Il blog di Carpenedo

Il blog di Carpenedo
La vita della Comunità parrocchiale dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo

Dare tutto per scontato

Inserito il 13 Ottobre 2019 alle ore 08:00 da Plinio Borghi

Dare tutto per scontato non è un atteggiamento corretto, perché induce o a non tenere in debito conto l’apporto determinante di chi ti può aver aiutato, magari per dovere, o a piegare la realtà solo a nostro favore. Ne abbiamo un esempio nel vangelo di oggi. Gesù incontra una decina di lebbrosi che gli chiedono di guarirli. Danno per scontato che lo sappia e lo possa fare, sentite le voci che corrono nei suoi riguardi. Chiaramente lo prendono più per un taumaturgo che non per il Messia. Infatti, di primo acchito, sembra quasi stizzito, stando a come la reazione è riportata in modo conciso: li dirotta ai sacerdoti. C’è in questo una sintonia con la risposta di Abramo al ricco epulone di due settimane fa, quando questi lo implorava d’inviare Lazzaro ai fratelli: se non credono ai profeti, neanche se uno risuscita dai morti avranno motivo per credere. Poi il Maestro sembra cambiare idea (o forse aveva già in mente di farlo) e, mentre quelli si avviano, li guarisce tutti. Cosa ci saremmo aspettati? Un rapido dietrofront di gruppo per rendere un corale ringraziamento all’autore di cotanto dono. Macché. Uno solo torna di corsa e peraltro samaritano, che è come dire miscredente o straniero. Ancora una volta viene posta in evidenza l’azione di un samaritano (come per la donna al pozzo di Giacobbe e per colui che soccorse il malcapitato bastonato per strada) rispetto all’indifferenza di chi dovrebbe ritenersi osservante. “E gli altri nove dove sono?”, si chiede anche Gesù. L’evangelista non lo racconta, ma è da presumere che non siano andati nemmeno dai sacerdoti: semplicemente avranno desunto un ravvedimento “dovuto” da parte di quell’Uomo che tutti descrivevano buono e generoso verso tutti. Quanto ci riconosciamo in quei nove? Quante volte ci sentiamo di ringraziare chi ci presta un minimo di attenzione, fosse anche obbligata? O forse siamo più propensi a pretendere, anche da chi lo fa per volontariato? Ne ho viste di scene di tal fatta, forse dettate da una sorta di complesso d’inferiorità verso chi contrappone la sua generosità alla nostra grettezza! Il Papa ha esordito nel pontificato suggerendo di adoperare nei rapporti tre parole: grazie, prego, scusa. A cominciare da chi ci sta a fianco in casa e del cui fare diamo tutto per scontato. Furono salvati i nove lebbrosi? Guariti sì, salvati no: è mancato il conseguente atto di fede. Solo quello tornato a ringraziare è congedato con: “Va, la tua fede ti ha salvato!

Lo spirito di servizio

Inserito il 6 Ottobre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Lo spirito di servizio è quello che dovrebbe caratterizzare le nostre prestazioni, siano esse lavorative, e quindi retribuite, che svolte in casa o a titolo di volontariato. Uso il condizionale perché se un tempo simile atteggiamento traspariva in modo pressoché generalizzato, oggi si stenta ad avvertirlo. Una volta non solo si era “orgogliosi” del proprio incarico, ma anche, qualsiasi esso fosse, si avvertiva di rappresentare l’Ente o la ditta o la persona che ce l’aveva conferito e ci si teneva a fare e a fargli fare bella figura. Oggi, vuoi per l’esasperazione delle lotte sindacali, che ha contribuito a porre steccati fra gli uni e gli altri, vuoi per una mal interpretata sorta di evoluzione culturale, l’orgoglio tende a tramutarsi in sussiego, l’incarico in prerogativa e la prestazione, anche volontaria, in esclusività. Il tutto a scapito della qualità, della collaborazione e di quel poco d’entusiasmo, e a vantaggio della burocratizzazione più becera, dell’aggressività e del disagio per chi lavora e per chi riceve il servizio. Di più. L’adeguamento della retribuzione per i lavoratori e del ruolo per i volontari apparteneva a momenti separati rispetto all’avvio del rapporto e si perfezionava strada facendo. Oggi sono quasi ovunque in premessa per avviare la collaborazione, a prescindere dall’esperienza che si possa addurre. Anzi, si tende a rifiutare in prima battuta un lavoro che non sia “consono” alle aspettative, magari basate sul titolo di studio acquisito. Siamo ben distante da quello spirito di servizio cui si accennava all’inizio e del quale il vangelo di Luca ci offre oggi uno spaccato. Pur se il contesto è un po’ estemporaneo, il messaggio è chiaro: se facciamo il nostro dovere, ciò per cui siamo pagati o ciò per cui ci siamo impegnati siamo stati “servi inutili”, laddove “inutili” non significa affatto che il nostro apporto è stato vano, bensì che non abbiamo agito per il nostro tornaconto o per secondi fini. Quindi ci siamo comportati bene, abbiamo fatto quello che andava fatto e nulla ci spetta da rivendicare o da recriminare. È chiaro che l’allegoria è rivolta soprattutto al modo di vivere la fede, che, dice San Paolo nella seconda lettura, è un dono che va ravvivato e vissuto con forza, amore e saggezza, affinché, quando ci presenteremo a rendere il conto, abbia prevalso in noi quello spirito di servizio che ci consenta di vantarci con il Padre di essere stati “servi inutili”. Intanto non resta che rivolgerci a Lui con le parole degli apostoli: “Signore, accresci in noi la fede!”.

La misericordia di Dio è infinita?

Inserito il 29 Settembre 2019 alle ore 10:01 da Plinio Borghi

La misericordia di Dio è infinita? Dipende da che punto di vista. No, non voglio essere blasfemo ponendo limiti alle qualità del supremo Creatore né aumentare margini d’insicurezza in qualche peccatore incallito. I limiti sono nostri se dimentichiamo che in Dio tutte le doti, non solo la bontà, convivono in maniera sublime e quindi verrà il tempo in cui la Giustizia si prenderà la scena. Matteo descrive così bene quel momento nel noto cap. 25 (31-46), quando si divideranno le pecore dai capri. Lì non ci sarà più trippa per i gatti: lo spazio per la misericordia sarà finito. Conosciamo bene tutti la parabola che Gesù racconta nel vangelo di oggi ed è particolarmente significativa: la storia di Lazzaro, povero e piagato mendicante, e il ricco epulone, tronfio del suo benessere. Che l’epilogo fosse quello descritto era scontato: il primo sale in paradiso alla destra di Abramo e il secondo scende tra le fiamme dell’inferno. È un motivo conduttore che il nostro Maestro non si stanca mai di ripetere sotto varie forme, come quella che gli ultimi saranno i primi e viceversa. Ma c’è una conclusione stavolta che offre uno spaccato diverso e che completa la domanda iniziale: l’epulone chiede una goccia d’acqua per un po’ di sollievo e gli viene negata. Lo spazio invalicabile è soltanto un pretesto: gli è che scatterebbe un’impropria incoerenza da parte del Padre. Di più. Il ricco supplica che almeno Lazzaro gli avverta i familiari affinché si ravvedano e qui la risposta è magistrale: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi.” Pertanto c’è un tempo per il ravvedimento, ma pure un metodo, che prevede un minimo d’espressione di fede che si alimenta con l’attenzione alla Parola. Un ultimo tocco si evidenzia nel brano in lettura: il povero è indicato per nome, il ricco no. Non è per voler discriminare; solo che “epulone” è una qualifica, un atteggiamento, che appartiene un po’ a tutti quando ci chiudiamo in noi stessi, nella nostra autoreferenzialità, nel nostro egoismo, nella nostra tendenza a badare prima alle nostre necessità e poi, se avanza, anche a quelle degli altri; quando predichiamo l’accoglienza, ma non ci dedichiamo a realizzarne gli strumenti adeguati, quando scordiamo che poveri ed emarginati non sono categorie di derelitti, ma persone con nome e cognome. Continuando così, loro li conserveranno per il passi al banchetto finale e noi saremo esclusi perché finiremo col perdere, appunto, ogni residuo di identità.

La politica dei due forni

Inserito il 22 Settembre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

La politica dei due forni, della quale abbiamo avuto un discreto assaggio proprio in questo periodo in cui si è emulato un vecchio metodo da prima repubblica, più che essere esecrabile la riterrei pericolosamente equivoca e inaffidabile. Pur se poi, strategicamente, può portare qualche frutto apprezzabile, ma di stampo machiavellico, della serie “il fine giustifica i mezzi”. Se fosse un ricorso come extrema ratio e quindi adottato raramente, potremmo anche chiudere un occhio e apprezzare questi sprazzi di furbizia; invece pare che il metodo di tenere il piede su due staffe, prima ancora di trovare la sua più “elevata” espressione in politica, sia largamente praticato a livello personale. Qui non si tratta di tenere sempre a disposizione un piano B per ogni evenienza o, se si chiude una porta, di cercarne un’altra da aprire, bensì di tenerne sempre due o più in funzione. Quale rapporto si può mai instaurare con chi, mentre sembra che ti dia una mano (al lavoro, nello studio, in un’attività qualsiasi, magari competitiva, ecc.) nel frattempo complotta con il tuo concorrente per poi scegliere la posizione più conveniente? Non occorre s-cervellarsi per richiamare alla memoria casi vissuti o per trovare conferme in merito; è sufficiente, come sempre, il Vangelo, che, guarda caso, proprio oggi ci manda un bel messaggio: “Nessun servo può servire a due padroni”. Non assistiamo a novità allora e servi infedeli come quello descritto nel brano in lettura sono una costante della nostra storia. Che poi alla fine, al padrone “fregato”, gli avanza anche di lodare il servo infingardo, perché ha agito con furbizia: vistosi scoperto e quindi prossimo al licenziamento, si è preparato il futuro favorendo i debitori. E Gesù, senza giri di parole, non ce le manda a dire, visto che anche noi vorremmo mantenere un buon rapporto con Dio, non rinunciando però all’attenzione per i nostri interessi, come il denaro, la carriera, il benessere e quant’altro, a cui dedichiamo molto più impegno. “Almeno fatevi furbi”, dice il nostro Maestro, “e usate dei beni di questo mondo per crearvi un futuro più tranquillo in quello eterno”. Noi al contrario, che ci crediamo furbi ma non lo siamo proprio, pretendiamo di servire Dio e “mammona” nell’equivoco più becero e cioè senza sacrificare un net di quel che riteniamo ci sia indispensabile in questa vita. Con la differenza che qui talvolta il sistema funziona anche, ma con Dio va no e siamo già sgamati ancor prima di pensarci. Dopo son cavoli amari.

La voglia di autonomia

Inserito il 15 Settembre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

La voglia di autonomia è uno stimolo sacrosanto a far meglio e a esprimere tutte le nostre potenzialità, anche attraverso una sana emulazione. Questo vale sia in campo familiare che sociale, sia nei rapporti privati che pubblici, sia nell’impresa che in politica. Attenti, però, a non confonderla con il desiderio di rottura: il risultato sarebbe nefasto. La vera autonomia si regge sull’unità d’intenti e opera sempre per il perseguimento del bene comune; se diventa un pretesto per l’“io faccio da me che faccio meglio”, sarebbe la disgregazione del patrimonio acquisito e consolidato. Per associazione d’idee mi viene in mente come la legge della Provincia autonoma di Bolzano preveda il passaggio in eredità del “maso” al figlio primogenito, proprio affinché non vada disperso uno dei simboli di quella terra. Sotto tale profilo calzano a pennello gli atteggiamenti descritti dal vangelo di oggi: il pastore che, per cercare la pecorella smarrita, lascia le altre novantanove; la donna che mette sottosopra la casa solo per trovare la moneta perduta; il padre che riaccoglie il figlio che gli aveva sperperato mezzo capitale. Il gregge, il gruzzolo, la famiglia: tutto ha senso e valore solo nella sua interezza. E in tutti e tre i casi si fa una grande festa per la riconquistata unità. La sottolineatura nel brano “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” lascerebbe perplessi fuori dall’ottica suddetta e ci verrebbe da essere solidali col fratello maggiore del figliol prodigo, quasi che la misericordia sia destinata soltanto ai trasgressori convertiti. La realtà è che tutti noi, vivi e defunti, formiamo un unicum armonico nella Comunione dei Santi e ogni devianza fa male al complesso; pertanto ogni ritorno è un riequilibrio generale che vale la pena di perorare e festeggiare. Se poi teniamo conto che peccatori, chi più chi meno, lo siamo tutti e quindi bisognosi di conversione e di misericordia… Permettetemi una digressione, una frase che il Che (Guevara) prende in prestito da certo Omar Gonzalez, riferendosi ad alcuni suoi dissidenti, e che m’è balzata all’occhio: “Volverà, lo conozco. Como el pedrazo de una estrella, volverà” (Torneranno, lo so. Com’è per la coda d’una stella, torneranno). Bello paragonare il Movimento ad una stella che trascina con sé i componenti del sistema. Anche se dà l’impressione che qualcuno se ne allontani, non è possibile: l’attrazione è troppo forte e si riaccoderanno.

Guardare le cose da lontano

Inserito il 8 Settembre 2019 alle ore 09:42 da Plinio Borghi

Guardare le cose da lontano ti consente di afferrare il senso dell’insieme. Ogni prospettiva, in effetti, ti da uno spaccato e se fissi un primo piano indubbiamente cogli una serie di particolari, ma corri il rischio di non capire il contesto e le motivazioni della loro collocazione. Sembra strano, ma tendiamo a vivere più di primi piani che di sguardi panoramici: presi dagli affetti più stretti, dagli amici, dai rapporti sociali, dalle abitudini, dallo studio, dal lavoro, dal tempo libero, dagli interessi sportivi e culturali, dalle ferie, dai problemi di salute, dalle preoccupazione per la sopravvivenza, dalle faccende per agevolare la routine, ecc., tutte cose senza dubbio importanti, e guai se così non fosse, fatichiamo a prendere le distanze per inquadrare il tutto in una visione generale dei grandi problemi della vita. Non solo, siamo anche poco propensi ad impegnarci sulle questioni sociali più incalzanti, sulle esigenze che regolano le sfere religiosa e politica; non ci invoglia molto la partecipazione, nemmeno alle riunioni di condominio. Salvo poi protestare se le cose non vanno come dovrebbero, e intaccano quegli stessi interessi cui teniamo, o se nella società si sono via via smarriti i valori di riferimento. Ancora una volta è il Vangelo che ci offre una sferzata stimolante: uscire decisamente dal particolare e darsi una prospettiva di più ampio respiro. “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Drastico il nostro Maestro! È evidente, tuttavia, che ci spinge a non vivere in modo parcellizzato, in quanto c’è il rischio di perdere di vista gli obiettivi importanti. E insiste: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo”. Viene da chiedersi: “Ancora? Ma la vita non è già una croce? Vada dover passare per la porta stretta, dire che la fatica appaga, che i primi saranno gli ultimi, ma anche farsi carico della croce..”. Non fermiamoci ancora una volta alle parole, ma cogliamone il senso. Gesù l’ha abbracciata con gioia la sua croce, non perché era masochista, ma perché rappresentava il compimento del progetto che il Padre aveva su di lui. Ci ha offerto una prospettiva che giustifica tutto e questo è il messaggio: non occorre rinunciare a nulla di particolare, ma sublimare le azioni (dovute) per inserirle in un progetto di ampio respiro che dia loro spessore e ce le faccia vivere più compiutamente.

Tre cose…

Inserito il 1 Settembre 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Tre cose mi stanno sul gozzo: la falsa modestia, l’esaltazione della pochezza e l’ostentazione della capacità. La prima è chiaramente strumentale ed è messa in atto per accattivarsi il consenso o la stima altrui; è in gergo la captatio benevolentiae, tanto praticata in tutti i settori sociali, sia da chi è subalterno sia da chi “si concede” da posizioni di prestigio. In politica è metodo diffuso a tutti i livelli. Il fine è comunque quello di imbarcare gli altri a vantaggio personale. Alla seconda appartengono i tuttologi, gli arrivisti, i colpiti da complesso d’inferiorità, i quali, privi di oggettivo spessore culturale o professionale, usano quel poco che hanno rimestandolo il più possibile e annaspano per stare a galla, finendo in tal modo per tediare o addirittura inasprire gli interlocutori. Infine la terza è quella che infastidisce di più perché è inconfutabile e, purtroppo, ineludibile. Costretti in tutti gli ambiti a servirsi di chi sa e ha le capacità, anche perché offre le migliori garanzie, il prezzo da pagare è subire quando te lo fa pesare. L’unica soddisfazione è beccarlo in castagna quando inciampa in qualche svarione, ma è una magra consolazione, perché non si rimedierà. Quanto sarebbe più bello essere sé stessi, con i propri limiti, con i pregi e i difetti che ci ritroviamo, senza bisogno di alterare o di sfalsare alcunché! Il guaio degli inclusi nelle categorie sopra citate è che a lungo andare finiscono per ingannarsi da soli e crederci. E finché il discorso rimane sul piano delle umane meschinità, passi, ma se lo si sposta nel rapporto con Dio, che ci conosce fin troppo bene, ovvero con la propria coscienza, il fatto assume gravità e non sarà scevro di conseguenze, già in questa vita. La parabola del fariseo e del pubblicano (il primo tronfio davanti al Signore e il secondo prostrato che si batteva il petto) è esemplificativa: il secondo è andato assolto, il primo ha compromesso la sua posizione definitivamente. E nelle beatitudini non sono forse i miti (gli umili) che erediteranno la terra? Oggi, nel brano del vangelo in lettura, Gesù esalta la vera umiltà, quella che non richiede rinunce di sé stessi o negazione delle proprie qualità, quella che non teme il confronto con Dio e la coscienza, ma che ci induce a restare sempre al nostro posto. E il Maestro ci offre pure una lezione di vita pratica, perché già qui può succedere che gli ultimi saranno i primi e viceversa. Bello l’invito ad agire sempre evitando di pensare a ciò che si avrà in cambio!

Dev’essere tutta una fatica? Uffa!

Inserito il 25 Agosto 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Dev’essere tutta una fatica? Uffa! Una vita tranquilla, agiata, dove tutto ci sia servito su un vassoio d’argento, senza pensieri e preoccupazioni, no? E magari il pensiero corre a chi i soldi gli crescono nelle tasche senza muovere un dito. Poi qualcuno di questi si suicida e ci accorgiamo che non era tutto oro quello che luccicava, che pensieri e preoccupazioni sono all’ordine del giorno di tutti e che anzi gode di più chi le cose se le conquista con lo sforzo e l’impegno. No, non sto ricorrendo al luogo comune che “i soldi non fanno la felicità”, fra l’altro piuttosto ipocrita; sostengo soltanto che la soddisfazione è direttamente proporzionata alla fatica che si compie. In questo periodo trascorso in montagna, ho visto continuamente gente di tutte le estrazioni sociali partire attrezzati per camminate, a volte lunghe, a volte impegnative, talora anche rischiose e tornare alla sera soddisfatti per gli obiettivi raggiunti: più è stato difficile e più erano raggianti. La montagna, tuttavia, è un emblema di facile presa, ma proviamo a pensare allo studio, al lavoro, dalle mansioni più qualificate a quelle più umili, alle attività sociali e scopriremo lo stesso stimolo e lo stesso risultato se in ogni cosa che facciamo ci poniamo degli obiettivi e ci impegniamo per raggiungerli. Certo, ci sono anche i furbi del “ma chi me la fa fare” e cercano gli éscamotage convinti di vivere meglio. Si ritroveranno presto illusi per aver costruito sull’effimero ed è proprio con questa categoria che Gesù se la prende oggi nel vangelo. “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno”, insiste il Maestro ed è chiaro che la porta stretta è quella della buona volontà, della coerenza, della fatica, una porta verso la quale tutti puntano, perché solo attraverso quella si arriva al banchetto celeste, ma non si passa in massa, non vi si sgattaiola dentro di soppiatto: il vaglio sarà individuale (perché, appunto, è stretta) e oculato e più di qualcuno resterà fuori, disconosciuto dallo stesso Signore col quale crede di aver passato una vita. Ecco l’illusione di chi cura tanto le apparenze, ma non va alla sostanza. Allora non ci resta che faticare? Dipende. Andate a chiederlo a chi fa un lavoro che gli piace e lo appassiona, a chi studia con entusiasmo, a chi opera per amore (della famiglia, del prossimo) se sente la fatica. Vi risponderà di no, perché il risultato è appagante. E non è né più e né meno di ciò che anche Gesù ci chiede per il premio finale.

Creare scompiglio

Inserito il 18 Agosto 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Creare scompiglio non dev’essere una cosa tanto difficile, anzi, sembra proprio uno sport praticabile da tutti. Ho appena seguito alla tv l’apertura della crisi di governo, che pur era nell’aria, ma che evidentemente i più esorcizzavano. Risultato: caos totale, dichiarazioni a ruota libera e contraddizioni a nastro. Il flash back su tutte le volte che nella vita ho assistito a fatti analoghi è stato immediato e mi sono tornate alla mente non solo le numerose crisi pilotate o al buio, ma anche le piccole e grandi rivoluzioni, in particolare quelle accompagnate da atti di terrorismo, e tutte o quasi innescate confondendo le carte per creare l’humus adatto per allontanare il più possibile soluzioni confezionate o scontate: lo scompiglio, appunto. Non illudiamoci, tuttavia, che tutto ciò riguardi solo la politica: nelle vertenze sindacali non si è da meno, nei rapporti familiari idem e non parliamo dell’armonia che dovrebbe regnare in tutti gli aspetti della vita sociale in genere, come pure nei rapporti di amicizia. Un sassolino nello stagno, che può essere il gesto di stizza o d’insofferenza, una parola di troppo, una maldicenza, e voilà, il gioco è fatto. Poi arrivano le seppie, cioè gli opinionisti, i mass media, i finti pacieri, gli “amici” di famiglia, i passaparola e giù nero fumo ovunque, tanto perché nessuno si sogni che le cose si appianino con facilità e le soluzioni siano dietro l’angolo. Con questo spirito di negatività, ho aperto le letture di questa domenica e cosa mi ritrovo? Gesù che dice ai discepoli: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra … Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione … D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio…” e via specificando a scanso di equivoci. No, questa non ci voleva, ci si mette anche il Messia, ora, che è simbolo di pace per eccellenza?! È vero che attraverso la sua Croce si pone come simbolo di contraddizione, ma.. Sono le ultime parole del brano ad aprirmi improvvisamente la mente: “… come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?”. Ecco, Gesù è la soluzione e nel suo nome possiamo dar adito a tutto lo scompiglio che ci vuole, ma con già in mano la scelta giusta da fare, che è Lui e la sua Parola. Non c’è crisi al buio nella sequela del Vangelo e ogni rivoluzione nel suo nome è un successo, perché lo scopo è chiaro. Capita l’antifona, voi che rimestate nel torbido?

Servizio o servilismo?

Inserito il 11 Agosto 2019 alle ore 10:00 da Plinio Borghi

Servizio o servilismo? Nell’atto di servire è un dubbio amletico che può insinuarsi ed è bene che ciò avvenga, perché t’impone una verifica sulla genuinità o meno del tuo agire. È infatti indiscutibile che servire, per lavoro o per passione, per impegno religioso o sociale, sia cosa buona e dignitosa, se portata avanti con professionalità ovvero con spirito di abnegazione, scevra dal perseguimento di secondi fini o, di più, da iniziative contrarie alla giusta causa. Se, però, il vero scopo recondito è quello di farsi vedere belli, di puntare al privilegio, di ingannare per avere riconoscimenti o mano libera, carpendo la fiducia (e qui una buona fetta di volontari o impegnati in politica dovrebbe compiere un bell’esame di coscienza), si scivola nel servilismo, che è uno degli aspetti più odiosi del comportamento umano. Il servile, oltrecché lecchino, è anche viscido, inafferrabile, forte con i deboli e remissivo con i forti, pronto ad assumere atteggiamenti da padrone e prevaricatore non appena il suo padrone gira l’occhio; è il burocrate che si serve della burocrazia per la personale affermazione. Ed è contro questa genia che Gesù si scaglia nelle similitudini del brano del vangelo in lettura oggi, genia vituperata più ancora perché sa bene la volontà di chi comanda o le pieghe della legge che elude per agire nell’impunità. È invece più indulgente con l’errore dell’inconsapevole, anche se comunque non lo assolve. C’è già in ciò un’anticipazione dei criteri che presiederanno il giudizio finale. Infatti, poco prima elogia il servo fedele, che il padrone al suo ritorno trova ancora “sveglio”, intendendosi per sveglio: leale, coerente, lineare, produttivo, attento alla causa, vigilante sull’andamento corretto delle cose. Sono tutte doti che il servile ignora e qui sarà il “padrone” stesso a mettersi a servizio del suo servo, gratificandolo oltre le sue aspettative. Diventa allora alquanto emblematica la frase che conclude il brano in lettura: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto (e fin qui nulla da dire, è normale); a chi fu affidato molto, sarà chiesto molto di più”. Qui vien quasi da pensare a quello che, se gli dai una mano, ti porta via anche il braccio. Non è così: quando si pretende molto vuol dire che s’è concessa una fiducia illimitata, ed è già gratificante, ma lo sarà ancor di più se risulterà ben riposta. Mi piace concludere con il gioco di parole che un mio vecchio amico parroco usava proporre: “Nella fede serve chi serve. Chi non serve.. non serve!”.

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