Inserito il 25 Marzo 2018 alle ore 10:15 da Plinio Borghi
#Perlapacenelmondo: dovrebbe essere l’hashtag più diffuso in una giornata come questa, che inizia con la benedizione e la distribuzione dell’ulivo, simbolo di pace per eccellenza. E a chi inoltrarlo, con tutto il bailamme che c’è in giro per il mondo? Beh, non c’è imbarazzo di scelta: prima di tutto a noi stessi, al nostro cervello, come forma di pressione affinché muti il modo di vedere e di pensare e di conseguenza il comportamento. Quando si parla di pace siamo sempre convinti che sia un problema legato alla guerra, la quale viceversa non è che la punta dell’iceberg di una connaturata litigiosità che va ben oltre il semplice istinto. Anche nel mondo animale esiste lo scontro, ma esso è strettamente connesso alla sopravvivenza della specie; noi, intelligenti, andiamo ben oltre, lo esasperiamo fino a ottenere talora l’effetto contrario alla salvaguardia della vita stessa e ad una nostra tranquilla esistenza. A parole siamo tutti operatori di pace, ma non appena qualcuno ci pesta un piede la reazione è immediata e violenta. Addirittura nell’esercitare il compito educativo tenderemmo a forgiare i nostri pargoli perché siano in grado, nel migliore dei casi con un certo controllo, di non farsi sopraffare dall’aggressività e dalla prepotenza altrui. Per non essere ripresi, ci siamo peritati anche di confezionare teorie adatte a giustificare l’atteggiamento prevaricatore. Quante volte Gesù, specie dopo la resurrezione, si è presentato ai suoi proferendo il “pace a voi”! E non era un saluto come un altro, bensì l’affermazione in contro tendenza di un principio reso labile dalla fragilità umana. La sua stessa passione e morte, che questa settimana ci verrà presentata nelle varie versioni, è frutto di odio verso un Uomo che ha avuto il coraggio di metterti in mora solo con la sua presenza e i suoi discorsi “scandalosi”. Perfino nell’ultima cena, fra i suoi stessi apostoli, albergava la trama e l’inganno. Il suo stretto “fiduciario”, vista la mal parata, l’ha rinnegato tre volte. Dobbiamo allora gettare la spugna? No, bensì ricaricarci e puntare alla pace a cominciare da chi ci sta attorno: famiglia, parenti, vicini di casa; e allargare via via il cerchio fino a sgretolare la base di quell’iceberg di cui si parlava. Non dobbiamo temere di passare per remissivi o rinunciatari, men che meno di rimetterci in personalità. Ogni conquista, per quanto piccola, costituirà sempre un passo in più verso quel clima che ci dovrebbe contraddistinguere come cristiani.
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Inserito il 18 Marzo 2018 alle ore 10:09 da Plinio Borghi
“Mors tua, vita mea” è il comprensibilissimo motto latino che, nel corso della storia, è stato variamente interpretato e nelle circostanze più disparate. A seconda dei punti di vista, vale come ultima sfida in un confronto bellico o in un duello; ma non è estraneo a chi agisce scorrettamente per sopraffare un altro, per una carriera a gomitate, per una delazione in cambio della salvaguardia (non occorre fare un salto di molti anni per ricordarsi cosa succedeva durante il fascismo) e così via. Eppure in natura è la cosa più normale che esista e guai se così non fosse: tutto si trasforma e si ricicla nel consueto susseguirsi della vita e ogni vita trae linfa dal declino di altre. Non ci sono tempi uguali per tutto: c’è l’insetto che termina il suo iter vitale in un’ora, un altro in un giorno e l’animale che raggiunge il secolo prima di cedere il passo; così è per le piante: l’esempio più percepibile è quello del seme, che deve morire e marcire per generare il nuovo virgulto. Gesù proprio da questo prende spunto e assimila sé stesso a quel seme, facendo così intendere che, stranamente, lo scopo principale della sua mission era proprio quello di morire, per essere glorificato fino in fondo. Questo discorso, tuttavia, non è solo per lui: vale anche per noi, attaccati come siamo alla nostra vita e alle cose di questo mondo. “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” insiste il Maestro. Sarebbe un discorso astruso, se non avessimo già avuto la prova che proprio dalla morte del Cristo deriva la nostra salvezza: mors sua, vita nostra, il motivo si ripete, ma stavolta non è un atto di egoismo. Se poi vogliamo dirla fino in fondo, a sublimare il tutto c’è proprio la vittoria sulla morte, la Resurrezione, alla quale ci stiamo preparando in questo periodo, attraverso la penitenza e qualche piccolo sacrificio di noi stessi in funzione di una rigenerazione che non ha pari. Il nostro Salvatore ha aperto una strada che poi saremo destinati tutti a percorrere. Rifiutiamo di sacrificarci? Non vogliamo morire? Ci costa rinunciare a qualcosa di noi stessi per gli altri? Saremo destinati al peggio: rimanere soli e isolati, come il chicco di grano che cade dalle mani del seminatore, ma non muore e non darà frutto. Allora il motto di apertura vada innanzitutto rivolto come atto di fede al Signore: la tua morte è la mia vita; e diventi un metodo di comportamento: la rinuncia a me stesso sia vita per gli altri.
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Inserito il 11 Marzo 2018 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Camminare guardando in alto non è un invito che vale solo per chi percorre le calli veneziane, onde evitare le fastidiose sorprese dei soliti colombi, bensì un monito universale, da applicare sia in senso letterale (chi va a scarpinare in montagna ne sa qualcosa) sia in senso figurativo. Per procedere speditamente occorre sempre guardare avanti: se guardi in giù vedi solo i tuoi piedi e inciampi, perché non avverti l’ostacolo; idem per quanto riguarda la bicicletta: mai fissare le ruote o finisci nelle rotaie del tram. Se però vuoi puntare a obiettivi ambiziosi lo sguardo deve elevarsi, oltrepassare il contingente. È in ogni caso tassativamente proibito voltarsi, come sa benissimo chi mette mano all’aratro. Visti sotto tale profilo, diventano più comprensibili sia il riferimento di Gesù al serpente di bronzo che Mosè pose in alto nel deserto, affinché alzandovi lo sguardo si venisse guariti, sia, per analogia, l’affermazione che “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Di primo acchito verrebbe da chiedersi se Dio abbia bisogno di simili “ritualità” per esercitare la sua misericordia o se la missione salvifica del Messia sarebbe stata sminuita se Gesù fosse morto in modo diverso. Perché la croce? È per noi, che solo se costretti a puntare lo sguardo oltre le miserie, le devianze e le tentazioni percepiamo il valore della posta in gioco e forse riusciamo a far sgorgare dal nostro cuore quell’anelito di speranza che ci salva. A dirla tutta, Gesù è la luce della nostra vita e, come tale, va per forza posta in alto per “funzionare”. Concludo con alcuni flash da un commento sulle letture di questa domenica svolto dal compianto don Franco de Pieri: Gesù è risposta di Luce. Ti viene a dire in questa Pasqua: “Sono Io la Luce che è venuta in questo mondo, che resta pur sempre pieno di tenebre”. Ci invita a uscire da ogni forma di tenebra che oscura la mente e il cuore, ad andare incontro alla luce. Nella notte pasquale la Chiesa accende il cero pasquale, che brilla nelle tenebre e a questa luce tutti i presenti sono invitati ad accendere la loro luce, ad illuminare cioè la loro esistenza con la luce che viene dal Cristo. Cristo non ha ancora perso la sua qualità e capacità di illuminare l’uomo. La luce in noi diventa gioia di vivere, diventa amore, perdono, pace, generosità.
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Inserito il 4 Marzo 2018 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Fuori i mercanti dal tempio! In questa giornata, in cui gli italiani sono chiamati a votare per le politiche, non poteva trovare collocazione un argomento migliore. In campagna elettorale ne hanno dette di tutte e di più e ora conta capire che abbiamo in mano uno strumento non da poco: è lo stesso scudiscio che ha usato Gesù quando ha reagito vedendo il tempio di suo Padre abusato per attività di ogni genere, soprattutto di carattere speculativo, tranne che per le funzioni inerenti al luogo sacro, anzi, quest’ultime erano proprio strumentalizzate per conseguire interessi personali. Nulla di nuovo sotto il sole, si dirà, ma quante volte, impotenti, abbiamo sognato qualche buon fustigatore che prendesse a calci senza tante storie gli inetti occupatori di sedie pubbliche e dei vari templi della politica.. e non solo! Tuttavia, non siamo mai stati molto abili a servirci del voto per compiere un po’ di pulizia “costruttiva”: ogni volta i risultati si sono spostati per qualche manciata di movimenti o, se c’è stato qualche ribaltone, è dovuto solo ad una generica protesta o a moti di insofferenza verso l’esistente, più che per scelta verso il pseudo nuovo che avanzava. Siamo anche piuttosto incostanti e pretenderemmo tutto e subito: dopo qualche mese siamo già a protestare e a gettare a mare quelli che abbiamo appena insediato. Simili atteggiamenti impoveriscono la politica e inducono chi la rappresenta, specie se uomini di mezza tacca, a prendere sempre più le distanze dal Paese reale, a sfuggire al controllo e, più che a curare gli interessi del popolo, a cucirsi sicuri paracadute per future evenienze. Per avere la forza di dare una buona spazzata dobbiamo armarci di coraggio, ma soprattutto essere convinti e conseguenti fino in fondo. L’evangelista, quasi per giustificare l’insolita sfuriata di Gesù, subito dopo ha fatto ricordare ai discepoli che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divora”. Ecco, quel che ci manca è proprio lo zelo, quel fuoco dentro, che è amore per lo Stato, la Patria, la Chiesa, le Istituzioni in generale, che sono nostre e vanno difese da tutti gli improvvidi attacchi sia esterni che interni; dobbiamo riprenderci il ruolo di sentinelle ed esercitare quella doverosa funzione di controllo che in una democrazia spetta al popolo. E per farlo non servono inutili referendum, bensì rinverdire la partecipazione. Se continuiamo a delegare e poi a esprimere proteste sterili, i “discoli”, da sempre presenti in politica (e chi non lo è lo diventa presto), continueranno imperterriti ad affondare le dita nel vaso della marmellata.
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Inserito il 25 Febbraio 2018 alle ore 10:01 da Plinio Borghi
Un assaggio di Paradiso: questa per me è sempre stata l’idea della Trasfigurazione, che Marco ci propone in questa seconda domenica di Quaresima e che poi si festeggia ogni anno il sei agosto. Non è secondario che anche a tale aspetto della Rivelazione sia riservata una giornata particolare, com’è per l’Epifania e il Battesimo di Gesù, non tanto perché ancora una volta si faccia udire la voce del Padre (“Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”), quanto per le sensazioni che “il fenomeno” ci trasmette. Il fatto di collocare il richiamo proprio in Quaresima, poi, subito dopo che ci è stato indicato come viverla e in che modo ottenere la nostra ricompensa (vedi il vangelo del mercoledì delle Ceneri), sembra quasi volerci mostrare qual è la ricompensa che ci è stata riservata. Se non fosse questo il motivo, per parlare con Mosè ed Elia avrebbe avuto bisogno il Messia di compiere la faticaccia di salire il Tabor con soli tre apostoli, ai quali poi imporre il silenzio momentaneo su quanto avevano vissuto? C’è tutta una simbologia nella ritualità adottata, che sarebbe interessante sviscerare, ma al momento conta per noi la sintesi che ne traggono i tre spettatori, pur spaventati da quanto stava accadendo davanti a loro, e che si traduce nelle parole di Pietro: “Maestro, è bello per noi stare qui”. Ecco come saremo quando entreremo nel Regno dei Cieli (le sue vesti divennero splendenti) e quale sarà l’epilogo se avremo percorso il sentiero giusto, elevandoci dal mondo, al quale in effetti apparteniamo, ma che è pronto a fagocitarci in ogni momento. Sapendo quel che ci aspetta, la nostra forza consiste nel continuare caparbiamente la ricerca della voce che ci indica la strada, nel rendere partecipi gli altri dei risultati ottenuti e in che cosa consiste la Verità che la lieta novella contiene, senza timore di essere sopraffatti. è San Paolo stesso oggi a rassicurarci: “Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”. D’altronde, basta leggere l’episodio di Abramo e Isacco riportato nella prima lettura per constatare con quale abbandono Abramo mette in atto gli ordini di Dio: segno che la forza della verità non teme confronti. Guai però adagiarsi! Chi ha imparato a sciare o a suonare uno strumento, non smette di allenarsi o di studiare perché tanto ormai sa quello che deve fare. La Quaresima è la nostra palestra, alla quale è bene ricorrere periodicamente; è il nostro auditorio, dove non deve mancare la presenza giornaliera e assidua.
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Inserito il 18 Febbraio 2018 alle ore 10:07 da Plinio Borghi
“Non di solo pane vive l’uomo” è la prima parte della frase proferita da Gesù in risposta a una delle tentazioni del demonio nel deserto. Di fatto è diventata una sorta di principio che ha trovato la più ampia diffusione nel mondo, se non in termini quantitativi, sicuramente sotto l’aspetto concettuale, con uno spettro di applicazione a 360 gradi. Dal più materialista al più credente, infatti, ci si affranca dai condizionamenti proprio prendendo le distanze dall’appiattimento su una vita di sopravvivenza. Senza scomodare come al solito gli atleti o coloro che si dedicano a imprese straordinarie, diciamo che tutti ci diamo obiettivi e ideali da raggiungere: in famiglia, nel lavoro, nello studio, nella ricerca, nell’educazione dello spirito e via dicendo; per raggiungere i quali conveniamo che ci vuole rinuncia, sacrificio e determinazione, senza lasciarsi portar fuori o sopraffare da tendenze rinunciatarie. È un po’ la sintesi di quanto il Messia è andato a fare nel deserto, richiamo a quel deserto che dovremmo predisporre dentro di noi se vogliamo mantenere la rotta prefissata. Quindi all’insegna del “non di solo pane vive l’uomo” dovremmo darci la carica, trovare la forza necessaria e, di quando in quando, rivedere la nostra vita per porre rimedio a crepe e falle subentrate, umanamente, nel frattempo. Ognuno può scegliere modi e forme che ritenga più confacenti alle proprie necessità. Per noi credenti uno dei momenti più favorevoli è la Quaresima, periodo forte per eccellenza, durante il quale tutto favorisce l’avvio di questo processo, la liturgia in primis, rivolta al grande evento finale, risolutore di ogni nostro cruccio, di ogni nostra difficoltà, dei limiti che abbiamo, del male da cui siamo circondati, della caducità della vita stessa: la Resurrezione, una Pasqua del tutto speciale, che oltre a far piazza pulita delle debolezze e degli assalti subiti di qua, apre anche una prospettiva ambiziosa e ambita per l’aldilà. Solo che bisogna che una cosa sia chiara da subito: qual è l’alimento alternativo e integrativo per l’uomo? “Ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. È la seconda parte della frase iniziale e che oggi ripetiamo proprio nel Canto al Vangelo. E la parola che è uscita dalla bocca di Dio è Gesù Cristo, il “Verbo” che si è fatto carne. Ne consegue che ripercorrere e assimilare nella nostra vita il Vangelo è il nutrimento completo ed essenziale per riuscire a essere appieno Uomini, affrancati dal mondo, e conseguire gli alti traguardi che ci attendono.
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Inserito il 11 Febbraio 2018 alle ore 10:02 da Plinio Borghi
Non ditemi dissacrante, ma quando m’imbatto nel vangelo di oggi non riesco a fare a meno di ricordare quella ormai nota barzelletta di Gesù che, vista inefficace la sua prima venuta sulla terra, tanto l’umanità è deviata, decide di ritornare ad incarnarsi. Senza rifare la trafila, sceglie direttamente una figura adatta, che ritiene sia quella del medico di base e immediatamente la sua fama di guaritore si diffonde. Un tale, cui un amico confida di essere incappato in un male incurabile, lo induce a rivolgersi a questo portentoso medico e così avviene. All’uscita dall’ambulatorio, il tale nota che l’amico è molto sollevato. Ansioso, gli chiede se avesse ottenuto la guarigione. “Certo!”, risponde l’interessato, “Prima mi ha parlato così bene da sollevarmi il morale e poi mi ha guarito!” “E non sei contento?” “Sì, però..” “Però?” “Nemmeno questo ti visita!”. Fuor di battuta, carica di sarcasmo sul metodo, ben diverso è l’epilogo del brano evangelico, che stavolta ha per protagonista un lebbroso. Prima di tutto Gesù non solo lo visita, ma gli legge nel profondo e coglie nella supplica del malcapitato “Se vuoi, puoi guarirmi!” non tanto una strumentale sviolinata quanto una fiducia incondizionata: a quell’epoca chi mai riusciva lontanamente a pensare di poter uscire dal “tunnel” della lebbra? Si era talmente convinti dell’irreversibilità del processo che si diventava ipso facto dei reietti sociali. In secondo luogo la guarigione, com’è stato per l’indemoniato dell’altra settimana e come sarà per tutti gli altri casi, deve diventare affermazione di una scelta di campo (non sono venuto per i sani ma per gli ammalati), dimostrazione di un’attenzione per i più deboli ed emarginati e soprattutto testimonianza di una fede tanto forte da spostare le montagne: va’, dirà spesso Gesù, la tua fede ti ha salvato. Aveva voglia il Maestro che colui se ne stesse zitto e si limitasse a un’offerta formale al tempio! Ha fatto una caciara tale da metterlo in difficoltà. Altro che la perplessità di quello della barzelletta! Oggi, guarda caso, festeggiamo anche la Madonna di Lourdes, una figura particolarmente collegata alle guarigioni. Chi ha avuto modo di andarci si è reso conto che già la tensione di fede che si percepisce colà costituisce di per sé un miracolo costante. Solo questa, unita alla preghiera, ha poi innescato e il florilegio di miracoli “fisici” che conosciamo. Supplichiamo Maria affinché, nella nostra fragilità, abbiamo a poter sempre contare sulla forza della fede.
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Inserito il 4 Febbraio 2018 alle ore 10:08 da Plinio Borghi
Globalizzazione o protezionismo: sembra il dilemma che andava per la maggiore in quel di Davos durante il summit mondiale dei giorni scorsi e che trovava sui due fronti l’Europa e l’America di Trump, anche se questi si è poi premurato di precisare che “prima l’America” non significa escludere il concorso degli altri. C’è da credergli se nel suo programma elettorale già parlava di un mondo post globale e ora ha appena approvato dazi superlativi per le merci che provengono dall’estero? C’è da credergli se il dollaro sta correndo al ribasso proprio per favorire l’esportazione dei prodotti americani? E in Italia c’è qualcuno che tende a sposare pedissequamente quelle tesi, invece di pensare a difendere il prodotto italiano dalle mistificazioni che da più parti si stanno perpetrando! L’altr’anno (2016), durante un’escursione nella Cina delle minoranze, ebbi a osservare alla guida quanto poco si notasse di tradizionale negli usi e costumi locali, specie nei giovani che vestivano sostanzialmente all’occidentale. “Globalizzazione, globalizzazione!”, mi rispose nel suo italiano stentato. Chiaro che là pesa la lontananza fisica dal Governo centrale e di conseguenza l’interesse, se mai c’era stato, scemava. Qui no. Una ferma protezione (che non ha nulla a che vedere col protezionismo), che passa attraverso l’impegno culturale e politico, va messa in atto, pur nel contesto di una globalizzazione che è anacronistico negare. Lo stesso Gesù, che al momento della guarigione della figlia della cananea (Mt 15,21-28) sembrò un tantino “protezionista” (“non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”), di fatto adottò solo un atteggiamento provocatorio, visto che la sua è stata una missione di salvezza “globale” e tale la pretese poi dai suoi discepoli e come oggi da noi. Nel vangelo in lettura questa domenica, dove lo si vede dedito alla predicazione e alle guarigioni, viene disturbato mentre è raccolto in preghiera perché chi ha saputo delle sue performance lo stava cercando. Egli però risponde: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. Ecco l’indirizzo del cristiano: rivolgersi al mondo; che non significa essere del mondo o compromettersi col mondo svendendo il suo “Patrimonio”, bensì farlo conoscere e condividerlo, affinché non resti prerogativa di pochi intimi. Così dovrebbe fare anche la politica, soprattutto con le risorse culturali ed economiche.
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Inserito il 28 Gennaio 2018 alle ore 09:58 da Plinio Borghi
Mamma quanti falsi maestri! Chi ha avuto l’avventura, come me, di assistere all’evoluzione di questa società post bellica e in particolare a quel picco storico che fu il ’68 non può che convenirne, specie dopo che l’epilogo ha smascherato gli attori in malafede. Sono sorti come i funghi e con l’aggravante che hanno avuto troppi seguaci, molti dei quali non si sono arresi nemmeno di fronte all’evidenza. Annidati in tutte le categorie di cittadini, fino alle altre sfere, sono costretti a mugugnare sotto vento, salvo riflussi nostalgici quando pensano di trovare terreno fertile per riprendere vecchie tesi ormai stantie. È umano, ma il guaio è che continuano, da bravi revanscisti, a rompere le uova nel paniere a chi sta con fatica costruendo un minimo di compattezza e portando nel Paese un po’ di chiarezza, sociale, politica, storica e financo religiosa. E fin qui passi: fa parte dei cicli e ricicli della vita; ma il guaio più grosso è che riescono a trovare ancora humus fra le nuove generazioni, che spesso e volentieri non fanno che riproporti dei “dejà vu” come se inventassero qualcosa di nuovo e questo, lo dice uno che conserva ancora qualche nostalgia di talune impostazioni e di vecchie battaglie, è semplicemente deprimente. Non faccio nomi o riferimenti perché si spazia ovunque, da destra a sinistra, nella Chiesa e nei suoi detrattori. Né, pur rilevandolo, mi meraviglio più di tanto, perché il fenomeno esiste da sempre ed è la storia prima o poi a farne scempio. C’era anche ai tempi di Gesù, tanto che è lui stesso, unico e vero Maestro, a metterci in guardia dai falsi maestri che si sarebbero affacciati nel corso dei tempi. Il vangelo di oggi descrive un suo intervento in sinagoga e chi lo ascolta, a proposito di quanto si diceva la settimana scorsa, si accorge che parla come uno che ha autorità, che ci crede e si mette in gioco, non come gli scribi e i farisei che erano abili a caricare gioghi sulle spalle altrui. E quel Maestro ci sta parlando da oltre duemila anni, con la sua parola ha fatto e guidato la nostra storia. Vorrei tanto dire a chi si erge a inventore dell’acqua calda: “Ma cosa cerchi rimestando nel torbido? Hai una Parola chiara, adatta alle tue aspirazioni di giustizia ed equità, che è sempre nuova e fresca, proferita da un Maestro ineguagliabile, che ti accompagna e ti è guida, purché ti appoggi con coerenza e fiducia. La puoi usare come metro per valutare chi ti vuol abbindolare. Di che altro hai bisogno?”
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Inserito il 21 Gennaio 2018 alle ore 10:25 da Plinio Borghi
Il carisma è come il coraggio: se uno non ce l’ha non se lo può dare, diceva pressappoco il Manzoni. Il carisma è sostenuto da diverse qualità, naturali e acquisite, come, fra quest’ultime, l’autorevolezza, che a sua volta prescinde dall’autorità. In Italia abbondiamo di persone alle quali è conferita, per mille motivi, una qualche autorità (dicono che un cittadino su due possa fregiarsi del titolo di “presidente”), ma scarseggiamo di persone autorevoli. Per quanto mi riguarda, nella mia lunga frequentazione del mondo della burocrazia, della politica, del sindacato e dell’associazionismo, ho potuto rilevare che proprio dalle persone senza autorità sono emersi esempi fulgidi di autorevolezza, che deriva appunto da conoscenza, competenza, preparazione, credibilità, comportamento e, non ultimo, dalla capacità di rapportarsi agli altri, fino al punto di attrarli e ottenerne rispetto. Certo, con tutti questi presupposti, avere anche autorità aiuta. Mi si sono affastellate queste considerazioni da una parte considerando la liturgia di oggi e dall’altra vedendo i consueti riti della campagna elettorale che si è scatenata. Pazienza per la solita salva di promesse che hanno la stessa consistenza di uno spettacolo pirotecnico, ma assistere alla corsa affannosa di emerite nullità per il ruolo di leader, esibendo panacee come se fossero programmi illuminati, non riesco ancora a digerirlo senza reazioni. Gesù non ha ufficialmente alcuna autorità, se non quella conferitagli dal Padre e al momento ignota al mondo. Solo più tardi, quando calmerà le acque e i venti che rischiavano di rovesciare la barca degli apostoli, questi se ne renderanno conto. Non ha ancora cominciato l’annuncio della lieta novella, per cui nella sua “campagna acquisti” non può mettere in atto tentativi di “adescamento” (nel senso etimologico: siamo in ambiente di pesca), eppure la sua autorevolezza e il suo carisma traspaiono da tutti i pori, visto che, al suo richiamo, tutti lasciano subito reti e parenti per seguirlo. “Vi farò diventare pescatori di uomini”: s’è mai sentita panzana simile e propinata a gente concreta come i pescatori? Eppure si lasciano “irretire” (sempre in senso etimologico), sentono che non è uomo da promesse fasulle, l’hanno già chiamato “rabbì” senza nemmeno conoscerlo. Mmmm.., ho la vaga idea che in questa kermesse elettorale farò come Diogene: andrò con la lanterna in cerca di persone credibili!.. Auspicando un epilogo diverso dal suo.
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