Inserito il 20 Settembre 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Siamo chiamati a scegliere: la scadenza elettorale ci sollecita uno dei diritti/doveri di maggior rilievo e cioè compiere opzioni responsabili per noi e per la nostra società. In sé, questo significa che non dovremmo ragionare secondo la logica del tornaconto personale, bensì nell’ottica complessiva di quello che riteniamo il bene comune, anche se ciò dovesse cozzare con gli interessi di parte. È con tale spirito che ci rechiamo alle urne? Ho i miei profondi dubbi, al punto che è da lunga pezza che ritengo che l’esercizio del voto non sia per niente libero; non almeno da condizionamenti e preconcetti. Nella migliore delle ipotesi assomiglia sempre più a una corsa di cavalli, scommesse incluse, e nella peggiore a una gara di braccio di ferro, dove i più incitano quello che giudicano il più forte. È il classico modo di pensare che ci contraddistingue e non lo usiamo solo in campo civile, ma pure in quello religioso, tanto che sfido chiunque a non provare un attimo di stizza nel leggere il brano del vangelo di oggi, quando il padrone della vigna corrisponde a tutti lo stesso compenso, che abbiano lavorato un’ora o un giorno. Sappiamo i motivi e Gesù non manca mai di stupirci e di richiamarci ad altre logiche diverse dalle nostre. Quella che, tuttavia, ci sferza in modo più sbrigativo e diretto è la prima lettura: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. … Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”. Come comportarci per cercare non dico di capire, ma almeno di far collimare il più possibile la nostra visione delle cose col disegno di Dio? In due modi: avere come riferimento ineludibile il Vangelo e sforzarsi di essere il più obiettivi possibile, specie quando accusiamo il Signore di guardare da un’altra parte. “Il Signore è vicino a chi lo invoca”, ripete il salmo responsoriale di oggi. Cerchiamo il confronto con Lui, in particolare quando ci assale il dubbio che il nostro modo di vedere sia un tantino soggettivo ed egoistico. Facciamolo togliendo noi stessi e le nostre pseudo sicurezze dal centro dell’attenzione e ci accorgeremo che le scelte sembreranno più oculate e più giuste. Alleniamoci così anche votando: rivisitiamo ciò che finora ci ha convinto e mettiamoci in panni diversi, così vediamo se rimaniamo saldi nelle stesse idee o se qualche dubbio ci fa vacillare. Sarebbe il primo passo verso una maggiore obiettività.
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Inserito il 13 Settembre 2020 alle ore 10:07 da Plinio Borghi
Non c’è verso: siamo vendicativi. Se dovessimo metterci di buzzo buono ad analizzare tutti i nostri stati d’animo a fronte di qualche torto o di qualche sgarbo subito, ci accorgeremmo che un “sottofondo” di rivalsa è sempre presente; per alcuni solo un po’ “sotto”, per altri molto più in “fondo”, ma c’è. “Ah, ma io non farei del male nemmeno a una mosca!”, potrebbe dire più di qualcuno. Vero, ma spesso la reazione si gioca sul piano dell’astensione: si toglie il saluto, non si telefona più, si evita di incontrarsi, non ci si mette una pietra sopra o, se lo si fa, però non si dimentica, ecc. Nei casi più attivi si gioca qualche dispettuccio e in quelli più gravi si medita di rendere la pariglia. E queste non sono che il substrato di gesti più eclatanti, che poi stanno alla base dello sgarro da far pagare, dell’onore da rivendicare, magari per generazioni, financo delle guerre, sempre all’insegna che “ciò che mi ha fatto non lo scordo” o che “l’onta va lavata col sangue”. Quasi che un atto di remissione o di perdono siano propri delle persone deboli e senza nerbo. La riprova, se ce ne fosse bisogno, si ha nella litigiosità legale che da sempre intasa i tribunali. Eppure nella stragrande maggioranza dei casi basterebbe girare la frittata: ci piacerebbe che gli altri trattassero noi negli stessi termini, in presenza di pseudo offese analoghe? Ci piacerebbe ottenere un po’ d’indulgenza? Non saremmo pronti a stimare la persona che ci perdonasse o addirittura mettesse una pietra tombale sulle nostre malefatte? Ci avanzerebbe di giudicarlo un debole? La liturgia di oggi, guarda caso, è tutta incentrata sulla bellezza e sulla grandezza del perdono, ma scende anche in modo pesante su chi cova solo sentimenti di vendetta (prima lettura) o di rivalsa (vangelo). In fin dei conti siamo tutti fallaci e tutti abbiamo bisogno di essere perdonati, ma è da mentecatti pretendere che lo facciano gli altri o, peggio, lo faccia Dio che è tanto misericordioso, senza che noi ci sforziamo di muovere un solo dito. L’unica preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre nostro, nella quale chiediamo di essere perdonati come noi ci impegniamo a fare col prossimo che ci è “debitore”. Se però zoppicassimo in questo secondo aspetto, il castigo divino è garantito. Oggi il nostro Maestro non ci da misure riduttive: perdonare settanta volte sette, cioè sempre, ed essere misericordiosi come lo è il Padre vostro. Difficile? Intanto bisogna provarci. Ogni tentativo di svicolare è solo specioso.
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Inserito il 6 Settembre 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Dire a Tizio perché Caio capisca. A leggere il vangelo di oggi in maniera piatta vien da pensare che Gesù si perda in un paio di cose un tantino discutibili. La prima nel proporre una sorta di ritualità per riprendere il fratello in colpa, quando si sa benissimo che va per la maggiore, e non solamente da oggi, il criterio che a pensare ai fatti propri si campa cent’anni. La seconda nel concludere, in caso di refrattarietà al richiamo, che il fratello “sia allora per te come un pagano e un pubblicano”, cioè, per il concetto dell’epoca, un reietto, quando ci ha predicato in mille modi di amare il prossimo comunque, fosse anche il peggior nemico (comandamento peraltro richiamato anche da Paolo nella seconda lettura). È chiaro che non è così, anzi, io penso addirittura che il monito sia rivolto soprattutto a chi di noi è in colpa, affinché si predisponga ad accettare di venire ripreso e a rientrare nell’alveo della comunità: in poche parole a convertirsi. Ogni resistenza e l’eventuale rifiuto finale dell’offerta di grazia che ci è stata messa a disposizione non possono rimanere impuniti. Infatti, più avanti il brano riprende col mandato agli apostoli che tutto quello che legheranno e scioglieranno quaggiù avrà lo stesso effetto anche in cielo. Una disponibilità al perdono e all’incontro che non ha pari. Perché allora tutto questo largo giro, fino al punto, lo si vede nella prima lettura, da mettere quasi in mora chi non ha colpa rispetto a chi ce l’ha? Per dirci che in una comunità che si richiama al Vangelo siamo tutti parimenti responsabili gli uni verso gli altri: su ognuno pesa la propria salvezza nella stessa misura nella quale conta anche quella dell’altro. Non vale quindi il criterio opportunista dianzi citato che si fa bene a pensare ai fatti propri, perché è da gretti e non dispensa amore. Se poi il fratello non risponde a tono dopo essere stato avvertito delle possibilità di redenzione, si continuerà ad amarlo e sarà Dio a decidere della sua sorte. In questo caso la prima lettura è più esplicita: se tu non fai la tua parte, sarai corresponsabile davanti al Signore della sua disgrazia, ma se avrai agito bene ed egli non si convertirà, lui sarà comunque condannato e tu sarai salvo. Quanto a giudicarlo un pagano e un pubblicano non ci compete nella fase terrena, evidentemente, perche, tanto per usare un luogo comune, finché c’è vita c’è speranza. Sarà un discorso per dopo, quando avremo parte reale nella comunione dei santi.
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Inserito il 30 Agosto 2020 alle ore 10:04 da Plinio Borghi
Quanto più facile è dire di no, piuttosto che assumersi la responsabilità di un sì condizionante, pieno di incognite e di insidie! L’abbiamo sperimentato in questa emergenza pandemica in cui la confusione ha regnato sovrana, ma l’atteggiamento è storico. Lo si riscontra pure nell’esercizio dell’educazione: sappiamo quanto controproducente sia vietare tout court invece che valutare, verificare e aprire un confronto delicato. Analogo rischio è di minimizzare il pericolo per non essere costretti a dargli la giusta dimensione e quindi affrontarlo con i dovuti mezzi, operazione riservata a chi ne ha le capacità e la competenza, certo non ai pavidi e agli insicuri. Altra tentazione, presente soprattutto nella fase nella quale ci troviamo a realizzare progetti arditi, è quella di scegliere non dico il proprio tornaconto ma metodi più comodi, magari più rispondenti alle nostre attese che alle finalità progettuali. Tutto ciò non farebbe che intralciare la speditezza e l’efficacia di governo della situazione, sminuendo sia la validità del percorso sia l’autorevolezza di chi è deputato a realizzarlo. No, non ho alcuna intenzione di esemplificare: ognuno ha avuto l’opportunità di vivere le situazioni e non ha che l’imbarazzo della scelta per soppesare i fatti che le hanno caratterizzate. Ne ho preso spunto, tuttavia, per mettere ancora in evidenza come il Vangelo si inserisca appieno nell’attualità della nostra vita e fornisca precise indicazioni difficilmente eludibili. Oggi il “solito” Pietro, che ci rappresenta in modo emblematico, prende in disparte Gesù per dissuaderlo dal perseguire un progetto di redenzione del quale egli non coglie che l’aspetto devastante. Il Messia lo aveva appena reso edotto dell’estremo sacrificio, ma la cosa era scomoda, lo privava del suo riferimento ideale in cui si era disegnato un salvatore rispondente ai propri criteri, nulla a che vedere con la visione del Padre. E il Maestro, cui non difettano certo l’autorità e la determinazione, lo sega in modo brutale, dandogli addirittura del “satana”: “Tu mi sei d’intralcio perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. Ecco la lezione magistrale, valida sia nelle scelte spirituali che in quelle sociali in cui siamo chiamati a essere protagonisti: quando sei al servizio di una cosa più grande di te, devi metterti al seguito e rinnegare te stesso per il bene della tua vita eterna nel primo caso e di quella di tutta la collettività nel secondo. Sta avvenendo così in noi e in chi ci guida? Domanda forse fin troppo retorica.
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Inserito il 23 Agosto 2020 alle ore 08:00 da Plinio Borghi
Compiacersi di noi stessi è una tentazione veniale nella quale è facile scivolare. A volte lo facciamo nella più totale intimità, se riusciamo a ultimare un lavoretto cui tenevamo o esprimiamo con destrezza le diverse abilità. Più spesso avviene quando ci supportano gli apprezzamenti altrui per le nostre opere o per le azioni che compiamo. Magari abbiamo messo tutto l’impegno possibile per ottenere certi risultati legati alla nostra intelligenza e/o alla spiccata manualità, entrambe utili in molti casi a toglierci dagli impicci, quindi non pare sconveniente più di tanto cedere a quel pizzico di vanagloria. Infatti, non lo è, se però ce l’abbiamo messa tutta per raggiungere il massimo del nostro livello e purché teniamo il debito conto dei vantaggi oggettivi di cui siamo stati dotati: i famosi talenti. Qualora invece avessimo la presunzione di attribuirci ogni merito, non saremmo più a un livello veniale ed ogni compiacimento, oltrecché suonare falso, darebbe soltanto fastidio. Penso che il taglio che Gesù ha voluto dare all’episodio riferito nel vangelo di oggi, fuori dalle interpretazioni ufficiali, sia stato proprio quello di mettere bene in chiaro il limite dei nostri meriti a fronte di quanto invece ci è stato donato. Altrimenti che senso avrebbe avuto un sondaggio estemporaneo su cosa pensasse la gente del Figlio dell’Uomo? Certamente Pietro, preso dal suo proverbiale entusiasmo, si sarà compiaciuto nel dire “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” e infatti il Maestro gli dà tosto corda col “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona”, pronto però a girargli la frittata aggiungendo “perché né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. In buona sostanza è come se gli avesse sì riconosciuto la correttezza della sua dichiarazione e la positività del suo intuito e della sua fede, ma che non se ne facesse vanto perché erano solo frutto di un dono gratuito, al quale ha saputo corrispondere. Tanto che poi gli conferisce un’investitura non da poco. Essere consci di tale gratificazione ci obbliga a valorizzare tutto ciò di cui disponiamo, come fecero i due servi della parabola dei talenti, e a non agire con come il terzo nei limiti di mera custodia, pena cedere al fatalismo che è l’anticamera della grettezza e dell’inanità. Andiamo piuttosto orgogliosi della fede, che in termini esistenziali è la cosa più bella che ci potesse capitare, e se riusciamo a compiere grandi cose gioiamo pure con noi stessi per il privilegio di essere strumento del Padre. In definitiva questa è vera umiltà.
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Inserito il 16 Agosto 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Appropriarsi di Gesù è stato il tentativo più praticato da duemila anni, sia dalle formazioni religiose, sia da filosofi, intellettuali, scismatici e financo dai suoi detrattori. Le motivazioni e gli scopi dichiarati sono stati i più vari, ma in realtà si riassumono in uno soltanto, quello di impossessarsi della Verità, per approfondirla, per svilupparla, per distorcerla a proprio uso e consumo o per negarla. Ebrei e musulmani sono l’esempio più eclatante, anche per la diffusione delle rispettive fedi, ma non va sottaciuta la situazione fra cristiani, in particolare fra cattolici e ortodossi, entrambi reciprocamente convinti che ad aver operato lo scisma siano gli altri. Sta di fatto che il Messia è entrato a piedi uniti nella storia dell’uomo e, com’era nelle previsioni, non poteva non sconvolgerla. È anche vero che il “popolo eletto” si sentiva il solo depositario del progetto di salvezza, ma è ovvio che la sua portata non poteva essere così riduttiva, tanto che il mandato finale è stato quello di evangelizzare tutto il mondo e di ricondurre tutti i popoli sotto la regalità del Figlio dell’Uomo. E a questa conclusione non si poteva arrivare che da strade diverse. Letto sotto quest’ottica, il vangelo di oggi è un po’ il “preconio” di quanto poi sarebbe accaduto in larga scala. Il Maestro che ci viene presentato sembra quasi sussiegoso, esclusivista nei confronti di quella Cananea che le chiede la guarigione della figlia. Cosa pretende quell’estranea, che Egli relega alla stregua di un cagnolino? Che si allarghino le maglie dei benefici destinati solo “alle pecore perdute della casa d’Israele”? È chiaro che la chiosa serve a dimostrare proprio il contrario, per evitare che qualcuno si creda in diritto di detenere il monopolio dell’azione salvifica dell’Unto dal Signore. Infatti, tanta è la fede che ella dimostra, nel pretendere almeno le briciole di quel pane destinato ad altri, che avviene la provocatoria conversione a U. Basterebbe questo per capire la portata del disegno del Padre per il riscatto dell’umanità, ma purtroppo l’uomo è proverbialmente duro di comprendonio ed egocentrico, per cui, invece di convergere e interagire nell’inseguire Cristo, tende ad farlo suo. Finora l’unica a poterlo dire con cognizione di causa è solo Maria, non tanto perché ne è madre quanto perché si è affidata totalmente al progetto di salvezza diventando corredentrice. La festa della sua Assunzione, appena trascorsa, è il degno epilogo del suo essersi fatta strumento. Se seguiremo anche noi allo stesso modo la sua strada, saremo parimenti gratificati.
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Inserito il 9 Agosto 2020 alle ore 09:45 da Plinio Borghi
Di qualcuno bisogna fidarsi. È l’eterno problema della vita con gli altri, sempre attenti a non farsi infilzare dal solito furbo, col risultato di uscirne oltre al danno anche con la beffa di passare per sprovveduti, che a volte crea più disagio del primo. Da qui l’invito alla diffidenza sollecitata dal classico adagio che ci frulla per la mente fin da piccoli: “Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”. In questo periodo, poi, siamo assillati da filibustieri di ogni sorta, che hanno elevato a livello scientifico la professione di truffare il prossimo, specie se sprovveduto e con meno difese. Basta sfogliare i quotidiani e abbiamo un continuo aggiornamento delle tecniche messe in atto, tanto che dalle forze dell’ordine alle associazioni dedicate si sono impostate efficaci contromosse, rivolte in particolare agli anziani, anche se sospetto che non siano gli unici a caderci, poiché i più giovani, per imbarazzo, denunciano meno. Allora? Bisogna star lì sempre con l’ansia, trasalendo a ogni suonata di campanello? Certo che no, ma sta di fatto che i più ottimisti si lasciano andare.. ma fino a prova contraria. Il vangelo di oggi, comunque, ci dimostra che siamo in buona compagnia. Pietro, visto Gesù che si avvicinava camminando sull’acqua, preso dall’entusiasmo gli chiede se può fare altrettanto. L’invito del Maestro è deciso e lui va: come non fidarsi almeno del Messia? Eppure, anche di fronte all’evidenza (stava ben camminando sull’acqua!), si fa prendere dal dubbio e comincia a sprofondare. “Uomo di poca fede!”, lo redarguisce Gesù. Per fortuna si riprende e realizza che solo da Lui può venire l’aiuto e prorompe nel grido “Signore salvami!”. Concludere che l’unico di cui fidarsi a questo punto sia solo il nostro Salvatore sarebbe riduttivo per due ordini di motivi: il primo che verrebbero meno le ragioni di uno dei grandi comandamenti del Maestro, cioè di amare il prossimo come sé stessi; il secondo che se la fede è più piccola di un granello di senapa, correremmo il rischio di non fidarci nemmeno di Lui. Termino in modo leggero con un piccolo aneddoto. Durante un pellegrinaggio in Israele, eravamo in una barca analoga a quella di Pietro sul lago di Tiberiade e, fermati i motori, la nostra guida, un vecchio arabo cattolico ben preparato e con una fede di un certo spessore (nipote di un vescovo) si rivolge all’anziano parroco che ci accompagnava dicendo: “Padre, se lei ha fede, ora dovrebbe scendere e camminare sulle acque”. Al che prontamente l’interpellato risponde in modo arguto: “È lei la nostra guida. Mi faccia strada e io la seguo!”. Cvd.
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Inserito il 2 Agosto 2020 alle ore 10:00 da Plinio Borghi
Un sogno ad occhi aperti: quante volte non ne facciamo! Oltretutto non costano niente. A me basta aprire un atlante o una cartina dei sentieri e già la mente vaga alla ricerca di mete inesplorate, vicine o lontane che siano. Ad altri può bastare un’immagine carpita dalla tv e l’effetto è analogo. Non parliamo poi della visione di un film suggestivo o della lettura di un libro avvincente, quando autori e registi ce la mettono tutta per ingenerare desiderio e curiosità e non mancano coloro che poi traducono nei fatti ciò che fino a poco prima sembravano soltanto sogni. Tuttavia, il più delle volte rimangono tali. Il Vangelo non è secondo a nessuno in tema di provocazioni e la pericope di oggi è una delle dimostrazioni più famose, nota a tutti come “la moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Banalizzando, quanti non sognano di potersi appropriare del fenomeno, specie fra chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena o non ce la fa ad arrivare a fine mese! È chiaro che il senso imposto da Gesù ai fatti non è quello, ma non siamo tanto distanti dalla realtà che voleva: una Chiesa attenta a chi ha bisogno non solo dell’alimento spirituale, ma anche materiale. La chiave dell’interpretazione più ampia sta proprio nelle parole che il Messia rivolge agli apostoli, preoccupati da quella folla travolgente che senz’altro, dopo aver ascoltato il Maestro per ore, aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti: “Voi stessi date loro da mangiare”. Era il preludio di quell’Eucaristia che ha poi trovato compimento nel mandato dell’ultima cena, quando finalmente si è concretizzato nel pane vero quel “Io sono il pane vivo disceso dal cielo”. Non basta: lo stesso mandato include anche il soddisfacimento dei bisogni materiali (e non si parla fra questi del solo cibo) specie di chi è più derelitto ed emarginato. È ciò che fanno appunto i missionari, che antepongono all’annuncio della lieta novella un lungo tirocinio fatto di attenzioni, cure, guarigioni e soluzione di problemi contingenti. Né più né meno di quanto faceva il Salvatore prima di concludere col “Vai, la tua fede ti ha salvato”. I gesti descritti costituiscono il regalo più bello del progetto di redenzione, la realizzazione di un sogno ad occhi aperti che la resurrezione ha reso credibile e possibile. A questo punto una domanda sorge come sempre spontanea: la Chiesa ha saputo essere all’altezza del mandato? Ognuno sa qual è la risposta storica e attuale e come ci sia sempre margine per migliorare, attraverso l’impegno e la preghiera.
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Inserito il 26 Luglio 2020 alle ore 10:04 da Plinio Borghi
“Gli affari sono affari”: è la frase magica che giustifica qualsiasi strategia commerciale, non sempre trasparente, talora truffaldina. E non è appannaggio di chi vende: anche chi compra non si risparmia ogni tentativo pur di strappare il prezzo più conveniente. Naturalmente i fattori da considerare sono vari, a partire dal rapporto qualità-prezzo. Tuttavia, non sempre l’aspetto più importante è l’oggetto della compravendita: a volte, e in certi Paesi orientali diventa prevalente, è la stessa trattativa che affascina, che diventa un rito nel quale ogni gesto, ogni proposta, ogni forma di interesse comunque espressa acquistano precisi significati e, se condotti nel rispetto delle regole, appaganti a prescindere da chi abbia o meno fatto l’affare. Ne consegue che il tiramolla estenuante diventa una prassi, cosa che da noi non sarebbe ben gradita. A una cosa bisogna stare attenti: se il compratore lancia un prezzo e il venditore accetta, è tassativamente proibito recedere, pena ritorsioni pesanti. Oggi, nel continuare col discorso delle parabole, Gesù ci fa capire che anche Dio si è messo in affari con l’uomo, appunto per il fatto di avergli concesso il libero arbitrio e quindi la facoltà di scegliere e di decidere. In palio c’è il Regno dei cieli, che nelle similitudini odierne è rappresentato dal tesoro trovato in un campo e dalla perla preziosissima. In entrambi i casi i protagonisti alienano tutto ciò che possiedono, pur di comprare quel campo, di ottenere quella perla. L’oggetto vale la candela, e il Regno pure. Abbiamo il vantaggio che Dio applica il sistema orientale: è di una pazienza infinita e sempre disponibile a continuare la trattativa; se diamo segno di rifiutare, ci rincorre con proposte nuove, ma togliamoci dalla testa di “fare l’affare” senza impegnarci totalmente, altrimenti sono guai. Infatti, nella terza similitudine in lettura Egli impersona i pescatori: alla fine di una pesca abbondante i pesci buoni vengono trattenuti e i cattivi buttati, preludio del grande epilogo, quando non ci sarà più margine e l’offerta verrà soppesata fino in fondo. È chiaro che l’unica cosa che non possiamo fare con il nostro Interlocutore è quella di fare i furbi con strategie fuori luogo, perché a rimanere fregati saremmo solo noi. La posta in gioco è alta, l’offerta deve essere adeguata e, una volta avanzata, se non la manteniamo saranno dolori. Anche in questo Dio è molto orientale e, d’altra parte, è proprio da quelle parti che ha voluto nascere (!?).
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Inserito il 19 Luglio 2020 alle ore 10:03 da Plinio Borghi
Il progetto di Redenzione praticamente non ha tempo: è da sempre nel disegno di Dio, anche se noi, cui non è dato di afferrare il concetto di eternità, abbiamo bisogno di circoscriverlo nei due momenti temporali che vanno dal peccato originale dei nostri progenitori, quando la cacciata dal paradiso terrestre è stata accompagnata dalla promessa che ci sarebbe stato inviato il Salvatore, al Giudizio Universale, quando il Messia tornerà nella sua gloria per consegnare il mondo redento al Padre. Quindi siamo ancora nella fase in cui tutta l’operazione è in piena realizzazione: l’inviato da Dio è stato proprio il Figlio, incarnatosi nel seno di Colei della quale il Padre disse al serpente che “a una donna insidierai il calcagno ed ella ti schiaccerà il capo”; quell’unto dal Signore fattosi Parola per indicare all’uomo la strada della salvezza, morto, affinché il beneficio fosse universale e non avesse limiti, e risorto perché solo questa vittoria sulla morte sancisce la validità di tutto il percorso. Capo della Chiesa da lui fondata e investita del compito non facile di portare a compimento il progetto, a giusta ragione il Cristo può “fregiarsi” del titolo di Redentore, che non ha una sua specificità come gli altri, bensì li riassume tutti. Bene ha fatto allora la gente di Venezia a rivolgersi a Lui come tale per essere liberati dal terribile morbo e ancor meglio ad assumere l’impegno di ricordarlo solennemente ogni anno: è l’occasione per riproporlo nella sua veste trionfante, ma anche per far mente locale sul compito che abbiamo di dare concretezza alla sua opera. Le difficoltà non mancano mai e la peste assume non solo i connotati del morbo, ma si allarga allo svilimento di valori, al disordine sociale, al degrado della civiltà, ecc. Il maligno non sta mai con le mani in mano e continua a tentare di demolire i progetti divini. È il noto discorso della zizzania, che sarebbe stato proposto dal vangelo di oggi se non fosse prevalsa la festa del Redentore. Purtroppo bisogna lasciarla crescere assieme al grano buono e separarla al momento del raccolto per poi bruciarla: preludio del top dell’azione redentrice, e cioè il grande Giudizio, così ben descritto nel cap. 25 di Matteo. Fino ad allora non ci resta che il ricorso al padrone del campo, cioè al nostro Redentore, affinché ci preservi dall’essere attaccati dalla mala pianta, come si è adoperato in occasione della pestilenza. Se poi gli domandiamo una mano anche per liberarci dal Corona virus di oggi, non guasta.
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