Inserito il 30 Maggio 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
“Te lodiamo Trinità..” si cantava convinti e si canta tuttora, specie in questa giornata dedicata, anche se le parole in uso nella prima metà del secolo scorso sono state modificate, dati i riferimenti a “squadre” ed “eserciti”, tanto cari ad un’epoca che ha lasciato tracce nell’impostazione di inni e altro fin oltre gli anni ’50. Mi sono sempre chiesto il senso di questa solennità subito a ridosso della conclusione di un tempo forte, come quello appena vissuto, nel quale abbiamo contemplato il massimo dell’esaltazione dei ruoli delle tre Persone che trovano la loro unità in Dio. In effetti l’introduzione della festa a livello di Chiesa universale è abbastanza recente (fatte le debite proporzioni) e risale al XIV secolo, anche se la sua genesi affonda le radici fin nei primi secoli. E là, attorno al quarto secolo, troviamo una prima risposta, che definirei quasi logistica prima ancora che teologica: solo con la conclusione del tempo pasquale e la discesa dello Spirito Santo si ha la completa “definizione” della Trinità, non tanto in ciò che rimane un mistero quanto nel contenuto del messaggio che porta con sé e del quale abbiamo sviscerato nel corso degli anni i vari aspetti e significati. Quindi l’urgenza dei nostri Padri di non frapporre indugio a mettere a fuoco questa mirabile sintesi di armonia già in quello che una volta era il primo giorno del Tempo Ordinario (allora la Pentecoste durava fino al sabato successivo) fu una vera e propria esigenza, che si andò sempre più diffondendo nelle Chiese locali senza modifica, anche se ci vollero poi dieci secoli per la sua ufficiale introduzione. Ad ogni modo, quello che è stato un preciso mandato di Gesù di operare, predicare e battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo non ha mai trovato soluzione di continuità, tanto da diventare premessa ad ogni azione liturgica, conclusione di ogni preghiera e riferimento finale degli inni ufficiali, che terminano tutti con la cosiddetta “dossologia”, che tende a riproporre e ad esaltare la portata del mistero per eccellenza. Ne consegue, e non poteva essere altrimenti, che la preghiera alla SS. Trinità è la più diffusa, la più praticata e la più completa. Sta a noi non ridurla a semplice routine, limitandoci a una ripetizione asettica, e a darle quel dovuto approfondimento, che tiene conto della portata teologica, storica, sociale e universale di cui è carica. Quando recitiamo anche un semplice “Gloria al Padre” teniamo conto di questa pregnanza.
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Inserito il 23 Maggio 2021 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Quel che conta è farsi capire: dovrebbe essere l’obiettivo di ognuno di noi nel mettersi in posizione di dialogo con l’altro, a maggior ragione poi se questa azione diventa obbligatoria per motivi istituzionali o funzionali. Invece sembra che in parecchi casi si faccia esattamente il contrario e ne abbiamo avuto una prova ampia durante la gestione di questa pandemia: la confusione è regnata sovrana, al punto da non far mai venir meno lo stato di tensione fra governanti e governati. Se poi ci aggiungiamo la ciliegina dell’insana abitudine di sostenere sempre il contrario di quel che afferma la parte avversa, non a ragion veduta, ma per partito preso, il quadro è completo. Oggi lo Spirito Santo ci viene a dire e a dimostrare che si deve uscire dal sistema “torre di Babele”, dove tutti parlavano la stessa lingua e la reciproca incomprensione fu totale. Gli apostoli, che pur è noto non aver avuto un’estrazione culturale e sociale particolare, anzi, escono dal cenacolo e si esprimono in tutte le lingue che gli eterogenei astanti afferrano come proprie, ma soprattutto usano un linguaggio “potabile”, che non si presta a equivoci o fraintendimenti. Fosse stato un messaggio facile la novella che si apprestavano ad annunciare, si potrebbe pensare che perciò il consenso doveva essere scontato. Macché. Predicare una legge tutta all’opposto della logica corrente, parlare di amore anche per i nemici, raccontare di un Figlio di Dio incarnato, morto e risorto, era semplicemente ostico e irricevibile; eppure entrava nei cuori degli ascoltatori come balsamo al punto di mietere conversioni a nastro. Era ed è ovvio che esiste un vuoto da riempire che nessun altro messaggio è in grado di fare. È altrettanto ovvio, tuttavia, che la chiave di trasmissione non è la ricerca del plauso e del consenso, quella lasciamola ai politici, bensì l’interesse per le attese degli altri, dimostrabile da un lato con il completo annullamento di noi stessi nella Parola e dall’altro con la coerenza nel metterla in pratica. Il brano della lettera di San Paolo ai Galati, in lettura oggi, è esemplificativo in tal senso, anche se può sembrare un tantino manichea: la logica dello Spirito è esattamente il contrario di quella della carne, che regola invece la maggior parte delle nostre azioni, ma non è risolutiva per obiettivi a lunga scadenza. Come cristiani siamo chiamati a compiti ben più ampi e incisivi e allora saremo capiti. Rileggiamoci la sequenza recitata prima del vangelo e ce ne renderemo conto.
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Inserito il 16 Maggio 2021 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Siamo alla prova del nove: tutto quello che ci era dato e concesso di conoscere è completo ed esauriente. Ora dobbiamo solo dimostrare di aver colto il senso della venuta del Figlio di Dio fra noi, di averne recepito e compreso il messaggio, di aver metabolizzato la sua vittoria sulla morte (i riscontri utili in questi quaranta giorni non sono mancati), ma soprattutto di dar priorità al comandamento ricevuto al momento del congedo, cioè di portare in ogni angolo della terra la lieta novella. Non dovremo fare i conti da soli. Arriverà lo Spirito Santo a inquadrarci nella nostra operatività, ma spetta a noi la verifica per riscontrare i vari livelli con i quali ci disponiamo ai blocchi di partenza: apertura mentale, curiosità, voglia di approfondimento, missionarietà, amore, fede. Né più né meno di quello che ha animato l’azione degli apostoli, riferita dagli Atti che la liturgia ci ha sottoposto nelle letture di queste settimane. Né più né meno di quello che esprime San Paolo oggi agli Efesini. Ogni limite, ogni titubanza, ogni eventuale distinguo, ogni renitenza che il timore di essere creduloni dovesse insinuare non farebbero che limitare l’efficacia dell’intervento dello Spirito. Ciò che Esso si dispone a rivelarci non è sottoposto al vaglio della nostra ragione, la quale, tuttavia, è tenuta a concorrere per dare alla fede quel supporto di analisi necessario ad inquadrare e a rafforzare la nostra testimonianza. In questo consiste la prova del nove, che un tempo, quando i calcoli si facevano a mano, era usata per quagliare la correttezza del risultato. Oggi ci è richiesto di capire perché Gesù sia asceso al cielo e non sia rimasto Egli stesso in mezzo a noi. È vero, ce l’ha detto che il suo compito non era finito, che sarebbe salito a preparare un posto per ciascuno di noi al banchetto celeste, che il suo posto era alla destra del Padre, come recitiamo nel Credo, che il suo progetto di salvezza avrà termine quando tutti i popoli gli saranno sottomessi, incarico che ci ha affidato, e che comunque sarà sempre al nostro fianco; ma fatichiamo a trovare con la continuità necessaria questo punto d’appoggio. Spesso ci sentiamo smarriti, impotenti ed è qui che subentra la forza confermatrice dello Spirito Santo, che celebreremo domenica prossima. Mi piace il passaggio di San Paolo nella citata lettera agli Efesini: “Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?” È sempre lui e ora è lì “al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose”. Fidiamoci.
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Inserito il 9 Maggio 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
I paragoni valgono, eccome! Ovviamente se posti in termini corretti, cosa che, tendenzialmente, non ci riesce tanto facilmente, portati come siamo a trasformarli tout court in giudizi. Oserei dire che in assenza di parametri di riferimento viene meno anche ogni capacità di valutazione, con la conseguente privazione di qualsiasi stimolo. Il paragone, come tale, non deve generare invidia, ma la presa d’atto di una realtà per approdare, se del caso, a una sana emulazione o, ancor più, a far meglio. Chi è tronfio di sé stesso ritiene di non aver nulla da imparare dagli altri, che anzi è portato a guardare dall’alto in basso, e perde in tal modo l’occasione di arricchirsi e migliorarsi. Purtroppo i media ci stanno subissando di queste figure negative, tuttologi che esprimono una sicumera fastidiosa, specie se continuano a parlarsi addosso senza tenere in alcun conto il contributo altrui, quando non cerchino anche lo scontro, piuttosto che favorire il confronto. Durante questa pandemia, poi, il florilegio di simili personaggi si è evoluto, alimentato dal protagonismo e da esigenze di spettacolo sempre utili all’audience. Tuttavia, non meravigliamoci più di tanto: il fenomeno non è che la proiezione del nostro stesso modo di essere e non da oggi. Una cosa è certa: non è foriero d’amore, anzi, va proprio nella direzione opposta e finisce per veicolare invidia e grettezza. Oggi la liturgia ritorna su quello che dovrebbe essere lo stile di ogni cristiano: agire per amore, amarsi gli uni gli altri come criterio che identifica e caratterizza la sequela di Cristo. E se insiste a battere questo tasto è perché non è cosa facile, tuttavia è imprescindibile. Anche Gesù, a scanso di equivoci o interpretazioni limitative, ricorre nella fattispecie a un paragone, che diventa non solo vincolo, ma stimolo per un massimo irraggiungibile: “come”. Dopo aver raccomandato ai suoi di rimanere nel suo amore, osservando i suoi comandamenti, nello stesso modo in cui Egli è rimasto nell’amore del Padre, realizzando fino il fondo il suo progetto, aggiunge: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”. Non potrà mai essere che alcuno di noi ci riesca, troppo grande arrivare a dare la vita e, anche fosse, lo spessore del nostro Maestro sarebbe semplicemente ineguagliabile. Appunto per questo il termine di paragone pone un’asticella che non ci consente mezze misure. Sta a noi sublimarla nella sequela puntando a raggiungerla.
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Inserito il 2 Maggio 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Qui, o tutti o nessuno: il “si salvi chi può” vale in un naufragio o in una qualsiasi calamità naturale, ma in presenza di una pandemia, checché ne dicano i detrattori, non esiste che qualcuno pensi di sfangarla da solo. Lo continua a ribadire anche il Papa e non per un generico senso di solidarietà: mai come in questi momenti si percepisce così bene il concetto di unitarietà di tutta l’umanità. In altri frangenti l’egocentrismo, il senso di autosufficienza, il fastidio di dipendere dagli altri ci inducono a prendere le distanze, a pensare per sé, a ritenere di non aver bisogno di alcuno, e ciò scatena le più classiche presunzioni di furbizia. Dopo più di duemila anni, si fa ancora fatica a digerire bene il discorso di Menenio Agrippa e anzi lo si ritiene diretto ai babbei. Eppure non c’è espressione della natura che non dimostri l’interdipendenza di ogni fenomeno: le conseguenze del surriscaldamento del clima non sono che l’esempio più immediato. Eppure qualcosa deve averci fatto capire il processo di globalizzazione, per cui se la Russia sternuta la Patagonia va a letto con l’influenza. Allora? Tutti responsabili, nessun responsabile? Eh no, troppo comodo! Ancora una volta Gesù entra a piedi uniti e in modo inequivocabile nella questione, prendendo spunto da un elemento naturale e di una semplicità disarmante: la vite e il suo ciclo produttivo. In noi profani il pensiero corre subito al vino o al massimo ai bei grappoli maturi, ma gli agricoltori sanno benissimo quanta attenzione ci voglia a monte per ottenere un risultato apprezzabile. Il nostro Maestro ci mette a disposizione un elemento in più, che ci rassicura e nello stesso tempo ci impegna: “Io sono la vite e voi i tralci”. In buona sostanza, se vogliamo far frutto, lì dobbiamo stare attaccati e accettare di essere anche potati, perché questo serve a migliorare la produzione. Se il tralcio si monta la testa e pensa che quel che conta sia solo lui, che regge il prodotto tanto desiderato, è destinato a una fine vergognosa: s’inaridisce, si secca e sarà buono solo per alimentare il fuoco. Il fatto poi che conti solo se è un tutt’uno con la vite non è una diminutio, anzi, giustifica e valorizza il ruolo della vite stessa. Gesù ancora una volta ci fa capire che ha bisogno dell’uomo, ha bisogno della nostra testimonianza affinché il suo progetto abbia un senso. Ha bisogno di un’umanità che non si distrugga nella contrapposizione. Non a caso identifica nell’agricoltore il Padre stesso. Siamo nelle sue mani, siamo in buone mani.
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Inserito il 25 Aprile 2021 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Conoscere e sentirsi conosciuto è una sensazione di reciprocità così particolare e preziosa che non credo trovi facilmente una completa applicazione nei nostri rapporti umani, anzi. Proviamo un po’ a riflettere su tutti gli affetti, le amicizie, le conoscenze che ci appartengono. Tralasciando pure i luoghi comuni: che non riusciremo mai a capire fino in fondo quelli dell’altro sesso, che ognuno mostra sempre la faccia che gli fa più comodo, che siamo adusi all’uso di maschere diverse per ogni situazione, ecc. e senza contare il senso di fastidio che a volte ci dà l’essere troppo leggibili, rimane pur sempre un’impresa saper costruire un’intesa profonda e appagante. Quella tra due innamorati potrebbe sembrare la condizione ideale, ma quante attenzioni richiede il saper conservare l’equilibrio necessario affinché ognuno si possa sentire “completo” nel rapportarsi all’altro e sappiamo quanto sia arduo. Quella tra genitori e figli regge finché i pargoli dipendono in toto dai primi, in sostanza nei primi tre-quattro anni di vita: a mano a mano che si sviluppa il senso critico autonomo sono cavoli amari e subentrerà un senso di disagio l’esser troppo sgamati dai propri intimi. D’accordo, nel momento in cui si sarà lavorato bene, rimarrà sempre l’amore reciproco e sviscerato, ma non l’abbandono totale. Eppure, di fatto, ne avremmo veramente bisogno, saremmo anche disposti, potendoci fidare al cento per cento, di essere gregge, di essere la pecora che conosce bene il proprio pastore ed è a sua volta veramente conosciuta, chiamata per nome e amata da lui. Subentrerebbe quella tranquillità che ti consente di lasciarti andare perché sai che non sarai mai fregato e anzi cercato se ti perdi, persino se tradisci. E invece siamo tanto diffidenti perché circondati da troppi mercenari, pronti a lasciarti in balìa del primo lupo. Il quadro idilliaco che ci presenta oggi il vangelo è una realtà diversa, ti concretizza una figura di Buon Pastore reale, affidabile, che ti conosce in tutti i sensi come nessun altro, che ti chiama per nome, col quale puoi instaurare un rapporto individuale ed esclusivo, in cui lasciarti andare ad occhi chiusi, perché di un amore inesauribile. Il suo. E il tuo? Siamo alle solite, si tratta di fede e di sentimento corrisposto. Teniamo conto che, se vissuto bene e fino in fondo, questo diventa anche un valido supporto per vivere al meglio ogni tipo di amore umano, semplicemente seguendo le direttive che ci ha impartito in merito e riassunte nel Vangelo.
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Inserito il 18 Aprile 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
L’altra faccia della medaglia della Resurrezione è la testimonianza. Domenica scorsa, complice San Tommaso, era all’ordine del giorno la credibilità e abbiamo considerato quanto arduo ne sia il percorso, sebbene lo Spirito Santo abbia fatto la sua parte. Tutte le medaglie, comunque, si possono definire tali se hanno due facce, a prescindere da quale sia il fronte e quale il retro. Nel nostro caso la cosa è del tutto indifferente: non può sussistere l’uno senza l’altro. In buona sostanza, quand’anche raggiungessimo una piena e consapevole credibilità e non la testimoniassimo, ogni risultato si limiterebbe a una questione personale e sarebbe inutile, peggio, Gesù sarebbe morto invano: Egli ci ha investito con la lieta novella perché la diffondessimo e il suo progetto di salvezza si compirà quando tutti i popoli saranno condotti a Lui. Infatti, si è congedato proprio con quest’ordine perentorio: andate e diffondete il Vangelo in tutto il mondo. Gli Atti degli Apostoli che in questo periodo stiamo leggendo riportano proprio le prime mosse di questa Chiesa missionaria. E Pietro oggi, nel rinfacciare ai conterranei il mancato riconoscimento della figura di Gesù e la sua morte, non se la sente poi di rimproverarli più di tanto, perché così facendo anch’essi, nella loro ignoranza, hanno involontariamente contribuito al raggiungimento dell’obiettivo, coronato dalla Resurrezione: “Noi ne siamo testimoni”, afferma e apre anche per loro una porta, quella della conversione, epilogo concreto e riscontro del livello di efficacia dei due percorsi di cui stiamo parlando. A tal proposito un mio vecchio insegnante, Mons. Vecchi, soleva ripeterci che sarebbe stato soddisfatto di tutta la sua vita da prete se fosse stato sicuro di aver provocato anche una sola conversione, tanto la riteneva obiettivo della sua fede e della sua missione. Per riuscirci, anche noi dovremmo essere in grado di far ardere il cuore dei nostri interlocutori quando professiamo le sacre scritture, come fu per Gesù con i discepoli di Emmaus. Sarebbe il segno di un’espressione di forte credibilità e di una stimolante capacità di testimonianza, che il più delle volte non ha tanto bisogno di parole quanto di un bell’esempio coerente e trainante. Chi ci vede dovrebbe sempre esclamare: “Da come si amano e vivono la pace, si vede che sono cristiani!”. Preghiamo allora con la colletta alternativa di oggi: “Fa’ di noi i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore”.
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Inserito il 11 Aprile 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
È una questione di credibilità: aver fede non vuol dire prender le cose a scatola chiusa, senza un minimo di analisi e un graduale processo di introiezione. Non a caso tutti siamo passati per una fase d’iniziazione, durante la quale, a seconda dell’età e del livello di comprensione, i concetti vengono elaborati e trasmessi. Altrimenti, si rischia di non avere poi né la capacità né le risorse per alimentare la pur debole fiammella. Per adire tale percorso occorre che tutto ciò che via via si acquisisce, per quanto apparentemente iperbolico o astratto, sia credibile, risponda cioè a criteri di logica consequenzialità. Il criterio è analogo a quello che si applica quando ti raccontano un fatto o una notizia ovvero ti indicano un procedimento: per corrispondervi deve quanto meno avere un fondamento di veridicità, altrimenti tendi a rifiutarlo in partenza. Sulla base di tale impostazione è stato superato l’illuminismo ottocentesco e i filosofi moderni si confrontano con la Chiesa sulle verità di fede. Tuttavia, affrontare il tema della Resurrezione rimane cosa impervia. Lo fu allora per gli apostoli, increduli anche di fronte all’evidenza dei fatti, lo è stato sempre nel corso dei secoli e lo è tuttora anche per i credenti stessi, figurarsi per i detrattori. Ne aveva ben donde, quindi, il povero Tommaso, risoluto a non credere nemmeno ai suoi amici: per quanto Gesù lo avesse anticipato, non era esistito che qualcuno fosse risorto dai morti (nemmeno la vicenda di Lazzaro aveva contorni molto chiari) e comunque non v’erano motivi di veridicità. Poi ha dovuto ricredersi e s’è beccato anche i rimbrotti del Maestro: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”. Per tutti, però, noi compresi, il passaggio è avvenuto e avviene mediante l’illuminazione dello Spirito Santo: senza è impossibile. Agli stessi protagonisti di allora, infatti, non è bastato assistere agli eventi. Eppure oggi siamo in grado di esserne pienamente convinti e di riuscire a convincere, perché vi sono tutti gli elementi per trasmettere la credibilità necessaria, a cominciare da quello più lapalissiano: solo in un modo Dio poteva porre il sigillo di garanzia al suo progetto di salvezza e cioè con la vittoria sulla morte, cosa di sua esclusiva pertinenza. Ne consegue, come si è sempre detto anche da parte di chi non crede, che senza la Resurrezione nulla del cristianesimo starebbe in piedi. Allora fare i San Tommaso oggi sarebbe solo pretestuoso.
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Inserito il 4 Aprile 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Canta il gallo per la prima volta
e tu, Pietro, lo senti bene,
oh se lo senti! Te l’aveva ben detto
il Maestro che non ce l’avresti fatta!
Rinnegato, l’hai già rinnegato,
tremante alle parole d’una serva
impotente. Paura. Ma come?
Proprio tu, così focoso
da azzardar di brandir la spada
e render perciò famoso
Malco, uno degli anonimi servi
del sommo sacerdote,
recidendogli l’orecchio. Proprio tu,
che dicevi con forza che saresti
morto con Lui! È ovvio, millantavi.
Mi son familiari le tue debolezze!
Mi ritrovo nelle tue titubanze:
avrei saputo io agir diversamente,
pur con tutto l’amore
che sentivo d’avere in cuore?
La situazione incalzava, stava
precipitando, forse… si poteva
rimediare, c’era ancora posto per
un po’ di solidarietà col tuo Gesù.
La carenza di coraggio
ti ha indotto a ripeterti
e per ben due volte appunto.
Tardi hai realizzato
che il nostro Maestro tutto previde,
e che andava a morire
anche per regalarti misericordia.
E ti sei messo a piangere,
amaramente, quando
cantò il gallo per la seconda volta.
Corri Pietro, corri al sepolcro!
Le donne t’hanno raccontato
che il tuo Gesù è risorto
così, come aveva detto.
Serpeggiava sconforto
fra voi, pavidi apostoli,
mentre loro a curarne il corpo
s’apprestavano amorevolmente.
Sulla pietra rotolata sfolgorante
l’angelo le rassicurò: è risorto!
Ma tu, irruento come sempre,
vuoi verificare. Corri Pietro,
Giovanni, più giovane, va veloce,
ma non ti precede:
ti lascia il passo e tu vedi
bende piegate in sepolcro vuoto.
Il Cristo è veramente risorto!
Anche i due delusi di Emmaus
sono precipitosamente tornati
sui loro passi, trafelati
dopo averlo riconosciuto solo
all’atto di spezzare il pane.
Ma non era forse pieno d’ardore,
mentre parlava, il loro cuore?
Oh come vorrei anch’io provare
un’emozione come quella
nell’ascoltare la lieta novella!
Dove ha detto che v’aspettava?
In Galilea! Corri Pietro! Correte,
tutti. È la buona occasione
per far festa con emozione,
per sentire che ha ancora senso
augurare in modo intenso
Buona Pasqua di resurrezione!
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Inserito il 28 Marzo 2021 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Crocifiggilo! Crocifiggilo! L’eco di quelle grida sollecitate mi risuona martellante in testa e sovrasta gli osanna dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, che oggi festeggiamo. Anche lui, che pur non disdegna di essere salutato come Re d’Israele, non sembra molto entusiasta nel procedere cavalcioni di quell’asina e non per la modesta cavalcatura: sa già l’epilogo della sua storia; d’altronde è per quello che è venuto, ma non perciò la prospettiva delle indicibili sofferenze dovrebbe sembrare meno amara. È vero che abbiamo vissuto la Quaresima per prepararci il più degnamente possibile alla morte e resurrezione del Redentore e che oggi siamo al dunque, con la prima lettura del vangelo della passione, ma la festa delle Palme non mi ha mai portato l’entusiasmo alle stelle, perché ci mette di fronte a due delle nostre più congenite debolezze: da una parte l’instabilità nei confronti di un bene come la pace e dall’altra i comportamenti contraddittori. La distribuzione dell’ulivo dovrebbe essere foriera di uno stato d’animo radicato e consolidato nella pace. Macché! Al primo callo che ci viene pestato siamo pronti a reagire come belve. E il Signore lo sa bene, non finisce mai di darcela e raccomandarcela, anche se i risultati continuano a essere molto scarsi. Quanto alle contraddizioni, l’aspetto è ancora più subdolo e investe in pieno la fede stessa. Siamo come le anguille, inafferrabili, sguscianti da tutte le parti, inaffidabili. Pronti a salire sul carro del vincitore, venderemmo padre e madre ai beduini pur di non essere presi in contropiede. Critici all’inverosimile, diffidenti su tutto (l’attuale aspetto dei vaccini è emblematico), non mostriamo alcuna renitenza a mettere in gioco anche una fede, che a parole proclamiamo granitica, se ci convinciamo che le risposte migliori stanno altrove. È tutto questo che pesa sulla sofferenza che Gesù si appresta a subire e lo fa per consentirci di ottenere il massimo della misericordia divina. Nei tre giorni di esposizione del Santissimo che ci separano dal Triduo, dove mediteremo sui più grandi misteri del progetto di redenzione, non sarebbe male se andassimo a trovarlo e ci limitassimo ad ascoltarlo, come faceva il santo Curato d’Ars, senza tediarlo con le nostre pene e le giustificazioni che già conosce. Chissà che sentendoci interpellati da Lui e comunque amati, non scatti quel momento di resipiscenza che ci apre ben bene gli occhi.
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