa praticamente inesauribile. Qui scatta la martellante risposta di Gesù: “Io sono il pane vivo, ma non è lo stesso che ti ha dato tua madre e che dà solo un sostentamento fisico. Io sono quel pane che soddisferà tutte le tue ansie, e non ti permetterà di morire, se tu te ne nutrirai con fede e con costanza. Chi mangia di me non avrà più fame”. Soprattutto è gratuito, almeno sul piano economico. Col tempo, e acquisendo il senso dell’infinita misericordia di Dio, ho anche imparato che non c’è motivo alcuno per non mangiarne e che ogni allontanamento da Cristo e dalla sua mensa è puramente specioso; anzi, proprio nel momento di maggior debolezza va ricercato quel sostentamento. La prima lettura, dal libro dei Proverbi, è molto chiara in tal senso. La Sapienza, a chi è privo di senno, … dice: ”Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete, andate dritti per la via dell’intelligenza”.

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