Il blog di Carpenedo

Il blog di Carpenedo
La vita della Comunità parrocchiale dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo

Dobbiamo rinascere dall’alto

Inserito il 9 Gennaio 2011 alle ore 08:00 da Don Stefano Cannizzaro

Dopo le festività del Natale, in cui abbiamo celebrato la nascita e i primi giorni di vita del bambino Gesù, la liturgia ci fa fare un salto di circa trent’anni. Ritroviamo Gesù al momento del suo battesimo al fiume Giordano. Dopo gli anni passati nella sua casa di Nazareth, con Maria e Giuseppe, periodo di cui non sappiamo praticamente nulla, Gesù inizia una nuova fase. Dal battesimo in poi, per tre anni, Gesù percorrerà in lungo e in largo la Galilea, la Giudea, la Samaria e i paesi vicini predicando e compiendo miracoli, fino a giungere a Gerusalemme, dove sarà condannato e crocifisso e dove risorgerà il terzo giorno. è bella la coincidenza che pone l’inizio di questa nuova fase della vita di Gesù con l’inizio di un nostro nuovo anno. Gesù, poco tempo dopo del suo battesimo, parlando con Nicodemo sottolinea l’importanza di “rinascere dall’alto” per poter veramente iniziare un cammino di conversione. Bisogna “rinascere dall’acqua e dallo Spirito”, per accogliere la salvezza che Gesù è venuto a portare a tutti noi.

L’augurio per questo nuovo anno è quindi di saper anche noi continuamente nel nostro cammino rinascere dall’alto a vita nuova, sapendo accogliere nella nostra vita il messaggio di salvezza di Gesù, il “figlio amato dal Padre”.

Don Stefano

BUON ANNO A TUTTI!

Inserito il 1 Gennaio 2011 alle ore 00:00 da Don Danilo Barlese

La sintesi più bella dell’augurio di Buon Anno la offre l’immagine di copertina che riporta un antico calendario delle feste cristiane realizzato su un blocco di pietra (Ravenna, VI secolo).

Al centro delle vicende del tempo è scolpita la CROCE di Cristo.
Ecco il “Buon Anno” più bello: auguriamoci che il 2011 ci veda più capaci di porre Cristo al centro della nostra vita, della gestione del nostro tempo, del senso delle nostre decisioni.

Il tempo della nostra vita sgorga dal cuore di Dio. Dio Padre ci ha scelti prima della creazione del mondo con il nostro nome e cognome. Desidera accoglierci al suo cospetto per una festa senza fine nella pienezza dell’amore. Il nostro cammino nella storia racconta questa chiamata e rende testimonianza al Figlio di Dio, il Crocifisso Risorto. Gesù ci salva dall’opera del male che fin dagli inizi della creazione vuole impedire la vera gioia con la menzogna e l’odio, portatori di morte.

Cristo torna al centro del nostro calendario e della nostra agenda quanto più apriamo il cuore alla sua Grazia attraverso i Sacramenti dell’Eucarestia e della Riconciliazione, attraverso l’ascolto della Parola di Dio e la preghiera quotidiana, attraverso il Perdono e la Carità di ogni giorno.

Per ricevere i doni necessari a vivere la vita in Cristo in famiglia, a scuola e al lavoro ogni Domenica si raduna la Comunità. Il Giorno del Signore ritma i passi lungo il tempo e dona ad essi significato, dona gratitudine nella gioia, forza e consolazione nella fatica e nella sofferenza.

Abbiamo bisogno di raccontarci le nostre gioie. Abbiamo bisogno di sostenerci a vicenda nella fatica, nella povertà, nella malattia.

Il cammino lungo le strade del mondo va compiuto insieme. Tutti vanno coinvolti in questa avventura di amore e di comunione che non risparmia a nessuno la lotta per custodire la Speranza.

“Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; egli è per antono­masia il Figlio dell’uomo, perché egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la bene­detta fra tutte le donne, sua madre nella carne, e madre nostra. Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro pe­renne annunzio, è la voce che noi facciamo risuo­nare per tutta la terra, e per tutti i secoli dei secoli.”

Probabilmente le previsioni dei maghi e degli astrologi danno più soddisfazione di queste riflessioni ma altrettanto probabilmente pongono altro al centro del calendario. A ciascuno la scelta.  Buon Anno a tutti!

Don Danilo

Natale: l’incontro decisivo

Inserito il 25 Dicembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

Il Santo Natale è l’incontro con Cristo.
È il momento decisivo della nostra vita. Lo sguardo di questo Bambino ci raggiunge nel profondo del cuore per donarci la consapevolezza di essere amati e salvati.

Il Santo Natale è la grande chiamata all’incontro.
All’incontro con Cristo e all’incontro tra noi.
In questa Santa Notte tutto quello che stiamo facendo diventa secondario rispetto “all’andare a Betlemme”. E chi ha ricevuto per primo l’annuncio cerca di invitare l’altro per condividere il cammino verso la mangiatoia.

Non è in gioco soltanto un dolce sentimento. è in gioco tutta la vita. Di tutti.

Preghiamo il Signore perchè ciascuna famiglia della nostra comunità e del nostro territorio apra le orecchie e il cuore all’annuncio dell’angelo. Ogni famiglia accolga l’invito a mettersi in cammino per incontrare Gesù e così incontrare tutti gli altri, tutte le altre famiglie.

E preghiamo il Signore anche perché ciascuna famiglia, ciascun componente di ogni famiglia, si faccia “angelo” nella sua famiglia, per le altre famiglie.

L’incontro di tutti davanti a questo Bambino sarà la felicità di tutti. Tutti amati. Tutti salvati dai propri peccati. Tutti avvolti dallo Spirito Santo per raggiungere di corsa e pieni di gioia ogni altra persona per un abbraccio di speranza, per un gesto di carità, una parola di fiducia.

Davanti al volto di questo Bambino si impara a dire “NOI”, si impara l’arte della famiglia e della pace, si riceve la chiave per aprire il significato profondo di ogni giornata e trasformare la vita in dono…
«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, oggi è nato per voi un Salvatore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

Buon Natale a tutti!

Don Danilo

Come aveva promesso

Inserito il 19 Dicembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

Nell’aprire la sua lettera, Paolo si presenta come «servo» di Gesù Cristo, cioè una persona che “gli appartiene”. Nella Bibbia era questo il titolo d’onore di un primo ministro nei confronti del suo signore, e in modo specifico designava il personaggio descritto dal profeta Isaia (il «Servo di Jahwè»), al quale era stata conferita la missione non solo di annunziare ai giudei esiliati la loro prossima liberazione, ma anche di renderla possibile mediante la sua sofferenza espiatrice.

In quanto servo di Gesù Cristo Paolo è anche «chiamato ad essere apostolo». Nelle sue lettere il termine «apostolo» indica tutti coloro che si dedicano all’annuncio del vangelo.

In forza del carisma apostolico Paolo è «scelto» (= messo da parte) «per (annunziare) il vangelo di Dio», cioè la buona notizia che Dio ha rivolto a tutta l’umanità.

Il vangelo, per il quale Paolo è stato “messo a parte” come apostolo, era già stato «promesso» da Dio «per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture».
Al popolo di Israele Dio aveva preannunziato per mezzo dei profeti, un momento futuro nel quale la salvezza iniziata con l’esodo dall’Egitto avrebbe trovato il suo compimento.

Il vangelo di Dio ha come tema centrale il «Figlio suo».
Per mezzo del profeta Natan, Dio aveva promesso a Davide che la stessa dignità sarebbe stata propria, in modo speciale, di ogni re (messia, unto) appartenente alla sua dinastia, assicurando al tempo stesso che questa sarebbe stata stabile per sempre sul suo trono.

Quando in seguito all’esilio babilonese la dinastia davidica era ormai scomparsa, i giudei cominciarono a sperare che Dio un giorno avrebbe inviato un discendente di Davide  che, sulla linea degli antichi oracoli profetici, avrebbe liberato definitivamente il suo popolo. A lui perciò fu assegnato il titolo di Messia (in greco “Christos” – “l’Unto” per eccellenza) e fu riconosciuta in modo specialissimo la dignità di «Figlio di Dio».

Sullo sfondo di queste attese si comprendono le caratteristiche che Paolo attribuisce al Figlio di Dio di cui parla il vangelo. Esse sono delineate in due frasi. Nella prima si dice che «secondo la carne» il Figlio di Dio è «nato dalla stirpe di Davide» e di conseguenza è il suo lontano discendente, inviato da Dio per portare la salvezza finale a Israele.

Nella seconda frase si afferma che lo stesso Figlio di Dio è stato «costituito Figlio di Dio con potenza», cioè ha potuto esercitare in modo effettivo i suoi poteri, «secondo lo Spirito di santificazione», ossia in forza di un dono speciale dello Spirito.

Il Figlio di Dio ha dunque conseguito, mediante la sua risurrezione, una dignità immensamente superiore a quella che i giudei attribuivano al «Figlio di Davide».
Paolo conclude affermando che il Figlio di Dio di cui parla il vangelo è «Gesù Cristo nostro Signore»: a Gesù di Nazaret compete non solo il titolo di «Cristo» (Messia), che rimanda alla sua ascendenza davidica, ma anche quello di «Signore» (Kyrios). Questo nome Kyrios/Signore, significa la piena partecipazione al potere stesso di Dio. L’«obbedienza della fede», a cui l’annuncio dell’apostolo deve portare, può indicare l’adesione al messaggio cristiano, oppure, con più probabilità, quell’obbedienza a Dio che si esprime nella fede.

Con il termine «fede» l’apostolo indica la piena fiducia in Dio. La missione affidata ad ogni cristiano ha come scopo finale la «gloria del suo nome», cioè il riconoscimento di Dio come unica fonte di salvezza per tutta l’umanità.

Don Danilo

Siate pazienti, non lamentatevi

Inserito il 12 Dicembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

“Siate pazienti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.”  (Gc 5, 7-10).

San Giacomo invita alla “pazienza”. La pazienza del discepolo di Gesù è illustrata paragonandola con l’attendere paziente i preziosi frutti della terra da parte del contadino. Il contadino semina; poi egli stesso non può fare più nulla di decisivo: egli può solamente attendere con pazienza il frutto.

All’attesa paziente del ritorno glorioso del Signore appartiene anche la necessità che i cristiani non si lamentino gli uni degli altri, «affinché voi non siate giudicati».
Giacomo ci esorta invece ad attendere con pazienza fino all’arrivo del Signore.
Con l’arrivo del Signore si intende qui la venuta gloriosa di Gesù Cristo in potenza e gloria alla fine dei giorni. Il sostantivo greco “parousía” significa “esserci”, “presenza”, “attualità”.

All’esortazione ad attendere segue l’ammonimento a rafforzare i cuori.
L’attesa paziente della venuta del Signore non è semplicemente un passare il tempo, un “tirare avanti”. È necessario rimanere saldi ed essere forti nelle tentazioni e nei dubbi, nel tempo della sofferenza e della malattia.

Il giorno del Signore sta per venire. Il breve tempo ancora disponibile vuol essere usato per una vita di fede operosa e per cambiare atteggiamenti errati.
Rivolgendosi ai destinatari della lettera chiamandoli «fratelli», li esorta infine a non «lamentarsi» gli uni degli altri. Il proprio disagio non deve essere scaricato sull’altro, col dargliene continuamente peso. In questo modo il lamentarsi diventa giudicare e condannare. Vale infatti il discorso: «Non giudicate, per non essere giudicati! » e: « Se un fratello offende o giudica suo fratello, costui offende la legge e giudica la legge. Se tu però giudichi la legge, non sei più uno che compie la legge, ma uno che la giudica. Uno solo però è il legislatore e il giudice, colui che può salvare e condannare. E tu, chi sei mai tu, che giudichi il prossimo?».

“Il giudice è alle porte”. Di fronte al giudice divino l’uomo deve abbandonare l’atteggiamento di giudice del prossimo e lasciare il giudizio a colui che al contrario dell’uomo non semplicemente condanna, ma è quel giudice che può liberamente salvare e condannare.

Poiché il lamentarsi sotto il peso dell’esistenza tormentata dell’uomo capita spesso, questa esortazione si addice bene al contesto. A chi si lamenta manca la capacità di saper attendere con pazienza. L’impazienza rende irritabili e fa innervosire gli altri.

Don Danilo

Teniamo viva la speranza con l’ascolto delle Scritture

Inserito il 5 Dicembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

San Paolo ricorda con forza che le Sacre Scritture sono in grado di istruire i credenti e di consolarli, conferendo loro il dono della perseveranza e della speranza.

A partire dal caso singolo l’apostolo afferma in generale il principio della destinazione cristiana delle Sacre Scritture: sono state scritte «a nostra istruzione». Già nella prima lettera ai Corinzi riferendosi alle vicende dell’esodo dall’Egitto, aveva richiamato la stessa tesi: «Ora questi avvenimenti accaddero loro come “prefigurazioni” e furono messi per iscritto a nostro ammonimento, a noi che ci è venuta incontro la fine dei tempi».

L’apostolo prosegue la sua esortazione con una preghiera: quel Dio che, mediante le Scritture, dona perseveranza e consolazione possa conferire a tutti i credenti, sull’esempio di Cristo, una profonda sintonia di pensieri perché in modo unanime possano rendere gloria a Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo.

In questa prospettiva riprende il tema dell’accoglienza presentando Gesù come il modello a cui tutti i membri della comunità devono rifarsi: “Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio”.

Cristo ha accolto tutti i membri della comunità, senza discriminazione. Egli dunque non è solo un modello a cui riferirsi, ma anche colui che, stabilendo un rapporto personale con ciascuno di essi, ha reso possibile il loro rapporto di comunione vicendevole.

Questo esige dunque lo spostamento del baricentro della esistenza dal proprio io all’altro. Si tratta di agire per il bene del prossimo e a scopo “costruttivo”. La prospettiva è quella della crescita della comunità: “edificio” che s’innalza sulla base della solidarietà dei credenti.

L’unità solidale della chiesa, voluta da Cristo, è frutto della grazia che comunque non dispensa dall’impegno. Si tratta di una condizione indispensabile perché la comunità traduca la sua unanimità nel cantare a una sola voce la lode al «Padre di nostro Signore Gesù Cristo». La liturgia ecclesiale è espressiva di unità solo in un contesto di fattiva comunione e questa trova in quella il suo segno più alto.
Il gesto di Grazia divina incarnato in Cristo ha assunto diversi significati. Verso i giudei Gesù si è fatto «servitore» per dare compimento alle promesse fatte ai padri. Sempre in Cristo, infine, tutte “le genti” hanno ricevuto il dono della misericordia, per il quale devono ringraziare continuamente Dio. «Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome».

Don Danilo

La notte è avanzata. Il giorno è vicino. Indossiamo le armi della luce

Inserito il 28 Novembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

“E voi sapete bene in che tempo viviamo”. Paolo inserisce le esortazioni fatte nei precedenti capitoli della lettera in una prospettiva di fede capace di valutare il tempo attuale come momento particolarissimo nella storia della salvezza (= kairós – “favorevole”), caratterizzato dalla “vicinanza” del futuro ultimo e definitivo: “perché adesso (= ORA) la salvezza ci è più vicina di quando abbiamo cominciato a credere”. L’attesa del compimento della storia è una qualifica dell’esistenza cristiana prima di essere “la paura della fine del mondo”. Lo testimonia il contesto, in cui è assente ogni tono apocalittico sul quando e sui segni premonitori, mentre tutto è incentrato in una pressante esortazione a vivere “nell’apertura al futuro”: “E’ ora di “alzarvi” dal sonno”.

In breve, il futuro decisivo è vicino non tanto come data cronologica, quanto come istanza che appella a togliersi sempre più dal vecchio mondo, indicato qui dalle tre immagini complementari della notte, delle tenebre e del sonno, tipiche della catechesi battesimale della chiesa primitiva e che ritroviamo nei passi di altre lettere.

Con più esattezza, è tempo di vigilia e di attiva attesa. La notte volge ormai alla fine e sta per nascere il giorno della venuta finale del Signore.

La fede ha collocato i cristiani in quest’ora annunciatrice dell’alba dell’ultimo giorno.

S’impone l’esigenza di essere svegli, lasciando alle spalle “le opere tenebrose” e “indossando le armi della luce”.  Ciò vuol dire, in concreto, una condotta onesta, consona a persone che la grazia divina ha illuminato di viva luce: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno”.

E qui Paolo presenta uno stereotipo elenco di vizi: “niente orge e ubriachezze, niente lussurie e immoralità, niente litigi e gelosie”. Ma non si limita a questo livello etico. Nel versetto conclusivo esorta i cristiani di Roma a rivestirsi del Signore Gesù Cristo.

La stessa espressione appare anche nella lettera ai Galati esplicitamente applicata al battesimo. Ciò che nel sacramento è evento, diventa esigenza nello stile di vita. I battezzati si sono rivestiti di Cristo per grazia e la grazia li chiama a una corrispondente esistenza impegnata.

E’ un forte invito ad “unirsi al Signore”, entrando nella sfera del suo influsso di risorto e sottomettendosi alla sua signoria. In termini negativi lo dice anche il nostro versetto che specifica: “e non curate di soddisfare le cupidigie dell’egocentrismo (lett. = della carne)”.

Una nuova dinamica regge l’esistenza del battezzato, “liberato” dalla potenza del peccato che rende schiavi e perciò “libero” per l’obbedienza a Cristo. Paolo forse qui riprende un inno battesimale della chiesa primitiva: “Già è ora di alzarci dal sonno. Avanzata è la notte e il giorno vicino. Lasciamo le opere tenebrose e indossiamo le armi della luce”.

I credenti ricevono in dono di rivestirsi del Signore Gesù Cristo, cioè di diventare una sola cosa con Lui partecipando pienamente alla sua esperienza di morte e resurrezione. Il cristiano vive nell’attesa della pienezza finale proprio anticipando nell’oggi i valori che essa implica.

Questa morale esigente che Paolo propone ai cristiani di Roma non è legata all’osservanza di singoli precetti ma all’azione della Grazia di Dio in noi, a quella “santità” che fa toccare con mano la presenza dell’Amore di Dio nella storia e la rende sempre “storia di salvezza”  fino al suo compimento.

Don Danilo

Chi non vuole lavorare, neppure mangi

Inserito il 14 Novembre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

La lettera sembrava ormai volgere alla fine. Invece ha qui un’improvvisa ripresa, trattando abbastanza diffusamente il problema dell’ozio parassita di alcuni credenti.

In tutto il Nuovo Testamento questo brano è il solo espressamente dedicato al tema del lavoro manuale. Sapendo che nel mondo greco-romano del tempo il cittadino libero disdegnava di sporcarsi le mani in lavori bassi, riservati per questo agli schiavi e ai poveri, appare rilevante l’esortazione ai cristiani di guadagnarsi da vivere con un duro lavoro manuale.

Più di ogni valutazione morale, sembra doversi individuare sullo sfondo un implicito orientamento “antropologico” opposto a quello dell’ambiente di Tessalonica. L’indirizzo prevalente della cultura greca vedeva l’uomo realizzarsi essenzialmente nella sfera della sua dimensione spirituale. La “manipolazione delle cose materiali”, secondo questa visione dell’uomo, aveva poco valore. Non così la prospettiva cristiana, erede della tradizione israelitica: l’uomo è essere incarnato; il suo rapporto con le cose in quanto tale non può essere “alienante”.  L’“homo faber” non è un essere inferiore. Paolo inoltre presenta le sue considerazioni in termini imperativi: «Poi, o fratelli, vi prescriviamo nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» e «Ordiniamo a questi tali e li supplichiamo nel Signore Gesù Cristo». Si tratta di una parola carica di autorità, consapevole di esprimere la volontà precisa di Cristo. L’apostolo parla «nel nome del Signore Gesù Cristo».

Destinatari dell’esortazione sono la comunità dei credenti e direttamente gli oziosi (chi non vuole lavorare / chi vive una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione). La situazione è descritta in modo chiaro: alcuni cristiani vivono senza far nulla e immischiandosi in ogni cosa. Pigrizia nel lavoro abbinata a un attivismo a vuoto di ficcanasi curiosi. La comunità ne doveva essere contagiata. Non doveva mancare una certa irrequietezza se l’autore richiama alla tranquillità. In questo clima di entusiastica esaltazione per la “venuta dei giorni ultimi” qualcuno non si è più sentito legato al dovere del lavoro quotidiano. Dunque non un semplice fenomeno di ozio e di assenteismo parassitario dal lavoro, ma un ambiente surriscaldato da sognatori turbolenti. La prima prescrizione è per la comunità. Non deve assistere passiva, bensì isolare quelli che portano turbamento. L’esempio cattivo non deve diventare contagioso. La condotta di vita di Paolo diventa testimonianza del suo amore disinteressato per i Tessalonicesi e viene offerta come esempio da imitare: «Voi stessi sapete come bisogna imitarci». La laboriosità viene raccomandata per evitare che ci sia chi grava sugli altri. Vale il principio della doverosità di guadagnarsi da mangiare: “Chi non vuol lavorare, neanche deve mangiare».

L’apostolo si rivolge poi direttamente agli oziosi. Ripete loro: “ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”. La tranquillità deve ritornare nella chiesa e per questo è necessario che gli oziosi si mettano a lavorare e a guadagnarsi da vivere. Non approfittino ulteriormente della solidarietà dei fratelli.

Don Danilo

Grazie Don Luigi

Inserito il 31 Ottobre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

Come è nel suo stile, don Luigi ha chiesto di annunciare solo all’ultimo momento che intende concludere il suo servizio presso la nostra comunità. Tornare ad abitare ad Eraclea, in particolare nei mesi invernali, ha reso l’andirivieni in auto faticoso e delicato. L’età poi non è più quella del “giovanotto” ed è importante non eccedere.

Noi comprendiamo le sue motivazioni ma questo non impedisce un sentimento di dispiacere e mestizia per questo suo “lasciare” la presidenza domenicale e festiva di molte S. Messe nella nostra comunità.

L’ha fatto sempre, per 25 anni, con grande fedeltà e disponibilità (più volte anche nei giorni feriali). Ha guidato la liturgia con semplicità e umiltà.
Domenica 31 ottobre lo saluteremo con grande affetto, assicurandogli la nostra preghiera e il nostro aiuto in tutto quello che può essere necessario.
Don Luigi, in accordo con il Patriarca, continuerà il suo ministero ad Eraclea nella sua terra di origine.

Carissimo don Luigi, io ti ringrazio in modo personalissimo per la tua attenzione alla nostra comunità di Carpenedo e ti chiedo di continuare a pregare per noi, in particolare per i piccoli, gli anziani, gli ammalati, i poveri. Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, interceda per ciascuno di noi.

Don Danilo

(Accompagniamo questo saluto con una foto e due sue poesie, invitando, chi desiderasse, a far pervenire alla redazione di Lettera Aperta eventuali testimonianze sui 25 anni di don Luigi in mezzo a noi)

Don LuigiCAMPANE DI OGNISSANTI

Su questi
rimasugli di vita
protesi
eterni come il verde d’una foglia
ancor oggi il vento
per la campagna…

Oh triste lamento
della terra che si spoglia
e che non vuol dormire!

Speranze nostre d’infinito
eterne
sospese per il gambo d’una foglia,
destinate a marcire
nei solchi della tetra,
nei solchi della storia
eterni nostri
sogni di gloria

Passa nel carezzar del vento
festoso
suon di campane…

Oh mistero della vita
che muore
e che non vuol morire!
così
con la faccia protesa
estasiata d’azzurro,
come il volto d’un fiore
verso la luce dell’alba

Luigi Trevi

FORSE UN GIORNO

forse un giorno scopriremo
d’esser quasi vissuti
quando non più verrà
il passero sul davanzale

forse un giorno ci desteremo
in un’alba tutta per noi
se mai il sole busserà
con buffi d’aria alle cortine

forse un giorno rivivremo
finalmente appagati
quando ognuno cesserà
di rincorrere i propri miraggi

forse un giorno saliremo
con piedi scalzi oppure
su ali di farfalla per vedere
l’altro versante tutto in fiore

Luigi Trevi


Il Signore mi libererà e mi porterà in salvo nei Cieli. Amen

Inserito il 24 Ottobre 2010 alle ore 08:00 da Don Danilo Barlese

Quanto a me, il mio sangue sta per essere versato in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. San Paolo parla al presente (come anche il Signore nel momento dell’istituzione dell’eucaristia quando parla di sangue versato). Tutti i pericoli affrontati dall’Apostolo durante la sua opera di annunciatore del Vangelo non erano che un paragone del definitivo “naufragio” di tutta l’esistenza (sciogliere le vele) sulla spiaggia della vita eterna.
Ho combattuto la nobile battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fedeltà alla fede.
La fine è, volgendosi indietro, una vittoria. E questa volta Paolo si volge indietro: un breve sguardo all’insieme della sua vita che gli era apparsa sempre una “battaglia” e una “corsa”. Il corridore, giunto alla meta, non può fare a meno di portare dentro di sé la strada percorsa, incisa nel suo corpo e nel suo spirito. Se durante la corsa a causa della pura azione ci si è un po’ dimenticati di contemplare la ragione di ogni correre, la beatitudine della fine consiste nell’aver conservato «la fedeltà alla fede», fondata in tutto e per tutto sulla “FEDE” di Cristo, che ci ha serbato fedeltà tanto da donarla anche a noi perché la serbassimo.
Il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno la ”corona di giustizia”. Andare incontro così al giusto giudice, e non con la paura di chi teme di essere condannato, è la «franchezza» cristiana. È privilegio di coloro che amano il Signore e hanno «fiducia nel giorno del giudizio».
La Chiesa, in quanto sposa e corpo di Cristo, ha la certezza della salvezza, ed ognuno può averne parte nella misura in cui vive come membro vivo della Chiesa. Nella misura in cui, invece di peccare, ama, la sua angoscia scompare lasciando il posto alla fiducia, fino al limite di un completo superamento dell’angoscia del giudizio per mezzo dell’amore (1Gv 4,18). L’idea di predestinazione di Paolo è sempre ecclesiale, cioè “inclusiva”: dall’”io” passa senza soluzione di continuità al “noi”.
Paolo lotta, come sempre, non per la sua persona, ma per la sua missione e perciò per Colui che l’ha mandato. La Chiesa, “mater dolorosa” sulla “via crucis”, non ha la facoltà di mitigare la luce tremendamente cruda della passione. Senza volerlo e forse senza saperlo è posta alla sequela.
A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen. Tutto: Paolo, il suo destino e la sua missione, i suoi ascoltatori e i destinatari delle sue lettere, le sue comunità e le loro condizioni, ma anche i suoi nemici, i caparbi e quelli soltanto negligenti e vili, la Chiesa con la sua sofferenza e la sua esitazione, la sua luce immutabile e l’ombra che si estende su di essa, l’umanità con la sua speranza di redenzione e i «mali» sempre nuovi che si scatenano su di essa e di cui cade vittima: tutto alla fine viene offerto e presentato a Dio nella preghiera. E l’«Amen» che Paolo stesso pronuncia è da lui inteso come l’Amen degli ascoltatori e dei lettori, di tutta la Chiesa. Ognuno di noi lo faccia proprio.

Don Danilo

« Articoli precedenti Articoli successivi »