Inserito il 5 Novembre 2017 alle ore 10:21 da Plinio Borghi
Millantare credito è una pratica diffusa nella nostra società, giacché va di pari passo con la difficoltà ad essere sé stessi, a presentarci per quello che siamo. Ne abbiamo facile riscontro nel campo del commercio e nella relativa pubblicità: se dovessimo prendere per buono tutto quello che ci propinano non conteremmo le conseguenti fregature; invece siamo costretti a farne almeno la radice quadrata. Un tempo il concetto era ben riassunto nella famosa frase in lingua locale: “Xe come domandarghe a l’osto se ‘l vin xe bon!”. Non parliamo poi dello spreco di titoli che girano indebitamente, derivati spesso da un fugace approccio a qualche incarico (dagli onorevoli in giù è un florilegio), ma spesso nemmeno da quello e costruiti ad arte per impressionare gli interlocutori: abbiamo in circolazione più presidenti che automobili! Anche se conseguiti regolarmente, vengono sovente sbandierati in maniera strumentale; non siamo più al “lei non sa chi sono io”, altrimenti al giorno d’oggi incrementerebbe in maniera esponenziale la produzione di pernacchie, ma siamo lì con forme più sottili. Anche nell’ambito della gerarchia ecclesiastica si è teso più di qualche volta a sovrabbondare e a spacciare come conseguito per meriti qualche titolo onorifico invece acquistato. E pure qui talora di quelli effettivi si fa sfoggio nell’abbigliamento (rigorosamente previsto dalle norme) senza ragioni di sostanza. Papa Francesco ha richiamato spesso alla sobrietà e al ritorno all’essenziale. Ce n’era proprio bisogno? Il vangelo di oggi dimostra non solo che il problema è atavico, ma che basterebbero le parole di Gesù a riportare le cose a più miti pretese: “Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro … E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo …”. Senza contare come aveva redarguito scribi e farisei poco prima: “… Amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze …” e non si comportano come predicano. La prima lettura è ancora più pesante con i sacerdoti che non ascoltano la parola del Signore: “Cambierò in maledizione le vostre benedizioni”. Non sono moniti rivolti ovviamente solo al clero, come potrebbe sembrare. Infatti Paolo offre come sempre alcuni spunti comportamentali per agire da persone che hanno ascoltato e assimilato il Vangelo. Varrebbe la pena di ripercorrere, magari a casa, con calma, tutti e tre i testi e farne tesoro.
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Inserito il 29 Ottobre 2017 alle ore 11:05 da Plinio Borghi
“Ama e fa’ quello che vuoi”. Sono parole di S. Agostino e sintetizzano molto bene il messaggio notissimo che ci arriva dal vangelo di oggi: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente … amerai il tuo prossimo come te stesso”; il quale, a sua volta, comprime drasticamente tutta la legge: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i Profeti”. È come se Gesù bollasse d’inutilità la pletora di normative che l’uomo si dà per regolamentare sia i rapporti con Dio sia quelli della convivenza civile. C’erano tante di quelle prescrizioni che pesavano sugli ebrei, che il Maestro non manca di mettere in mora sacerdoti, scribi e farisei per questo, accusandoli di gravare il popolo di orpelli che loro manco si sognavano di portare. Oggi le cose non stanno tanto diversamente. Forse abbiamo semplificato il modo di rapportarci con Dio, non più di tanto, ma per quanto riguarda il prossimo abbiamo una caterva di leggi, specialmente in Italia, tante che spesso entrano in contraddizione fra loro, servono solo ad alimentare un carrozzone giudiziario e a far guadagnare soldi agli avvocati. E allora navigo con la fantasia e immagino quanto sarebbe bello se avessimo realmente solo quei due comandamenti per regolare i nostri rapporti col Creatore e col prossimo. Intanto non sarebbe possibile amare pienamente Dio se non si ama e si rispetta con altrettanta intensità il creato. Non esisterebbero più scempi in natura, cesserebbe qualsiasi problema ecologico, di inquinamento e così via. Pensate se in tribunale si pesasse qualsiasi infrazione con la bilancia dell’amore, senza tirarla tanto per le lunghe con dibattiti che non fanno che tendere a sminuire la gravità dei comportamenti! Quanti meno reati ci sarebbero! Le norme diventerebbero semplici prescrizioni per una corretta convivenza e non avrebbero bisogno di contemplare sanzioni. Per l’accoglienza, poi, avremmo le braccia aperte come quelle di Gesù in croce! La prima lettura, dal libro dell’Esodo, ci richiama in proposito: “Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto»..”. Andrebbe riletta tutta, perché veramente riflette il lato pratico di ciò di cui stiamo parlando. Bah, detto nel dialetto abituale, xe mejo che me daga ‘na descantada! Chissà se arriveremo mai almeno a imboccare questa strada! Intanto il Vangelo continua imperterrito a stimolarci da duemila anni.
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Inserito il 22 Ottobre 2017 alle ore 08:06 da Plinio Borghi
Tirare Dio per la giacchetta è il primo gradino del soggettivismo, cui si arriva proprio attraverso il tentativo di creare Dio a nostra immagine e somiglianza, dimenticando o fingendo di dimenticare che tutto era caso mai iniziato all’inverso. Senza farlo apposta, a mano a mano che l’uomo ha invertito la logica di partenza mettendo al centro sé stesso e le proprie esigenze, incurante di allinearsi al progetto che il Padre aveva ed ha su di lui, ha di fatto aperto la strada ai detrattori di un Creatore, agli gnostici, agli atei, all’insinuazione che qualsiasi divinità è pura invenzione dell’uomo, il quale ha un bisogno fisico e psicologico di qualcosa di trascendentale. Bel servizio, eccellente, non c’è che dire! La scena che il Vangelo ci descrive oggi, arcinota a tutti tanto da far assurgere a livello di motto comune la famosa frase “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, è emblematica di come si arrivi a tentare d’ingannare il Signore per portar acqua al proprio mulino. Si sa che il Messia che doveva venire era visto come un liberatore del popolo eletto, allora soggiogato dai Romani, e che sacerdoti e farisei non avevano né il coraggio né l’interesse di fare i capi popolo contro l’oppressore. Di contro gli zeloti rimasero delusi da un Gesù che apparentemente predicava un atteggiamento remissivo. Insomma questo Maestro aveva deluso tutti e quindi cercare di farlo cadere in contraddizione perché fosse tolto di mezzo era diventato lo sport preferito. Gesù, come al solito, non si lascia prendere per il naso: “Ipocriti, perché mi tentate?”. In sostanza, avete accettato di servirvi di quella moneta con l’effige di Cesare e allora gli pagate anche le tasse, ma senza sottrarre il dovuto a Dio. Ci sono due implicanze in questa risposta: la prima è che il cristiano non può sottrarsi agli obblighi che l’ordinamento sociale in cui vive gli impongono (vox populi vox Dei); la seconda è che nulla può giustificare un comportamento elusivo dell’attenzione dell’uomo al progetto che Dio ha su di lui. Ovvio che non è facile pensare con la “testa” di Dio (a volte nemmeno con la nostra!), altrimenti non saremmo qui a ragionarci, e per farlo il primo atteggiamento è quello di farsi guidare da Lui, come recitiamo nella Colletta. Dio può servirsi di tutto e di tutti. Ciro il Grande, che non lo conosceva affatto, è pur stato un suo strumento per la liberazione del suo popolo, come ci illustra la prima lettura. Smettiamola allora di fare i furbi con Lui.
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Inserito il 15 Ottobre 2017 alle ore 11:03 da Plinio Borghi
Il senso di appagamento che si prova alla conquista di una postazione prestigiosa inseguita da tempo o della poltrona di responsabilità per la quale ti sei spezzato le reni lavorando ovvero del posto a tavola in pole position a un simposio o ad un meeting, osservato e ammirato da tutti, è a dir poco indescrivibile. Del primo aspetto ho letto proprio domenica scorsa, in un bollettino parrocchiale del vicariato, la testimonianza della mamma della campionessa italiana di ginnastica artistica: erano le parole di chi ha seguito l’impresa (che registrava oltre tremila partecipanti “tutte assetate di vittoria”) con un occhio di riguardo, ma facevano trapelare prima l’ansia, poi la trepidazione, il brivido, l’emozione e infine la gioia. Figurarsi i sentimenti della protagonista che si è sciolta in lacrime nel ricevere la medaglia! Sul secondo aspetto non mi soffermo, perché chiunque stia leggendo avrà efficaci esempi da addurre. Del terzo, invece, dopo aver provato esperienze in varie sistemazioni, posso testimoniare di quanto siano appaganti quelle citate, sebbene io mi senta più seguace di de Coubertin: conta partecipare. Ebbene, con questi discorsi siamo in pieno clima delle letture che la liturgia di oggi ci propone. C’è un banchetto preparato sul monte dal Signore, dice Isaia, dove tutti i popoli sono attesi, nessuno escluso, e dove finalmente si riconosceranno e non vi saranno più lacrime né morte. Un po’ drastico invece il racconto di Gesù, che cita quante persone di prestigio, pur invitate, disattendano l’adesione adducendo mille veri o finti impegni e come uno dei poveracci e diseredati chiamati a coprire i posti a tavola, scoperto senza “l’abito nuziale” e cioè “senza carte in regola” per meritare il posto, venga legato e gettato nelle tenebre, dove sarà “pianto e stridore di denti”. Ma come? Se veniva già dalla strada, perché dovrebbe star peggio? E invece è proprio quest’ultimo che dà un senso alla premessa: stava assaporando l’appagamento di poter essere al banchetto speciale e la perdita è cocente. Il salmo 22, richiamato nel Responsoriale, fa sintesi del clima che si gode nella casa del Signore: non si manca di nulla, si riposa in placide acque, non si teme più alcun male perché si è con Lui, è preparata una mensa davanti ai nemici e il calice trabocca, felicità e grazia sono compagne. Vogliamo giocarci tutto ciò per rincorrere le nostre fatuità? Padronissimi. Poi però non ci si lagni quando, fra pianti e stridore di denti, ci si renderà conto di quel che s’è perso!
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Inserito il 8 Ottobre 2017 alle ore 10:51 da Plinio Borghi
Tradire le aspettative è il peggior dispetto che si possa fare a chi aveva riposto fiducia negli impegni, ma anche verso noi stessi. Non sempre si tratta di un dispetto voluto e gli episodi che si leggono nella prima lettura e nel vangelo di oggi ne sono la dimostrazione. Protagonista è sempre la vigna, intesa come il popolo eletto, che in un caso non dà frutto buono e quindi è destinata ad essere abbandonata e calpestata; nel secondo caso sono i vignaioli che non consegnano il dovuto e anzi uccidono sia gli inviati del padrone sia il suo stesso figlio (cosa che gli ebrei fecero con i loro inascoltati profeti e faranno poi con Gesù stesso) e quindi ad essere sacrificati saranno proprio quegli stessi ingrati. Tocca a noi oggi la responsabilità di consegnare i frutti dovuti. Siamo decisi a non disattendere la fiducia che il Padre ha riposto sui novelli figli? O il nostro andamento ondivago finirà per tradire ancora una volta le sue aspettative? Non precipitiamoci a rispondere, ché non succeda come per il primo figlio di domenica scorsa, entusiasta nel dire di sì, ma poi latitante. Sappiamo quali difficoltà s’incontrano nel compiere semplicemente il proprio dovere, figurarsi se non aumentano in modo esponenziale quando si tratta di aderire ad una chiamata particolare. Penso nella fattispecie alla vocazione sacerdotale, a quali e quante aspettative non solo il Signore, ma pure le comunità ripongono in questi “vignaioli specializzati” e a come troppe volte vengono meno al loro compito precipuo che è quello, come per tutti gli educatori, di dare il buon esempio nel vivere la loro scelta da veri eroi. Il Papa sta dimostrando tutta la sua contrarietà per i fatti di questi tempi, come c’è in tutti il rammarico quando taluno, per il quale magari si sarebbe messa la mano sul fuoco, non ce la fa più e abbandona il campo. Non meno rigorosità è riservata a chi riceve la vocazione, ma con superficialità declina l’incarico. Tanto impegno si esige anche da parte degli “operai qualificati”, come potrebbero definirsi tutti i laici impegnati nell’opera missionaria di trasmettere la fede, a partire dai catechisti e a finire con la “bassa” manovalanza che agevola i servizi. Ricordiamo la parabola dei talenti: tutti siamo tenuti a farli fruttare e comunque è negletto chi li nasconde. A questo punto sarebbe utile e opportuna per ciascuno una bella riflessione: stiamo rispondendo alle aspettative che Dio ha su di noi ovvero siamo dalla parte degli imboscati o, peggio, dei traditori?
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Inserito il 1 Ottobre 2017 alle ore 10:21 da Plinio Borghi
Vatti a fidare delle promesse! È diventato un luogo comune che i politici in ciò hanno surclassato anche i marinai, specie in campagna elettorale. Che non crediamo però di toglierci con nonchalance la polvere dalle spalle, come se questo non ci riguardasse: essi ci rappresentano alla grande e soprattutto non se la sono inventata la tecnica dello scaricabarile quando vengono sgamati. Infatti, la percentuale di chi traffica pur di guadagnarci o semplicemente apparire è inversamente proporzionale a quella di coloro che poi, se le cose vanno storte o non riescono a stare al passo, si assumono in pieno le proprie responsabilità. Ha voglia di predicare San Paolo (II lettura di oggi) che “ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma piuttosto quello degli altri”! Ci vorrebbe Diogene con la sua lanterna per scovarne. Se poi la guardiamo con la lente della frase precedente: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso”, non basta più nemmeno la bacchetta del rabdomante. Sotto quest’aspetto, la parabola che Gesù racconta nel vangelo sembra addirittura sopra le righe, oltrecché chiaramente retorica: è ovvio che fa la volontà del padre il figlio che, pur inizialmente rifiutandolo, poi esegue l’ordine, al contrario di quello che dice subito di sì e poi latita. Sta di fatto che del primo si trovano ben scarsi imitatori, anche perché non conviene: nessuno si accorge, non c’è palese riscontro; mentre del secondo gli omologhi si sprecano, come si diceva all’inizio, e intanto incassano plausi e consensi. Attenti però a fare i furbi. Subito dopo il nostro Maestro scende a piedi uniti e colpisce duro: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. E per chi sgrana gli occhi e magari polemizza pensando che bisogni solo essere degli ex per avere attenzione aggiunge: “È venuto Giovanni sulla via della giustizia e non gli avete creduto (e poi dirà: non vi siete nemmeno pentiti così da credergli); i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto”. Sulla stessa lunghezza d’onda è la prima lettura dal libro di Ezechiele: se il giusto si allontana per commettere iniquità, muore; se l’ingiusto desiste dal male e, pentito, agisce con rettitudine, vivrà. Misericordia per tutti, sì, ma ho la vaga impressione che se qualcuno si approccia convinto di essere più furbo, e magari confezionando un comportamento ingannevole a suo uso e consumo, avrà filo da torcere per ottenerla.
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Inserito il 17 Settembre 2017 alle ore 08:29 da Plinio Borghi
Esterrefatti e molto arrabbiati è solo la minima parte della ridda di reazioni che si affastellano quando ti arrivano notizie come quella del branco che si avventa sulla coppia polacca e sul transessuale con una violenza inaudita o dell’ennesimo femminicidio perpetrato con brutalità inusuale, magari coinvolgendo innocui bambini, ovvero della strage del solito ubriacone alla guida, senza contare gli atti terroristici a sfondo pseudo religioso attuati col metodo del “chi ciapo ciapo”. Sono convinto che se nell’immediatezza avessimo fra le mani i beceri fautori di simili misfatti nessuno di noi sarebbe esente dalla tentazione di infliggere loro la più sofisticata e sadica delle torture cinesi finché non abbiano scontato al massimo tutte le sofferenze che hanno fatto patire alle loro vittime innocenti. Eh sì, sembra che la vecchia legge del taglione avesse il suo motivo d’essere. Eppure quand’era in vigore qualcuno predicava: “Il rancore e l’ira sono un abominio, il peccatore li possiede. … Perdona l’offesa del tuo prossimo … Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore?” È il tono della prima lettura di oggi dal libro del Siràcide, che conclude così: “Ricordati dell’alleanza con l’Altissimo e non far conto dell’offesa subita”. Siamo a livello di anteprima, perché Gesù nel Vangelo va oltre e non solo incita a perdonare, sempre, ma addirittura ad amare chi ti fa del male. La nostra tendenza relativistica ci porterebbe ad insinuare che è la logica dei Maestri della fede pretendere il massimo per ottenere almeno il minimo e battere insistentemente su questo tasto, data la nostra natura umana refrattaria e reattiva, pena il caos morale, e anche sociale. Tuttavia, è chiaro a tutti che, se potessimo agire d’istinto, quale merito ce ne deriverebbe? L’eroismo che ci è chiesto per essere santi consiste nel vivere con serietà il nostro credo nella quotidianità delle cose. Non è facile e in ogni caso ci vuole il suo tempo ed è proprio il tempo che prima o poi ci fa vedere anche i misfatti più repellenti sotto una luce diversa, nell’approfondire le situazioni a monte. Di primo acchito il povero nonno della strage di Erba continuerà a sembrare un marziano, ma poi ci accorgiamo che forse la sua fede salda ha accorciato i tempi per arrivare alla comprensione. Mentre scrivo, sto sentendo il Papa a Bogotà e la mia poca fede induce la ragione a pensare all’utopia. E invece… chissà!
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Inserito il 10 Settembre 2017 alle ore 11:03 da Plinio Borghi
Correggere per amore è diverso dal correggere con amore: nel primo caso è una questione di sostanza e nel secondo di metodo. Nella figura del medico, o meglio del chirurgo, si nota meglio la differenza: se interviene con amore il paziente è rovinato; deve essere deciso, risoluto e, se serve, anche brutale. Ciò non toglie che lo debba fare per amore, non solo del prossimo, ma anche della sua professione, della sua missione, della sua deontologia. Tanto vale per l’educatore, che agirà sempre per amore e doserà i modi in base alle circostanze e ai soggetti. Sui genitori, non ci piove che operino “naturalmente” per amore, ma in loro è pure essenziale, soprattutto nei primi anni di vita dei pargoli, agire tanto “con” amore, perché è quello che i neonati e gli infanti percepiscono di più. Per la “correzione fraterna”, molto ben esemplificata nelle letture che la liturgia odierna ci propone, il discorso non cambia, con l’aggiunta di un’attribuzione di responsabilità della quale spesso non ci rendiamo conto, anzi, tenderemmo ad eluderla, fedeli al principio che a pensare ai fatti propri si campa cent’anni. Errore! Ezechiele è chiaro: il Signore dice che se tu avrai ammonito l’empio ed egli non si rimedierà, questi morirà comunque, ma tu sarai salvo; se invece non lo avrai distolto dal suo comportamento, tu sarai ritenuto responsabile della sua rovina. Gesù nel vangelo indica addirittura un percorso per le ammonizioni, solo ultimato il quale potrai sentirti “esente” nei confronti del riottoso. Da notare che in tutte e tre le fasi (dialogo personale, poi con i testimoni e infine con l’assemblea) s’impone la massima discrezione e il rispetto. Noi invece tendiamo esattamente all’opposto: pettegolezzo a nastro (l’ultimo a saperlo è sempre l’interessato), tam tam sui social, diffamazione generale (il termine che si usa di solito è più incisivo, ma poco consono in questo contesto) e rovina dell’immagine. Questo non è proprio “agire per amore”, men che meno correzione fraterna. D’accordo, non è facile seguire la strada indicata dal Maestro: le reazioni sono quasi sempre scomposte e nessuno ama sentirsi chiamato in causa. Tuttavia, farlo è un obbligo e se il fratello percepisce che si fa per amore, uno spiraglio per far breccia si apre. San Paolo, nel ricordare che tutta la legge si riassume nell’“amerai il prossimo tuo come te stesso”, conclude con una frase efficace: “L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore”.
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Inserito il 3 Settembre 2017 alle ore 11:49 da Plinio Borghi
Annientare noi stessi è il motivo conduttore di tutte e tre le letture di oggi: nella prima Geremia, sedotto dal Signore e per questo deriso, non riesce a toglierselo dal cuore, perché il fuoco che ormai vi arde è dirompente; nella seconda San Paolo ci esorta addirittura ad offrire i nostri corpi come sacrificio vivente gradito a Dio e pertanto a trasformarci per poter discernere secondo la Sua visione; nel vangelo Gesù è addirittura più esplicito nell’affermare che se qualcuno lo vuol seguire deve rinnegare sé stesso e prendere la propria croce. Parole tutte che abbiamo sentito ripetere non so quante volte; ma è credibile che uno riesca sul serio a rinnegare sé stesso? Riflettiamo un po’. Noi ci guardiamo allo specchio e ci vediamo belli, come ho già accennato in altre circostanze. Poi usciamo, ci guardiamo attorno e ci sentiamo i migliori. Siamo talmente egocentrici da pretendere che il mondo giri attorno a noi e se qualcosa non va non siamo noi, bensì il mondo a girare al rovescio. Facciamo una fatica pazzesca ad accettare un’osservazione, figurarsi poi ad ammettere di aver torto: siamo come tanti colonnelli Buttiglione che non si arrendono mai, nemmeno di fronte all’evidenza. Insomma, Pietro, che si permette di dire che è Gesù a sbagliarsi sulla sua effettiva missione, è il nostro emblema. E a noi siffatti viene richiesto di annientarci? Mission impossible! Eppure la posta in gioco non è così indifferente e la frase che il nostro Maestro aggiunge subito dopo ne da il giusto peso: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”. Già. Volendo temporeggiare, ci si potrebbe domandare: “Ma perché bisogna proprio gettare alle ortiche la propria vita, che in fin dei conti il Creatore ci ha concesso così com’è, per poter ottenere quella eterna? Non si possono avere entrambe? In effetti, Gesù non dice di non vivere questa vita al meglio, ma di essere consapevoli comunque delle priorità, di ragionare secondo l’impostazione di Dio, come fu “costretto” a fare Geremia. Questa vita deve essere un investimento in funzione dell’altra, non in alternativa, croci da portare comprese, altrimenti l’avremo persa e pure per niente. Tant’è vero che saremo giudicati, come conclude il vangelo, secondo le nostre azioni. Bella a tal proposito la seconda domanda che pone il Maestro: “O che cosa un uomo potrà dare in cambio della sua vita?”. Appunto.
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Inserito il 27 Agosto 2017 alle ore 11:23 da Plinio Borghi
Che fatica, Papa Francesco! Non passa giorno che qualche grattacapo non arrivi ad assillare i già gravosi impegni del nostro Pontefice, specie in riferimento a comportamenti poco ortodossi di taluni suoi prelati, anche di alto lignaggio. E lui sempre lì, a cospargersi il capo di cenere per le colpe altrui e a pretendere, giustamente, maggiore rigorosità da tutti: tolleranza zero. Bontà e fermezza gli sono compagne. Diciamocelo francamente: non è facile e forse in ciò risiede una delle ragioni principali per cui il suo predecessore Benedetto XVI, avvenimento storico, ha rassegnato le dimissioni. Per governare una Chiesa bisogna prima di tutto che ci sia una Chiesa da governare, una Chiesa che sia fedele, specie in chi la rappresenta, al mandato ricevuto da Cristo e che proprio oggi il brano del Vangelo in lettura ci ricorda. Il troppo soggettivismo nel regolare il proprio comportamento e il troppo relativismo nell’interpretazione delle verità fondamentali stroppiano e minano alla radice la credibilità dell’Istituzione stessa. Quanto mi piacerebbe che oggi Gesù ripetesse a ognuno la domanda rivolta agli apostoli, dopo aver chiesto che ne pensasse di Lui la gente: “E tu chi dici che io sia?”! L’imbarazzo sarebbe palpabile, perché non basterebbe una risposta qualsiasi, alla quale verrebbe fin troppo facile ribadire: “E allora perché non ti comporti di conseguenza?”. Nell’affermazione spontanea e profonda di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!” ci sta tutto l’impegno di incarnare in sé il Verbo, cosa che gli ha fruttato quel po’ po’ di investitura. Non per questo da quel momento egli ha dimostrato una coerenza inoppugnabile, anzi. Tuttavia la sua fede gli ha fornito tutta la capacità di recupero che poi ha dimostrato. È vero che il nostro Maestro ci ha garantito che le porte degli inferi non prevarranno contro la sua Chiesa, ma è anche vero che l’unione fa la forza ed entrambe ci sono date dalla coerenza. È bene che tutti, clero in testa, si dia una significativa sterzata, intanto con un bel bagno di umiltà. Sant’Agostino oggi ci fornisce una preghiera di colletta che vale la pena di recitare con convinzione: “O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e di desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia”. Già disporci con questo stato d’animo, sarebbe un buon salto di qualità.
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